Il professor Silvio Gambino spiega perché ha firmato l'Appello dei costituzionalisti per il No al referendum: «Mancherebbero i numeri necessari per la costituzione degli organi interni».
La drastica riduzione del numero dei parlamentari non è fondata né su "calcoli aritmetici" né su alcun valido modello istituzionale di riferimento. Anche per questo ho firmato l'Appello dei costituzionalisti per il No». Il professor Silvio Gambino analizza «lo stress evidente cui è sottoposta tanto la rappresentatività del Parlamento (rispetto ai soggetti e ai territori), tanto la sostenibilità del funzionamento della vita parlamentare nel suo complesso». Professore emerito di Diritto pubblico comparato all'Università della Calabria, di cui è stato ordinario dal 1994 al 2016, Gambino si è specializzatosi sui temi del diritto costituzionale italiano e comparato. Ha indirizzato la propria indagine scientifica sul diritto interno e sul «multilevel constitutionalism», tanto da vedersi riconosciuto, presso l'Università di Nancy 2, in Francia, il dottorato honoris causa. Panorama.it ha conversato con lui a pochi giorni dall'appuntamento referendario, previsto per il 20 e 21 settembre.

Professore Gambino, la riforma su cui saremo chiamati ad esprimerci ha potuto contare su un ampio consenso trasversale.
«Questo non si può negare per la quasi totalità delle forze parlamentari di centro-destra, fino all'ultima votazione nella quale si registra un più che ampio consenso parlamentare, ivi compreso il rilievo non solo numerico del Pd. In ogni caso le ragioni costituzionali fissate nell'articolo 138 della Costituzione ci dicono che il consenso, comunque, non è stato risolutivo ai fini dell'approvazione solo parlamentare. Questo sarebbe possibile soltanto in presenza della maggioranza parlamentare dei due terzi nella seconda votazione da ciascuna delle Camere».
In pratica, la via maestra per ogni riforma costituzionale.
«Non è né detto, né richiesto costituzionalmente. Il nostro costituente aveva previsto, al contrario, due modalità per procedere alle revisioni costituzionali, in presenza del raggiungimento o meno di una maggioranza qualificata in ognuna delle due Camere, e ciò è coerente con il sistema di democrazia rappresentativa».
In altri termini?
«Le revisioni che non possono essere vagliate dal corpo referendario sono soltanto quelle sulle quali non vi sia stata una coralità presente e costante del voto qualificato delle Camere, che non è quello del caso odierno, a differenza di quanto è accaduto, per intenderci, per la riforma dell'articolo 81 con la legge costituzionale 1/2012 per la costituzionalizzazione della parità di bilancio».
Con il taglio dei parlamentari le Camere potrebbero funzionare meglio?
«No, o almeno ciò non è dimostrato né dall'esperienza né da studi nazionali e internazionali in merito. Direi, anzi, che la tesi del miglioramento nell'efficienza dei lavori parlamentari risulta "ingenua e indimostrata". Al contrario, e in modo particolarmente marcato per il funzionamento dei lavori del Senato, mancherebbero i numeri necessari per la costituzione degli organi interni. Pensiamo in particolare alle commissioni».
E lo scopo della democrazia parlamentare, allora?
«Assicurare la parlamentarizzazione della eterogeneità sociale e il connesso conflitto, che deve trovare una mediazione nel "parlamentare" (inteso come sostantivo). Anche questo significa far funzionare bene le Camere in una democrazia pienamente legittimata: tutelare le minoranze».
Ci faccia un esempio…
«Le commissioni permanenti sono 14 e devono essere costituite (a prescindere, ora, dalle modalità stabilite in modo leggermente diverso dai regolamenti di Camera e Senato) nel rispetto dei principi di rappresentanza politica e di proporzionalità. Al Senato un gruppo parlamentare costituito da soli 10 componenti non sarebbe in grado di assicurare la presenza minima in ogni commissione di un proprio componente».
E la possibilità, da parte di un medesimo senatore, di far parte di più Commissioni?
«Non pare andare incontro alle esigenze di un migliore funzionamento dei lavori parlamentari. Ma questo è solo uno degli esempi che potrebbero farsi, dato un lavoro parlamentare che rimane inalterato pur con un numero drasticamente inferiore di parlamentari».
In caso di vittoria del Sì, rischio di «squilibrio costituzionale»?
«Se le maggiori criticità riguardano la rappresentanza e la (più che prevedibile) inefficienza dei lavori parlamentari, si rilevano anche squilibri costituzionali, il principale dei quali concerne la modalità di composizione del collegio chiamato a eleggere il Presidente della Repubblica. Il numero invariato dei delegati regionali, in caso di riduzione del numero dei parlamentari, assumerebbe un peso ponderato maggiore rispetto a quello che oggi ha».
E in caso di vittoria del No?
«Tutte le riforme rientrerebbero pienamente nella scelta discrezionale del Parlamento».
Nessuna controindicazione, allora?
«No. Mi permette, al riguardo, di chiarire che la vittoria (auspicata) del No non bloccherebbe alcuna proposta di futura riforma. Infatti, le ultime due proposte di revisione costituzionale (nel 2006 e nel 2016) sono state respinte dal corpo referendario e questo non ha minimamente rallentato o bloccato il processo di modifica della Carta costituzionale».
Quindi a cosa si ascrivono le ragioni del No?
«Non certo a un presunto atteggiamento conservativo (o di benaltrismo), ma alla considerazione per cui la riforma, da ogni angolo  la si voglia analizzare, appare, se non motivata, di certo potenzialmente pericolosa e ingannevole».
Si sente dire che il referendum si collocherebbe, sostanzialmente, sul crinale politico piuttosto che su quello della teoria costituzionale pura.
«Che qualcuno possa utilizzare l'argomento politico della "tenuta del Governo" non è da escludersi, anzi non lo escludo. Non rientro nel novero delle persone che sottopone l'istituto referendario a una torsione (questa sì populistica) di tipo politico, ma non costituzionale».
Professore, vogliamo allora spiegare qual è la posta in gioco?
«Proviamoci, anche se non è affatto semplice. Abbiamo detto finora che la riforma è inutile in quanto non fondata su alcuna valida motivazione che la regga, e davanti a noi pare che non ci sia altro che il frutto naturale di un'evidente deriva populista, dal momento che si basa su pilastri deboli e indimostrati».
Anti-partitismo, anti-politica: ora anti-parlamentarismo?
«Alla fine, ciò che si riduce è il Parlamento: non si "manda a casa" quel politico di turno che dimostra di non saper gestire con disciplina e onore la cosa pubblica. Non vorrei che ci trovassimo, seppure in una fase al momento non più che embrionale, dinanzi a quella teoria di superamento della democrazia rappresentativa tanto osannata in particolare da una delle due forze politiche di maggioranza relativa».
Capisce bene che è mutato il modo di comunicare la politica.
«Sì, ma non mi sembra un buon argomento per svilire la Costituzione».
Invadiamo il suo campo elettivo di studio: la comparazione costituzionale…
«La comparazione ci aiuta, ma per dirci che non tutto è comparabile, o almeno non lo è in assenza di oggetti di studio omogenei. E ci ricorda che le istituzioni vivono nel tempo e nella storia di ogni singolo Paese, tanto che una mera astrazione non risulta di alcun aiuto».
E allora, cosa serve fare?
«Non collocare sullo stesso piano forme di governo parlamentari, presidenziali e sistemi parlamentari bicamerali (elettivi e non elettivi, perfetti, imperfetti) con quelli monocamerali. E inoltre, quando si parla di rappresentanza anche territoriale, occorre avere in mente la pluralità incomprimibile dei modelli/tipi di Stato».
Andiamo a scomodare il principio di rappresentanza!
«Lo fa la riforma, sapendo che la rappresentanza è strettamente legata al numero. Se non fosse così perché la riforma dovrebbe limitarsi a un taglio di (soli) 345 parlamentari e non "tagliarne" ancora?»
Ci sono anche le Regioni…
«Infatti: la riduzione dei senatori spettanti a ogni Regione, secondo la proposta produrrebbe non già una mera riduzione numerica ma la impossibilità di rendere riconoscibili e rappresentati i "diversi" interessi di ogni singola Regione in un sistema che, a oggi, continua a non conoscere una "Camera delle Regioni"».
Ma cosa significa, in fondo?
«Significa ridurre fortemente il pluralismo e la possibile modalità di risoluzione dei conflitti. Se questi ultimi perdono rappresentanza, perdono il luogo istituzionale per una loro mediazione/risoluzione istituzionale. A chi potrà rivolgersi il soggetto che non trova rappresentanza e che è comunque portatore di potenziali conflitti, vale a dire di domande che chiedono risposte adeguate e risolutive?».
Detto sinceramente, con questo taglio sarebbe in pericolo tale principio?
«Sarebbe pericolosamente incrinato. La domanda da porsi è: a fronte di quale beneficio ci si chiede di rinunciare a una quota di rappresentanza? Personalmente continuo a non vederlo».
Professore, è appassionato a questo referendum?
«Sì, ma solo perché è in questione la difesa di una idea di Costituzione pluralista e che si fa carico del conflitto per risolverlo. E in ogni caso perché non si tratta di una mera questione di numeri, di aritmetica».
Sistema elettorale obsoleto, che ne pensa?
«Non rispondo volutamente perché non è oggetto di referendum e non potrebbe esserlo. Il lettore deve però sapere che la riforma costituzionale, incidendo sulla riduzione numerica dei parlamentari, produrrà un effetto iper-maggioritario della legge elettorale ora in vigore, l'unica al momento della quale si possa e si debba parlare. Il resto è politica».
Il referendum per il quale voteremo non prevede un "quorum", a differenza di quello abrogativo: come mai i padri costituenti decisero così?
«Perché il referendum non è confermativo (come si ripete da tempo) ma è oppositivo. L'articolo 138 della Costituzione non aggettiva il referendum, ma la sua natura è di certo oppositiva proprio perché manca il quorum di partecipazione. Lo si fa per tutelare le minoranze».
La riduzione del numero dei parlamentari potrebbe compromettere la possibilità di discussione delle leggi?
«La risposta non può essere secca. Ciò che verrebbe compromesso sarebbe la qualità della legislazione deficitaria di quell'apporto di risorse intellettuali (professionali, sociali, politiche, di genere) di cui la riduzione dei parlamentari inopinatamente si disfa».
E del bicameralismo perfetto cosa ci dice? Da 50 anni nessuno è stato in grado di superarlo…
«Perché i progetti di revisione non sono stati valutati come validi e ragionevoli. Si pensi al discutibile modello di Senato disegnato nel progetto di revisione renziano, che sarebbe stato tutto fuorché un Senato regionale».
Il referendum visto dalla Calabria…
«Solo poche parole, almeno sul Senato: i seggi elettivi passano da 10 a 6, con una variazione percentuale di ben 40%, vale a dire che un senatore dovrebbe ora contare su 326.508 elettori a fronte dei 195.905 attuali. Le istituzioni sono già percepite come lontane: non pare un'ottima strada quella intrapresa».
Come andrà a finire la partita del referendum?
«La storia referendaria insegna che nulla è dato per scontato».
In conclusione...
«Le questioni sono molto più complesse di quelle che a prima vista potrebbero apparire. La strada delle riforme fallita fin qui non può costituire una giustificazione a rivedere senza ragioni la Carta costituzionale che, con le sue istituzioni rappresentative, deve sopravvivere a "questa" classe politica e a "quelle" che seguiranno».

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