Tra il confine calabro -lucano -rappresentato dagli ultimi chilometri di percorso del fiume Noce, condiviso tra i territori di Maratea e Tortora- e la foce del fiume Lao, corrono circa venti chilometri di costa, la cui particolarità non è legata esclusivamente all’ambiente marino, ma al fatto di rappresentare il naturale sbocco sul mar Tirreno della parte nord -occidentale del territorio del Parco Nazionale del Pollino: si tratta di un paesaggio dominato dall’imprescindibile binomio mare -monti, uno dei più complessi ed articolati eco-sistemi non solo della penisola calabrese, ma sicuramente anche di quella italiana. Una linea di costa non uniforme: pianeggiante nei territori di Tortora e Praia a Mare, per trasformarsi in alta piattaforma pensile -caratterizzata da strapiombanti pareti a mare - nel territorio di S. Nicola Arcella e nella prima parte di quello di Scalea, per continuare -ancora pianeggiante- nella vasta e produttiva foce del Lao, sino all’estremo limite di Punta Cirella.

Ed è proprio in questo variegato habitat che brilla il territorio di Praia a Mare: “è ubicata a pochi metri dal mare in un tratto di costa varia ed attraente per i l clima, per la lunga, larga e morbida spiaggia, per l’incantevole scogliera di Fiuzzi ove si erge ancora su uno scoglio -solida e maestosa - la cinquecentesca torre di difesa costiera, per l’affascinante e misteriosa isola di Dino (…) accovacciata come un mastodontico cetaceo con la testa rivolta alla costa in un mare ceruleo, bluastro e verdastro…”. Così la descriveva l’indimenticato prof. Giuseppe Guida nel volume “Santuario della Madonna della Grotta e Praia a Mare”, opera pubblicata per i tipi della Ca labria Letteraria Editrice proprio nel 1994, anno della scomparsa dell’insigne uomo di cultura ed educatore, originario della vicina Lagonegro, le cui doti professionali ed umane sono -di diritto- patrimonio della storia locale. Delimitata a nord dal terri torio del comune di Tortora, a nord -est da quello di Aieta ed a sud dall’abitato di S. Nicola Arcella, Praia rappresenta la sintesi del rapporto tra storia ed ambiente: risale al X° secolo d.C. il primo insediamento abitativo cui le fonti storiche fanno r isalire le origini della prima antichissima comunità locale: era la spiaggia degli Sclavoni (Plaga Sclavorum), ovvero di un gruppo di Slavoni che dall’adriatica Dalmazia si erano stabiliti in questa parte dell’Italia meridionale come base per i propri comm erci. Da quella data, le vicende storiche hanno preso le direzioni più disparate: dal medio Evo, il territorio praiese sarà parte integrante del Comune di Aieta e ciò sino al 1928, anno in cui il nuovo ente amministrativo -Praia a Mare, appunto- ottenne la piena autonomia. E come per tutti i centri limitrofi, anche qui una montagna -per la precisione una collina - ne ha segnato la storia: “ in una di queste colline, quella del Vingiolo -di natura calcareo-dolomitica a scogliera, sulla cui falesia basale sono visibili le tracce di antichi livelli marini, al di sotto di un terrazzamento marino quaternario e quasi alla base occidentale - si apre e penetra nelle viscere della collina, a circa 90 metri sul livello del mare, un’ampia caverna divisa in tre grandi gr otte intercomunicanti….” Ancora dalle parole di Giuseppe Guida non è difficile cogliere come il Vingiolo e la Grotta non rappresentino semplicemente due bellezze naturali, ma esempi di un intimo legame tra la popolazione ed il proprio territorio, legame c he da secoli ha fatto di questa collina e di questo antro qualcosa di ben più profondo del semplice contorno paesaggistico, non fosse altro che in quella grotta è venerata da 677 anni la statua della Madonna della Grotta, appunto. Le frammentarie fonti st oriche sull’apertura al culto della grande caverna si perdono nella notte dei tempi, così come non è stata detta la parola fine, a causa dei discordanti giudizi, sulla reale provenienza della statua di legno d’ulivo alta 85 cm, forse arrivata nell’agosto del 1326, via mare, dall’Oriente: “le forme tozze e rigide, i panneggiamenti a grosse pieghe pesanti, gli accentuati caratteri realistici dei volti e delle capigliature farebbero pensare piuttosto che ad un’opera di origine bizantina, come qualche volta si è creduto, ad un lavoro di ingenuo carattere popolare di età forse non anteriore allo stesso secolo XIV e di origine non molto lontana” ( G. Isnardi, Praia a Mare e l’Isola di Dino, Esi Napoli, 1965): fatto sta che quella statua li venne venerata ininterrottamente siano alla notte tra il 3 ed il 4 marzo del 1979 quando autori rimasti ignoti, la trafugarono. Una lunga scalinata pavimentata con ciottoli marini, di circa 100 metri, favorisce l’ingresso alla grande caverna suddivisa in tre grotte: la prima, c he reca la pietra nera su cui nel 1326 fu adagiata la statua lignea; la seconda -la più estesa- con la cappella della Madonna della Neve, datata XVI° secolo; e la terza, con la cappella che custodisce l’altare e la nicchia che ospita la copia della statua. Tutti gli antri sono dotati di naturali aperture esterne, ben visibili dall’abitato, e su tutto il complesso si erge la torre campanaria risalente al XVIII° secolo. Tra il 1957 ed il 1970 -sotto la direzione dell’Istituto italiano di Paleontologia Umana dell’Università “La Sapienza” di Roma - una meticolosa campagna di scavi, diretta prima dal Prof. Blanc e poi dal Prof. Cardini, contribuì a fare chiarezza sull’indubbio prestigio storico -religioso del luogo sacro. E proprio dal belvedere della grotta, in direzione sud, non sfugge all’occhio l’imponente bastionata dell’isola Dino, altro simbolo della natura locale: “l’ora di partenza consigliabile per poter godere tutta la bellezza del panorama e dei riflessi di luce nelle grotte, è non più tardi delle ore 11: il percorso migliore è di circumnavigare l’isola seguendo la rotta est -nord-ovest…”. Ancora Guida nel suo “Praia a Mare e territorio limitrofo”, datato 1973 -in uno dei numerosi itinerari turistici lungo la costa - invitava i lettori a visitare quell’affascinante e misteriosa isola, il cui perimetro ( di circa tre chilometri), ospita numerose ed affascinanti grotte che, insieme ai ricchi fondali, l’hanno giustamente resa famosa non solo tra gli appassionati di sport subacquei. Un complesso di un iti nerari naturalistici che danno il senso di ricchezza - ancora tutta da valorizzare e tutelare - presente nelle acque praiesi, da sempre oggetto sguardi, di obiettivi fotografici e di tele di pittori, che l’hanno immortalata a tutte le ore, in tutte le tonali tà: “ la parte superiore, dolcemente declinante verso ovest, è piuttosto brulla, coperta di terra rossiccia su cui si sviluppa una fitta vegetazione erbacea con prevalenza di graminacee, dimora preferita di nugoli di grilli, di cavallette e di ogni tipo di ortotteri, di rettili, e di qualche ultimo esemplare di conigli selvatici; i bordi e i pendii, dove la roccia e coperta anfrattuosità terrose, sono coperti di varia vegetazione che, in alcuni settori del lato settentrionale, scende fin quasi fino al mare: si tratta di macchie di mortella, di lentisco, di erica, di alfa, di euforbie, di erbe salmastre dai fiori gialli, violacei e rossastri, di lecci e di qualche pino (…)”. E che dire del sistema di grotte -le più conosciute, localizzate lungo il versante me ridionale- come quella del Leone, quella Azzurra, quelle delle Cascate e delle Sardine; o dei fondali, dove vaste praterie di gorgonie dagli scintillanti colori, da millenni continuano a muoversi al ritmo delle maree, “formando grandi ventagli di colore rosso-bordeaux, evidente alla luce dei fari, che possono raggiungere anche il metro di altezza”, come ricordano i giovani sub del gruppo Deep Inside, attivi nel valorizzarne le bellezze nascoste ai più.
Apollinea, anno 7 n. 6 - 2003 Egidio Lorito, 12-11-2003