Dici Mario Caligiuri e pensi subito a Soveria Mannelli, un gioiellino paesaggistico adagiato sulle colline della pre-Sila catanzarese, dove l’eccellenza editoriale dell’Editore Rubbettino va a braccetto con la storica lavorazione del lino coltivato nel vicino altopiano silano. Di questo ameno borgo, Caligiuri è stato sindaco dal 1985, ad appena 25 anni, sino al 2004, e poi dal 2009 al 2010, quando venne chiamato, da assessore esterno, sino al 2014, a governare l’immenso patrimonio -culturale, ovviamente…- dell’estrema penisola italiana. Intellettuale autorevole, mai disgiunto dal profondo senso pratico dell’agire amministrativo, Caligiuri aveva contribuito a fare del suo comune il più informatizzato d’Italia, come attestò, nel 2003, il 37° Rapporto del Censis sullo Stato sociale dell’Italia: Soveria divenne “citta senza fili” anche per facilitare il rapporto tra amministrazione e cittadini.
Oggi, da Ordinario di Pedagogia della Comunicazione all’Università della Calabria, sta raccogliendo la sintesi della sua storica esperienza di comunicatore pubblico, anche grazie al recente ruolo assunto, all’interno del panorama accademico nazionale, nello studio scientifico dell’intelligence come disciplina universitaria: e questo grazie ad un consolidato corso di Master promosso nel 2007 -il primo in Italia- dal Presidente Emerito della Repubblica Francesco Cossiga, del quale ricorrono quest’anno i dieci anni dalla scomparsa.
Società, comunicazione, informazione, dunque, nel background culturale di Caligiuri, che un paio d’anni addietro, con il saggio “Introduzione alla società della disinformazione. Per una pedagogia della comunicazione” (Rubbettino, 2018), aveva evidenziato come “la tendenza dominante del nostro tempo potrebbe essere identificata con la disinformazione, vera emergenza educativa e democratica dell’inizio del XXI secolo. L’eccesso di informazioni ha sostituito la censura, ma gli effetti sono gli stessi, con le persone che diventano manovrabili consumatori e inconsapevoli elettori. Di fronte ai problemi dell’Occidente -immigrazione, rischi ambientali, criminalità, crisi della democrazia, pericoli del cyberspazio- la risposta è sempre la stessa: c’è bisogno di maggiore istruzione!”. Quello studio prospettava una profonda ricostruzione delle scienze dell’educazione basata proprio sulla pedagogia della comunicazione, anche per auspicare una rivolta dei giovani, motivati nel pretendere scuole e università meno facili, allo scopo di resistere alle sfide della società della disinformazione. Non a caso Caligiuri condensò il senso di quel suo saggio in un pensiero dell’influente intellettuale Yuval Noah Harari, storico all’Università Ebraica di Gerusalemme: “in passato, la censura operava bloccando il flusso di informazioni. Nel XXI secolo la censura opera inondando la gente di informazioni irrilevanti. Nei tempi antichi deteneva il potere chi aveva accesso alle informazioni. Oggi avere potere significa sapere cosa ignorare”. L’anno dopo è la volta di “Come i pesci nell’acqua. Immersi nella disinformazione” (Rubbettino, 2019), richiamando nel titolo la celebre metafora di Marshall McLuhan, ovvero che “quello di cui i pesci non sanno assolutamente nulla è proprio l’acqua”: focalizzate, ecco le ultime tendenze e le ampie problematiche aperte sulla questione, anche grazie alla prefazione del filosofo Luciano Floridi, direttore del Digital Ethics Lab dell’Università di Oxford, un laboratorio di ricerca applicata all’etica digitale, come nuovo tema fondante della contemporaneità. “L’era di Internet ci ha permesso grandi cose”, ricordava Lucidi: speranza e opportunità, connessioni ed empatia, espressione e democrazia. Eppure, questo strumento digitale è invecchiato male, perché gli abbiamo permesso di crescere in modo caotico e trascurato”.
Professore Caligiuri, proviamo a fare chiarezza sull’argomento?
“Occorre partire dall’interpretazione della realtà. Nel libro mi ispiro a chiavi di lettura per comprendere quello che sta accadendo: a partire da Edgar Morin che identificava lo spirito del tempo -agli inizi degli anni ’60- con la <<cultura della società di massa>>, intesa non come fuga dal mondo, ma come diretta partecipazione alla realtà. Qualche anno dopo, nel 1967, in piena contestazione giovanile, il grande intellettuale francese Guy Debord definiva la <<società dello spettacolo>>: sotto il dominio dell’economia, la realtà viene superata dalla pubblicità ed il concetto di “essere” viene ad identificarsi non tanto con quello di “avere”, quanto con quello rivoluzionario di “apparire”. Passa poco più di un lustro e Daniel Bell definisce il concetto di <<società post-industriale>> che di fatto si identifica con la “società dell’informazione”, con l’economia a rappresentarne il motore trainante”.
Lei nasce, accademicamente, come storico ed approda alla pedagogia.
“Le incertezze, o predestinazioni, del destino! Penso che proprio da una profonda rivisitazione della storia della cultura di questo tempo, il mio approdo alla pedagogia sia stato quasi inevitabile. Mi spiego: dalla celebre constatazione del sociologo Ulrich Beck sulla <<metamorfosi del mondo>>, sul complesso delle sconvolgenti mutazioni cognitive e biologiche della società contemporanea, ho tentato di cogliere, negli anni della ricerca accademica, la certezza che la pedagogia potesse rappresentare una concreta possibilità per fronteggiare la crescente complessità sociale. E questo perché tutti -a cominciare da noi due che stiamo conversando in questo momento- saremo costretti ad adattarci agli inediti mutamenti sociali, politici e culturali”.
E’ per questo che ha approfondito la “pedagogia della comunicazione”?
Volevo chiudere il cerchio della riflessione. Studiando gli effetti che la comunicazione digitale produce sulle persone, occorre riflettere a fondo sulle vere relazioni che intercorrono tra i fenomeni educativi e quelli comunicativi, al momento l’ultimo baluardo alla dilagante società della disinformazione. E non tanto sul trascurabile fenomeno delle cosiddette <<fake news>>, quanto sull’eccesso intenzionale di notizie che, sommandosi con l’analfabetismo di massa, provoca un corto circuito cognitivo alle persone, allontanandole dalla percezione della realtà e rendendo sempre più difficile distinguere il vero dal falso”.
Allora la vera emergenza oggi è la società della disinformazione?
“Penso di sì. Anni fa, per avere qualche ragionevole speranza di cambiamento sociale, occorreva una radicale svolta educativa; anche nel XXI secolo l’educazione rimane l’elemento trasformativo più significativo, che si realizza, soprattutto, attraverso una comunicazione eticamente orientata con docenti meno improvvisati. Il sistema di istruzione pubblica, attraverso la comprensione della rischiosa società della disinformazione, è chiamato a produrre mobilità sociale ed educazione all’incertezza, in modo da cogliere, per dirla con Edgard Morin, <<l’emergere dell’inatteso e la comparsa dell’improbabile>>”.
Una bella sfida! “Non restano ragionevoli alternative all’educazione per mantenere ancora l’uomo al centro dell’universo…”.
l’ALTRAVOCE dell’Italia -Mimì Egidio Lorito, 03-05-2020