A tu per tu con...

“Benedetto sia l’Islam più fanatico perché ha dissotterrato un’espressione sepolta dall’incuria e dal benessere: civiltà. Non c’era più traccia consapevole di civiltà fino a quando i suoi nemici islamici non l’hanno messa in pericolo e a confronto. Non si parlava di civiltà se non come sinonimo di buona creanza o di mezzi tecnici avanzati, fino a che la barbarie del terrorismo e il violento attrito tra due mondi diversi non ha colpito la vita, i luoghi e l’immaginario della nostra civiltà, fondata sui pilastri della grecità, della romanità e della cristianità. Certo, nessuna ragione potrà compensare le tragedie innescate dal terrore, la vita troncata di migliaia di persone, a New York come altrove.

Ma a tragedie avvenute e non rimediabili, è inutile continuare a piangere sul sangue versato; cogliete almeno quel che di buono lascia il male. E il buono è una civiltà che si scuote dal suo dolce e disperato spegnersi, con noncuranza e automatismo. Una civiltà che smette di viversi addosso ma anche di piangersi addosso e si ripensa come tale, nel confronto con la barbarie e con altre civiltà”. Sono i primi pensieri che il lettore troverà in Contro i barbari. La civiltà e i suoi nemici, interni ed esterni (Mondadori, 2006), l’ultimo successo editoriale di Marcello Veneziani: una decina di capitoli con tanto di Decalogo finale attraverso cui l’autore fa sua la paura serpeggiante nella nostra contemporaneità, nel nostro mondo occidentale, nella nostra Italia. Paura (e paure) che nascono da un presente ricco di nemici pronti a colpire la nostra vita quando meno te l’aspetti, pronti a dipingere le strade di un rosso sangue che per il nostro Paese sembra un drammatico flash-back su un buio periodo vissuto una trentina d’anni fa: “la tesi che percorre questo testo non la nascondo ma la dichiaro subito in faccia anche se ha già occhieggiato in queste prime pagine: la nostra civiltà non ha solo un nemico ma due. Uno esterno e aggressivo, che si identifica con il fanatismo islamico e uno interno e dissolutivo, che si identifica con la voluttà della decadenza, il compiaciuto degrado, il piacere di distruggere esperienze antiche e coetanei pregiudizi. I tiranni fuori, i vigliacchi dentro, si direbbe con linguaggio carducciano. Uno vorrebbe annientarci, l’altro vorrebbe distruggerci nel Niente. Assassinio o eutanasia della civiltà. Questo libro sostiene che vi è un nesso tra i due aspetti, interno ed esterno: sostiene, cioè, che non si possa prescindere dall’uno se si vuole affrontare l’altro. Sono connessi ed indicano entrambi il senso di una civiltà”. La conversazione con Marcello Veneziani è pacata e cordiale, ma -soprattutto- altamente stimolante per la qualità dell’interlocutore e la competenza nell’affrontare gli argomenti: dall’altra parte del telefono c’è uno dei più prolifici e sensibili intellettuali di casa nostra. Pugliese di nascita e romano d’adozione, Veneziani ha alle spalle studi filosofici che ne hanno, evidentemente, orientato le idee politiche e la florida penna che oggi è nostra ospite: giornalista, scrittore e studioso di filosofia, già editorialista del “Giornale” e del “Messaggero” ed oggi di “Libero”, è stato membro del Consiglio d’Amministrazione della Rai -“vista dal di dentro, quando ero in carica, quell’esperienza fu esaltante, mi impegnò molto, ma una volta fuori me ne sono pentito del tutto!”- Il Borghese, L’Italia e lo Stato sono riviste e settimanali che lo hanno visto attivo in qualità di fondatore ed animatore. Queste sue ultime pagine, oggetto della conversazione di questa settimana, si leggono d’un fiato, non foss’altro perché parlano di noi stessi e delle diverse opzioni che oggi vengono praticate: “gli spiriti pratici risolvono tutto con la guerra all’Islam e i moralisti con l’autocritica dell’americanismo mondiale. Non si salva una civiltà semplicemente indicando un nemico assoluto o all’opposto negando che esista, se non dentro di noi. Bellicisti alla Fallaci o pacifisti come gli europii” (termine quanto mai appropriato! n.d.a), “la civiltà si salva se ci chiamiamo dentro, se riconosciamo che il nostro avvenire non procede in automatico, non è solo nelle pinze della tecnica e non riguarda solo la nostra vita singola e privata. Ma è dentro un orizzonte comune, più grande e più duraturo, che è la nostra matrice, la nostra origine, il nostro grembo: la Civiltà, Nostra Madre. Questo è, oggi, l’amor patrio più consono alla nostra epoca: il patriottismo di civiltà”. Non occorre molto per accorgersi -l’impressione, libro a parte, mi si è materializzata già dalle prime battute al telefono- che Veneziani, evidentemente, fa sua la crociata in favore delle origini della nostra civiltà, delle sue tradizioni (Elogio della tradizione?), dei suoi modi di esprimersi, che poi sono semplicemente i nostri. Una difesa sentita ed accorata che l’Occidente ha iniziato a manifestare all’indomani della tragedia del World Trade Center, quel drammatico 11 settembre del 2001, ma che forse tutti noi occidentali (italiani in testa) avremmo dovuto iniziare a manifestare molto tempo prima, fondandola innanzitutto su una tradizione storico-culturale praticamente unica, su un attaccamento ai valori che reggono la nostra Storia da secoli. Insomma, per dirla alla Fallaci, noi occidentali avremmo dovuto utilizzare non soltanto l’arma della “rabbia” quanto quella dell’ “orgoglio”: orgoglio che viene direttamente da un passato storico che vede il nostro Vecchio Continente -e Veneziani lo sottolinea- “non un club ma una civiltà: nessuna polis è possibile senza una koiné su cui fondarsi: l’Europa esiste solo come civiltà e la nostra civiltà passa attraverso il recupero di una dimensione che abbiamo dimenticato, ovvero la formazione di una cultura popolare europea. Da anni riteniamo i due termini incompatibili e desueti: cultura designa sempre più un circuito elitario, spesso autoreferenziale, separato dal mercato e dalla maggioranza; e popolare si identifica con volgare, mercantile, rozzo e dunque incolto. E’ bene chiarire che l’Europa è una e plurale: unità non è uniformità. La forza dell’Europa è nella diversità, la sua ricchezza è nella differenza culturale e sociale, locale e nazionale, linguistica ed etnica. Non il progetto di Stati Uniti d’Europa ma l’idea di un’Europa delle patrie nel segno della civiltà può costituire una risposta fondata alla globalizzazione. Dunque, non unificazione europea ma unione armoniosa”. Veneziani è un giornalista ed uno scrittore prolifico, i cui titoli abbracciano temi chiaramente politici e filosofici: Secolo sterminato (Rizzoli), Processo all’Occidente (1990), Comunitari o liberali (Laterza, 1990), La rivoluzione conservatrice in Italia (1992), Fine dell’Italia (1992), Sul destino. Se la vita non sorge per caso (SugarCo1992), Rivoluzione conservatrice in Italia (SugarCo, 1994), Sinistra e Destra (1995), L’antinovecento. I profeti del terzo millennio (Mondadori,1996), Decamerone italiano (1997), Padania, Italia. Lo Stato nazionale è soltanto in crisi o non è mai esistito? (con G. Miglio, Le Lettere, 1997), Politicando. Il caso Italia. Gli anni della transizione: febbraio 1992-febbraio 1998 (con B. Sorge, Marietti 1998), 68 pensieri sul ’68 (Loggia De’Lanzi,1998), Comunitari o liberal. La nuova alternativa (Laterza, 1999), Vita natural durante (Marsilio, 2001), Di padre in figlio (Laterza 2002), Il segreto del viandante. Nostalgie di un contemporaneo (Mondadori, 2003), La cultura della destra (Laterza, 2002), La sconfitta delle idee (Laterza, 2003), I vinti. I perdenti della globalizzazione e il loro elogio finale (Mondadori, 2004), Lucia Leuci. Free tour. Catalogo della mostra (con Luca Beatrice e Camillo Langone (Coniglio Editore 2005), La sposa invisibile (Fazi, 2006), Comunitari o liberal. La prossima alternativa? (Laterza 2006). E Marcello Veneziani è anche un giornalista molto esposto dal punto di vista dell’impegno politico: è un intellettuale di destra, quella delle tradizioni e dei valori che ancorano il nostro Paese alla sua storia secolare: me lo confessa sinceramente, senza fronzoli e giri di parola: “se si intende, per impegno politico, il fatto che io sia dichiaratamente “di destra”, non ho nessuna difficoltà ad ammetterlo; se, invece, ci si riferisce ad una più netta collocazione partitica, devo confessare che ho sempre mantenuto una sostanziale indipendenza, perché la mia attività è principalmente intellettuale, culturale. E per me, essere di destra, significa lottare per la tradizione, per la continuazione di valori e principi cui una parte della nostra Storia è legata…”. Molti dei temi che ritrovo nel Suo ultimo libro, mi rimandano dritto ad Oriana Fallaci! “Di Oriana Fallaci ammiravo la virilità! Tra teste di burro, pavidi cuori ed animi spenti, vedi finalmente qualcuno all’altezza della storia, in grado di capire la tragedia dell’epoca senza rifugiarsi negli arcobaleni della retorica e del pacifismo. Il generale Fallaci non esitava a chiamare nemico il nemico, marcia contro di lui, non fa sconti, non arretra. E da militare in assetto di guerra non discetta sui valori né discute sui principi, ai quali probabilmente non crede, ma li difende come si conviene ad un soldato, passando come un carrarmato sui nemici e con gli anfibi sui pregiudizi. A volte usando anche un linguaggio da caserma, diretto e brutale… E gavettoni a chi non si sveglia. Altro che quote rosa! Oriana era grigioverde. I pamphlet della Fallaci sono un genere letterario efficace, a volte godibile, come dimostra il loro successo: sarebbero un mezzo disastro se diventassero linee di politica estera per i governi…”. A questo proposito, Veneziani, proprio i libri della Fallaci hanno aperto una lunga querelle su immigrati islamici, ingresso nel nostro Paese e rischi di attività sovversive… “Mi soffermo su tre punti cruciali dell’appassionata chiamata alle armi della Fallaci in difesa della nostra civiltà e della nostra vita: il primo riguarda gli immigrati islamici. La Fallaci non vuole (voleva, n.d.a.) cacciarli dall’Europa ma li considerava invasori privilegiati che deturpano la nostra civiltà e restano sempre ospiti mal sopportati; non potranno mai essere appieno cittadini integrati. Anche a me non piace l’Eurabia, come lei la chiamava. E poi se la detesto, non amo l’Ameuro presente, ossia l’Europa americanizzata e Usa-dipendente. Anch’io sono convinto che troppa demagogia nostrana li abbia invogliati a venire e protegga anche la loro arroganza. Sull’immigrazione meglio essere realisti: non si può considerare un bene, ma non può essere fermata o cancellata. Bisogna saperla governare, arginare, regolamentare! La seconda questione che sollevava la Fallaci è il rapporto con l’Islam: con i terroristi non si dialoga e nemmeno con i loro sostenitori, tuonava la giornalista fiorentina. D’accordo, ma non possiamo ridurre l’intero mondo islamico al terrorismo e i suoi tifosi, che pure sono tanti: perché non è vero, perché non è giusto. Ma soprattutto perché non ci conviene sostenerlo: se anziché circoscrivere, allarghiamo il conflitto, ci troviamo non milioni ma miliardi di persone contro, svariati Stati, alleanze, Paesi, aree intere. Il nemico va circoscritto per circondarlo, non va dilatato a dismisura. La terza questione chiama in causa la civiltà cristiana: qui vengo all’appello della Fallaci a Ratzinger e al suo dissenso verso Wojtyla: promuova una crociata contro l’Islam, diceva la Fallaci a Benedetto XVI, non si metta a dialogare come il suo predecessore. E invece fanno bene i pontefici a non cercare il conflitto: primo, perché è la loro missione; mi preoccupano i generali che si genuflettono al nemico ma anche i preti bombardieri. Non si combattono gli imam e gli ayatollah trasformando i nostri vescovi in imam e ayatollah. Con il comunismo, Giovanni Paolo II fu grande, ma anche con l’Islam e l’Iraq scelse la strada giusta. Così Ratzinger. Entrambi, del resto, non sono mai stati sostenitori della pace a ogni costo e a ogni prezzo, non hanno escluso l’extrema ratio della guerra giusta e dell’intervento militare se è in pericolo un bene superiore come la civiltà cristiana”. Queste pagine trasudano di rabbia e di preoccupazione non soltanto per i tanti nemici che la nostra società è costretta ad affrontare dall’esterno quanto -ed è la cosa più preoccupante- per il suo stesso atteggiamento interno: “ho scritto che l’inciviltà non sempre è lontana nel tempo e nello spazio, anzi vive ed abita in mezzo a noi, ed è tornante, come la barbarie rinnovata descritta da Vico. Ho davanti agli occhi alcune tracce pietose di capelli e unghie di Giusy, una ragazza uccisa in modo atroce a Manfredonia. Un barbaro crimine come se ne sentono tanti. Ma tre domande mi tormentano: c’è una speciale brutalità dei nostri tempi? Questi delitti nascono da deliri individuali o collettivi? L’Italia, il Sud, sta soffrendo un imbarbarimento particolare, una bestialità di ritorno, oppure è il segno di un clima generale, non riconducibile alla nostra gente?” Così, partendo da un presente alquanto cupo, ancor più allarmato da nemici interni ed esterni che sembrano aver preso di mira la civiltà occidentale che a sua volta sembra fare di tutto per infilarsi nel più classico degli imbuti storici, Veneziani termina la sua serie di riflessioni con un “Decalogo del risveglio della civiltà”, finalizzato ad un “nuovo amor patrio”, operazione non certo facile, visto che l’autore di queste pagine ha ben poca fiducia nelle classiche “tre agenzie pubbliche di massa” deputate ad infondere coraggio, ad ispirare il senso civico: “ci vuole un animo grande, un pensiero forte e una vista lunga per rigenerare una civiltà. Quasi quanto generarla. Non è virtù di un singolo, naturalmente. La potenza di un pensiero che incontra un’epoca è necessaria a dare prospettiva a una civiltà, perfino più delle armi, della tecnologia e del livello economico di vita: bisogna essere all’altezza di scenari mondiali e di scommesse audaci, sia nell’innovare che nel conservare; anzi di più, sia nel rivoluzionare che nel restaurare. Cogliere l’essenziale di quel preciso momento storico che gli altri non sanno vedere”.
La Provincia Cosentina
Egidio Lorito