L’analisi del calabrese Aldo Maria Morace, ordinario a Sassari e presidente della Fondazione

Qualche anno orsono, nell’ottica di una valorizzazione delle culture regionali per come teorizzato da un grande studioso di localismi come Carlo Dionisotti, videro la stampa venticinque volumi con le più significative pagine della narrativa calabrese: venticinque grandi autori del tessuto vivo della nostra cultura venivano ripresentati al grande pubblico per riorganizzare le fila di un discorso mai sopito sulla genesi e l’importanza della tradizione regionale nella culturale nazionale.

A dirigere la collana venne chiamato Aldo Maria Morace, calabrese “doc”, Ordinario di Letteratura italiana presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Sassari, nonché presidente della “Fondazione Corrado Alvaro”: l’obiettivo era quello di cogliere il senso profondo di pagine dedicate alla Calabria, rese finalmente in forma agevole, distribuite capillarmente per raggiungere il maggior numero di lettori. Ne venne fuori la “Biblioteca delle Regioni”: “è trascorso poco più di mezzo secolo da quando il grande studioso della letteratura Carlo Dionisotti ha teorizzato l’importanza delle culture regionali nella ridefinizione di un quadro policentrico della letteratura italiana: sino ad oggi è mancato un progetto editoriale in grado di disegnare, tramite l’offerta ai lettori di un vasto numero di pubblicazioni relative a specifici ambiti locali, la fitta trama di relazioni che intercorrono tra le culture delle varie regioni italiane e la cultura nazionale”.

Ecco l’occasione per restituire ai lettori le pagine più intense e non sempre più famose degli scrittori “regionali”, nel senso -quest’ultimo termine- del legame con il proprio territorio, perché poi questi autori (Répaci, La Cava, Dumas, Seminara, Campanella, Strati, Padula, Gissing, Zanotti Bianco…) hanno travalicato i confini calabri per tuffarsi nel mare magno della cultura universale. A guidare l’uscita fu Corrado Alvaro, scrittore, giornalista, intellettuale di respiro europeo con “Il mare, una raccolta di quattro romanzi brevi (o racconti lunghi: L’ultima delle mille e una notte; Solitudine; Il mare; L’uomo nel labirinto) che prende il titolo dal testo eponimo; fu pubblicato da Corrado Alvaro nel 1934 e, da allora, non più ristampato dall’autore. Tornò alla luce solo alcuni anni dopo la sua morte, nel 1963, in La moglie e i quaranta racconti”: proprio Alvaro, dunque, la cui opera fu protesa, sostanzialmente, ad unificare la realtà sovranazionale e l’immagine stessa della Calabria della prima metà del Novecento.

Sempre Morace ricostruì la genesi e le vicende legate a quella raccolta di Alvaro: “i quattro testi sono stati composti in due precisi poli temporali, separati da un lungo intervallo: “L’uomo nel labirinto” fu iniziato nel 1921 a Parigi, rielaborato a partire dal ‘24 e pubblicato solo nel ‘26 per i tipi di Alpes a Milano, dopo aver avuto non pochi problemi con la censura fascista; “Il mare” uscì, invece, nella rivista Pegaso alla fine del 1931, dove anche apparve nei numeri dell’ottobre e novembre del 1932 “Solitudine”; e “L’ultima delle mille e una notte” fu stampato, con titolo “La milleduesima notte”, agli inizi del 1932  nel numero d’esordio di Occidente”.

I temi sono quelli classici del pensiero alvariano, con analisi approfondita dei tanti microcosmi e narrazioni che si svolgono non sempre in Calabria: addirittura Il mare ha come ambientazione Positano, perla della Costiera Amalfitana che l’autore aveva scoperto grazie a Pirandello: ma c’è da scommettere che la descrizione del borgo campano chissà quanti ricordi avrà riacceso per quel “mucchio di case presso il fiume, sulla sbalza aspra circondata di colli dolcissimi digradanti verso il mare” -il mare Jonio- rievocando il suo borgo natale, San Luca tra Aspromonte e riva jonica

calabrese. “Dal mare eoliano si transita, con lo stupendo racconto eponimo” -Il mare, dunque- “all’inquietudine del ritorno malato alla natura, in un <<paese stanco e solitario>> che sta su un picco roccioso proteso sul mare come una prora (Positano), in cui <<le case si annidano nei punti più inverosimili e per accedervi vi sono infinite serie di scale>>. Con acutissima visività delle sensazioni e delle vibrazioni, Alvaro instaura una rispondenza stregata fra il paesaggio, il mare come battito del tempo, e la psicologia dei personaggi: una luce implacabile li chiude come in un cristallo, rivelando la loro inferma solitudine. L’io narrante, Tartuca, è un personaggio in fuga dalle leggi delle società civile: afferma di essersi ritirato in questo tratto della costiera amalfitana per poter lavorare in pace; in realtà tenta di lenire le ferite inferte da una delusione d’amore (una nordica Grete, fuggita via da lui in preda ad un <<dolore che non confessava>>) e dal male di vivere <<nelle stanze della città, che hanno colpa di tante cose>>”.

Morace ci indirizza al cuore del racconto che dà il nome all’intera raccolta, focalizzando l’attenzione del lettore proprio sulla particolare capacità di Alvaro di legare personaggi e paesaggio, attori e ambito naturale in cui i primi recitano la propria parte, creando così un tutt’uno, anche perché “il suo sogno è di rinascere a contatto con natura, regredendo ad uno stadio elementare di vita e ritrovando una sorta di felicità precoscenziale: emblematica, è, in tal senso, la visione del mare dall’alto, elemento materno per antonomasia, con due donne straniere che << sullo specchio dell’acqua verde stanno sospese come su una materia densa e trasparente>>, i corpi che <<diventano fluidi come veli>> ed i movimenti <<molli come tentacoli>>”.

Il paesaggio affascinante della costiera amalfitana, l’io narrante, i legami amorosi: sono gli elementi che il “mare” alvariano presentava distintamente sulla scena della cultura nazionale: “pare che le razze migliori siano in montagna. Quelle marine non sono belle, specialmente sulle coste dell’Italia meridionale. Furono troppo rimescolate e spesso ne sono venute fuori degli ibridi. Alcune si mescolano coi pirati, i quali vi approdavano, vi soggiornavano qualche mese, poi ripartivano o fuggivano lasciando figli. Sono venuti fuori dei tipi da ciurma e seguitano a fare da ciurma (…). Neppure le donne sono belle in cotesti luoghi: hanno soltanto begli occhi con la pupilla grande, da orientali; s’incontrano soltanto le sere di festa, camminano quasi sempre in compagnie di tre, spesso sono abbracciate, quella in mezzo stende le braccia sulle spalle delle altre due compagne, le due compagne con un braccio le cingono la vita, ognuna dalla sua parte (…). Il paese di cui parlo è uno di questi: è stanco e solitario; vi sono molte donne; gli uomini che fanno i pescatori  hanno paura del mare (…)”.

Senza tempo, ottant’anni dopo, le suggestioni marine di Alvaro…             


La Provincia di Cosenza                Egidio Lorito,  2 gennaio 2015