A tu per tu con...

Quando coordinai la presentazione dell’ultimo (per ora) romanzo di Giuseppe Lupo, nell’agosto del 2004, durante la rassegna culturale che ogni anno attira a Maratea -in riva a quel Tirreno che si contendono Campania, Basilicata e Calabria- alcuni degli autori più famosi ed apprezzati del panorama editoriale italiano, con le rispettive roboanti case editrici, sapevo bene che la Calabria sarebbe prepotentemente entrata in quella manifestazione. Il patron Enzo D’Elia mi “costringe” sempre a leggere le opere e a prepararmi a dovere, ma quella sera andai attrezzato più del solito perchè l’autore che mi ritrovai tra le mani nel salotto culturale di Piazza del Gesù aveva vinto, nel 2001, il Premio Giuseppe Berto.

Per me, Giuseppe Berto significa Capo Vaticano, battaglie eroiche per la tutela di quel meraviglioso tratto di costa calabra: significa un veneto che nel 1957 arrivò su quel magico promontorio, tra calette bianchissime, mare cristallino, fichi d’india ed ogni sorta di elemento naturale da paradiso terrestre per rimanervi praticamente sino alla morte, nel 1978. E la Calabria, almeno quella che intendo io, sarà sempre debitrice verso questo intellettuale di Mogliano Veneto… Accanto avevo un intellettuale lucano come Mario Trufelli, ovvero la “storia” della Rai in Basilicata ed un docente universitario del calibro di Franco Vitelli: me ne stavo sul palchetto affascinato ad ascoltare lezioni di letteratura, di estetica, di storia delle tradizioni popolari, di paesaggio e paesaggi, quelli che un Berto o un Leonardo Sinisgalli avevano contribuito a restituire al mondo sotto forma di versi, di saggi, di amore appassionato. Giuseppe, ti ritrovo volentieri ospite di questo salotto cartaceo! “Serata indimenticabile, quella, ed occasione ghiotta questa sulle pagine di un quotidiano calabrese, io che alla Calabria di Ricadi e Capo Vaticano sono ormai legato per essere il presidente del “Premio Berto”, riconoscimento istituito nel 1988 dalla moglie Manuela Perroni nel decennale della scomparsa di quell’intellettuale che -credo- abbia contribuito a riavvicinare non poco le sue due Regioni, due culture, due mondi solo all’apparenza distanti. Il Premio, giunto alla diciannovesima edizione, sarà assegnato nella cittadina veneta il prossimo 9 giugno -com’è consuetudine il luogo di premiazione si alterna edizione dopo edizione proprio con Ricadi- da una giuria composta anche da Mario Baudino, Goffredo Buccini, Andrea Cortellessa, Paolo Fallai, Laura Lepri, Giorgio Pullini, Marcello Staglieno e Gaetano Tumiati;ed è articolato in due sezioni, opera prima di un narratore, redatta in lingua italiana ed opera di narrativa straniera, di un autore vivente, pubblicata in lingua italiana. Cosa dire: Berto ed il suo animo inquieto rimangono segno tangibile anche della tua Calabria!” Giuseppe, presentati ai nostri lettori! “Sono nato ad Atella, in provincia di Potenza, nel 1963: vivo in provincia di Milano, a Rescaldina ed insegno Letteratura Italiana alla Cattolica: i miei interessi, stimolato dalla figura del poeta lucano Leonardo Sinisgalli, si spingono nella direzione della cosiddetta “letteratura contaminata” o “letteratura di periferia”, vale a dire nell’analisi sui rapporti tra la letteratura e quelle discipline che interagiscono con essa: la pittura, l’architettura, la pubblicità, il teatro, il cinema, la fotografia. Si tratta, quindi, di spingersi in una zona di frontiera che vede al centro non la letteratura pura ma quella impura, cioè quella che si spinge sul terreno di altri linguaggi, realizzando l’ambizioso progetto di una cultura politecnica, composta da numerose forme di espressività”. Due sono i romanzi che lo hanno fatto conoscere a pubblico e critica: L’americano di Celenne (Marsilio, 2000- Premio Berto 2001, Premio Mondello Opera prima 2001 e Festival du premier roman 2002) e Ballo ad Agropinto (Marsilio, 2004). Ma la sua pubblicistica punta dritto alla ricerca sulla letteratura italiana del Novecento: Sinisgalli e la cultura utopica degli anni Trenta (Vita e Pensiero, Milano, 1996: Premio Basilicata per la saggistica 1998), Poesia come pittura. De Libero e la cultura romana (Vita e Pensiero, Milano 2002), Le utopie della ragione. Raffaele Crovi intellettuale e scrittore (Aliberti, Reggio Emilia 2003). Ha curato, inoltre, gli scritti di Sinisgalli, Furor Geometricus (Aragno, Torino 2001), La vigna vecchia (San Marco dei Giustiniani, Genova 2005) e Gallo reale (San Marco dei Giustiniani, Genova 2005);quelli di Libero De Libero, Racconti surreali (Aragno, Torino 2002) e Solstizio (San Marco dei Giustiniani, Genova 2005);di Giulio Cesare Croce, Le sottilissime astuzie di Bertoldo (Baldini&Castoldi Dalai Editore, 2005), di Michele Parrella, Poesie 1947-1996 (Avagliano Editore, Roma 2007);del volume miscellaneo Sinisgalli a Milano. Poesia, pittura, architettura e industria dagli anni Trenta agli anni Sessanta (Interlinea, Novara, 2002), dell’antologia Il Secolo dei manifesti. Programmi delle riviste del Novecento (Aragno Editore, Torino 2006) e dell’epistolario La storia dei Gettoni di Elio Vittorini (2007). Allora partiamo da Leonardo Sinisgalli… “Nel 1996 uscì il mio primo volume di saggi “Sinisgalli e la cultura utopica degli anni Trenta” che si guadagnò il Premio Basilicata per la Saggistica 1998: l’idea che stava alla base di questo lavoro scaturiva da alcune curiosità che ero andato accumulando negli anni quando studiavo l’opera di questo grande intellettuale lucano, oggetto anche della mia tesi di laurea: esse riguardavano la vita e l’opera del poeta di Montemurro, ma quando si trattava di analizzare gli anni milanesi -gli anni Trenta soprattutto- le ricerche sembravano sorvolare. “Sinisgalli”, dicevano, “a Milano ha frequentato i pittori della galleria “Il Milione” e gli architetti delle riviste “Casabella” e “Domus”“. Non dicevano altro. Ho cominciato a passare in rassegna”Casabella”, “Edilizia Moderna”, “Tecnica ed Organizzazione”, “Domus”, a guardare i cataloghi delle mostre realizzate al “Milione”: insomma, ad entrare dentro quei documenti che mai e poi mai sarebbero stati analizzati dagli studiosi (a chi viene in mente di considerare “Casabella” una rivista per letterati?) e mi sono accorto che su quelle riviste tecnico-scientifiche scrivevano poeti e scrittori, fra cui lo stesso Sinisgalli”. Radunatosi a Milano negli anni Trenta, il gruppo dei poeti ermetici meridionali costituito da Libero De Libero, Alfonso Gatto, Salvatore Quasimodo e Leonardo Sinisgalli, dà luogo ad un sodalizio in cui si incrociano letteratura e poesia, arti figurative ed architettura e si attua un incontro fra scienza ed utopia che sta all’origine dei progetti di Edoardo Persico e Adriano Olivetti: luoghi privilegiati del dibattito che ne scaturisce sono riviste tecniche quali “Casabella” e “Domus”, periodici d’ambito letterario come “Corrente” e “L’Italia letteraria”, gallerie d’arte tra cui spicca quella del “Milione”. In questa Milano si afferma la figura di Leonardo Sinisgalli: in lui si congiungono, poliedricamente, le frontiere della vocazione poetica e algebrica, l’inclinazione alla speculazione filosofico-matematica e l’interesse per le macchine sviluppatosi sulla scia degli insegnamenti di Leonardo da Vinci e questo vasto retroterra rende la sua voce di poeta-ingegnere tra le più originali del Novecento. “Mi sono accorto, in altre parole, che a Milano negli anni Trenta, si produceva un esperimento di primo piano: dare origine ad una cultura del dialogo tra i linguaggi e le più diverse discipline, una cultura che aveva il suo modello in Leonardo Da Vinci. E, manco a dirlo, anche Sinisgalli, uno dei protagonisti di quella cultura, si chiamava Leonardo. Per questa ragione ho voluto ricordare la straordinarietà di quella cultura identificandola con un aggettivo particolare: utopica. E’ una cultura utopica perché cerca di riportare il discorso ai tempi del Rinascimento, quando esisteva l’unità del sapere. Su una linea simile di indagine, dopo il libro su Sinisgalli, ho lavorato sulla Roma degli anni Trenta: un tipo di realtà totalmente diversa da quello di Milano, anche se per altre ragioni anche a Roma si realizza un dialogo tra le arti, soprattutto tra la letteratura e le arti figurative. “Poesia come pittura. De Libero e la cultura romana” (2002) è un libro incentrato tra i poeti Giuseppe Ungaretti, Libero De Libero, Giorgio Vigolo e i pittori della Scuola Romana, ovvero Mario Mafai, Scipione, Antonietta Raphael, Corrado Cagli, Antonio Donghi, Giuseppe Capogrossi, Emanuele Cavalli: l’idea è stata di dimostrare che tra le due arti sorelle vi fosse un rapporto assai stretto fino ad ipotizzare (e a dimostrare) che i poeti hanno attinto alle immagini degli artisti e i pittori hanno trovato ispirazione leggendo i versi dei poeti. I nuclei tematici in cui questa operazione avviene sono i temi biblici, il confronto con i miti della cultura classica e le suggestioni del surrealismo”. Ed arriviamo al 2000: quell’anno pubblicasti, per la collana Farfalle di Marsilio, L’americano di Celenne… “Nel mio studio ho due scrivanie: una per il lavoro saggistico e l’altra per quello narrativo. Quest’ultimo è nato prima dell’altro, anche se dal punto di vista editoriale ho pubblicato prima il saggio su Sinisgalli e poi ho fatto l’esordio come narratore. Scrivo racconti da quando avevo vent’anni e naturalmente gettavo tutto quello che mi pareva non fosse dignitoso: un giorno, dopo essermi laureato, mi sono messo sulle tracce di Raffaele Crovi, scrittore ed editore (erano gli anni di Camunia e del successo editoriale de “I fuochi del Basento” di Raffaele Nigro);gli porto un dattiloscritto e dopo un mese Crovi mi risponde: “gettalo, ma se hai qualche idea vieni da me e discutiamone”. Sono andato a trovarlo quando mi è venuta in mente la storia di uno stalliere lucano, disertore a Caporetto, che fugge con un caro amico a New York e in poco meno di una decina d’anni, lavorando come un asino, diventa ricco: ma poi, all’apice della ricchezza, quando non sa più cosa farsene dei soldi, abbandona New York e gli amici e, misteriosamente, riprende la nave per tornarsene in Basilicata. Crovi mi ha ascoltato per un pezzo, poi mi ha detto: “è la tua storia. Devi scriverla così come me l’hai raccontata”. La storia di Danny Leone è diventata la storia raccontata in L’Americano di Celenne che Crovi mi ha aiutato a pubblicare da Marsilio: quel libro -che nel 2001 vinse il Premio Berto ed il Premio Mondello-Opera prima- ha significato per me uscire allo scoperto, rivelarmi anche nella veste di narratore, assumermi i rischi. Ed è stata un’esperienza felice sapere che il libro colpiva i lettori soprattutto per un aspetto originale: raccontare l’emigrazione meridionale negli Stati Uniti senza cadere nella trappola della nostalgia e della melanconia. Chi dice che gli emigranti fossero piagnucoloni? Possibile che un emigrante, che lascia alle spalle la povertà, arrivi a New York con le lacrime agli occhi? Non sarebbe meglio ipotizzare un atteggiamento esattamente contrario, cioè vivere la città di New York (quella degli anni Venti, di Al Capone e di Rockefeller, del Cotton Club e del jazz, di Primo Carnera e delle grandi banche) come una grande giostra? Questa è stata l’idea che stava sotto quel mio primo romanzo: si può essere emigranti -quindi attaccati al paese- senza negare l’avventura di trovarsi in un mondo nuovo, in un’utopia dove si realizzano i sogni. Danny Leone, il protagonista, ragiona così e si trova ad attraversare il decennio d’oro degli Stati Uniti con questa prospettiva. Poi c’è la crisi del 1929, Primo Carnera perde il campionato mondiale di boxe e Danny Leone ritorna in Italia. Tuttavia un pezzo d’America se lo porta dietro e quando arriva a Celenne, naturalmente, nessuno lo riconosce: era partito stalliere, ora ritorna ricco. Ma convince i nuovi amici a fondare una Jazz band, fa ascoltare la musica di Louis Armstrong, insomma trasforma un paesino dell’Appennino lucano come Celenne in un avamposto di nuovo mondo!”. Quattro anni dopo è la volta di “Ballo ad Agropinto”, quello della presentazione di Maratea! “Non ti nascondo il successo di critica! Anche questo è un romanzo antropologico, con un carattere fortemente picaresco: ma mentre nel precedente tutto ruotava attorno al personaggio principale, qui si prende a protagonista una comunità di sfaccendati e miserabili, vissuti tra l’armistizio del 1943 ed il 1958. Il centro del racconto è un villaggio, protagonista è un villaggio: insomma, ho cercato di realizzare l’obiettivo di scrivere un libro su un paese dove vive una razza particolare di abitanti;gente povera che anziché lagnarsi e piagnucolare della propria povertà, ribalta il dolore in gioia, la miseria in festa. Non a caso l’epigrafe che ho scelto per il libro è tratta dal Salmo 30 che recita: “hai mutato il lamento in danza / il vestito di sacco in abito di festa”. L’idea di partenza è di osservare uno degli aspetti tipici del Meridione da una prospettiva diversa: nel primo romanzo era l’emigrazione qui il capovolgimento della povertà. L’idea, insomma, di non continuare su una lettura pietistica, ma di percorrere strade alternative, per cui l’effetto di questo ribaltamento ideologico determina un romanzo che sembra una grande festa collettiva, una festa carnevalesca: i personaggi trafficano, smerciano, rubano, amoreggiano, si fanno dispetti, sognano in un villaggio che non a caso si chiama Fosso del Pidocchio, vivendo in una dimensione “edenica” (passami l’ironia!) che è frutto della predicazione di un frate irregolare che parla loro del mondo dell’avvenire, un mondo di casa senza serratura e di cancelli senza lucchetti. Cioè di un mondo senza denaro e senza proprietà privata. C’è chi, tra i critici, ha parlato di “paradiso zingaresco” o di “anarchismo evangelico”. Insomma, questo romanzo, assai più del primo, afferma una visione politica -nel senso di polis, luogo dove gli uomini si organizzano e vivono- che presenta caratteri utopici: l’utopia di un francescanesimo pauperista, da Città del Sole. Ciò che mette fine a questa vicenda e che determina la morte della comunità, è la partenza di uno dei personaggi, l’io narrante, che è costretto dalla moglie a prendere il treno e a raggiungere la Lombardia dove trovare un lavoro da operaio presso l’azienda Pirelli. Si esce dal mito per entrare nella dimensione storica: il lavoro in fabbrica, la vita urbana, l’ordine geometrico della modernità”. Detto da un lucano che vive in Lombardia fa un certo effetto…
La Provincia Cosentina
Egidio Lorito, 31-03-2007