In occasione dell’anniversario della strage di via D’Amelio, il pm antimafia ricorda il collega Paolo Borsellino. E ripercorre 50 sanguinosi anni di guerra alla mafia. Ma non ignora le traversie della magistratura dei giorni nostri. E lancia un monito rievocando il suo maestro
Ogni anno, il 19 luglio rappresenta per me una ferita aperta che mai si rimarginerà, anche perché ai fantasmi di quel giorno si aggiunge la sensibilità dei miei 75 anni».In occasione dell'anniversario della strage di via D'Amelio, il pm antimafia Giuseppe Ayala ricorda il collega Paolo Borsellino. Il 19 luglio 1992 era domenica, alle ore 16 e 58, una 126 contenente 90 chili di esplosivo fu fatta esplodere davanti al numero civico 21 di via Mariano D'Amelio, in una Palermo arroventata dalla calura estiva. Nel mirino degli attentatori Paolo Borsellino, magistrato da oltre 10 anni in prima fila nella lotta contro la mafia che teneva in scacco la Sicilia.
Esattamente 28 anni dopo, ancora di domenica, alla stessa ora, Giuseppe Ayala ha dialogato con Panorama dall'assolata Menfi, in provincia di Agrigento. Il caldo era meno asfissiante dell'estate del '92, quando Ayala si trovava in una Palermo già scossa dall'attentato di Capaci in cui due mesi prima aveva perso la vita Giovanni Falcone.
Partiamo dalla sua personale esegesi.
«Lei si riferisce a Chi ha paura muore ogni giorno. I miei anni con Falcone e Borsellino, il libro del 2008 con cui realizzai il mio personalissimo viaggio a ritroso nel tempo, con il carico di ricordi, affetti e vicende che, ancor oggi, non sempre riesco a collocare nella giusta dimensione. La storia con Giovanni e Paolo fa parte della mia vita non solo pubblica».
Si tratta del suo conto con il passato.
«Ancor oggi è la sfera più intima e personale, una vicenda che si ostina a non morire, a salire sempre alla ribalta. Quelle bombe avranno pure spazzato via i corpi di Giovanni e Paolo e degli agenti delle scorte, ma quel rumore cupo, quel boato fulminante - i miei fantasmi - continuano a rimbombarmi in testa».
Più che fantasmi, i suoi angeli custodi.
«Sembrerà banale, ma è come se Giovanni e Paolo, anche in questo preciso momento, alle 17.00 in punto, stessero ascoltando la nostra conversazione. E, quasi, mi aiutassero a riordinare gli ultimi 35 anni della mia vita».
A inizi anni Settanta, lei era avviato verso una brillante carriera forense.
«Mi si erano spalancate le porte di uno degli studi legali più prestigiosi di Palermo, quello del professor Girolamo Bellavista, all'epoca ordinario di Procedura penale, un vero principe del foro».
Ayala che difendeva i mafiosi?
«Scattò qualcosa in me, che mi aiutò a risolvere il disagio che ogni giorno vivevo sulla mia pelle, dovendo rapportarmi con delinquenti che erano la materializzazione della barbarie mafiosa. Era il 1973. Avevo 28 anni e una potente motivazione a schierarmi con la Sicilia che aveva appena iniziato una vera guerra alla mafia».
Si favoleggia di una conversione notturna.
«Stavo seguendo un processo di mafia in Corte d'Assise ad Agrigento, difendendo imputati accusati di efferati omicidi di mafia. Sì, mi convertii nel silenzio della mia camera d'albergo: difendere i mafiosi non sarebbe stata più la mia strada. Decisi di intraprendere la via della magistratura, per esorcizzare quel malessere personale, ma anche per schierarmi dalla parte che ritenevo quella giusta. Allora come oggi».
Non prevalsero l'idealismo e la foga giovanile?
«Certo. Ma una cosa fu il primo incarico di Pretore a Mussomeli, nella Sicilia più profonda, altra il duro lavoro a Palermo, in Procura, dal settembre 1981».
Battesimo di fuoco, mi perdoni il realismo.
«Tra fine anni Settanta e primissimi Ottanta erano caduti sotto i colpi della mafia il Procuratore capo di Palermo Gaetano Costa, il Presidente della Regione Piersanti Mattarella, il capitano dei Carabinieri Giuseppe Russo, il capo della Squadra mobile Boris Giuliano, il giudice Cesare Terranova. La mafia aveva ampiamente svelato la sua strategia sanguinaria: contrapporsi allo Stato sul piano militare».
Il 3 settembre 1982 fu eliminata la speranza dei palermitani onesti.
«Quando a cadere sotto i colpi di Kalashnikov di ben 10 uomini furono il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, sua moglie Emanuela Setti Carraro e l'agente della scorta Domenico Russo capimmo, forse per la prima volta, che eravamo in guerra. E non solo per l'alto profilo della vittima, ma anche per la platealità dell'azione paramilitare: un vero raid per potenza di fuoco e spietatezza».
Il presidente Sandro Pertini e il cardinale Salvatore Pappalardo lasciarono il segno.
«Ricordo le lacrime di Pertini che cercava di consolare Nando, Rita e Simona, i figli del generale. E mi rimbomba ancora in mente la dura omelia del cardinale al funerale, con quel suo "Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur" (mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata, ndr). Nell'assoluta gravità del momento, capii che occorreva cambiare la strategia dello Stato: da difensiva a offensiva».
Intanto aveva conosciuto Falcone.
«Capitò a casa del collega Alfredo Morvillo, che mi invitò a una cena con sua sorella Francesca, giovane e brillante magistrato che, dopo essersi separata, aveva iniziato a frequentare Giovanni Falcone».
Impressioni?
«Al primo impatto l'avevo trovato di una semplicità e genuinità disarmanti: supponenza zero, simpatia mille, ironia di più, ma assolutamente demenziale. Gli confidai che mi avrebbe fatto piacere apprendere qualcosa in più sul suo metodo di indagine. Mi fissò subito un appuntamento nel suo ufficio. Da quell'incontro la mia vita sarebbe cambiata per sempre».
Tra il febbraio 1986 e il dicembre 1987 lei visse blindato per il maxiprocesso. Un procedimento dai numeri impressionanti...
«Dalle 8.000 pagine dell'ordinanza di rinvio a giudizio, sino al milione del processo vero e proprio, con 475 imputati. Un autentico spaccato del nostro Stato, costretto a vivere insieme per 22 mesi, accomunato dalla più eterogenea delle convivenze: quella tra imputati, difensori, giudici, pm, giornalisti, cancellieri, carabinieri, responsabili della sicurezza».
Mi perdoni: una scena da Tutti insieme appassionatamente.
«Se non fosse stato per la circostanza che combattevamo la più potente forza criminale del mondo, sicuramente sì. Anche i baristi e gli addetti alle pulizie dell'aula bunker di Palermo facevano parte della nostra famiglia. Come pubblico ministero sostenni la tesi secondo cui per la prima volta erano stati i pentiti a fornire un riscontro alla massa di elementi probatori già acquisiti».
Calcò la mano, nella requisitoria.
«Richiesi 19 ergastoli, tra cui quelli a carico di Salvatore Riina e Bernardo Provenzano e, per gli altri imputati, parecchie centinaia di anni di anni di carcere».
Nel 2012 lei pubblicò il libro Troppe coincidenze. Non virò su complottismo e retroscenismo?
«Le stragi del 23 maggio e del 19 luglio furono volute dalla mafia, su questo siamo tutti d'accordo. Ma ancora mi chiedo: possiamo escludere a priori che vi fossero coinvolti anche, come si suol dire, "pezzi deviati" dello Stato? Da 28 anni sostengo che la risposta non può che essere affermativa, e non solo perché le evidenze conducevano in quella direzione, ma perché lo stesso Giovanni Falcone ne era arciconvinto. In quel libro, pubblicato per il ventennale delle stragi, le coincidenze venivano a galla come bollicine d'ossigeno».
Nel 1992 arrivò l'Ayala politico.
«A inizio 1992 io e Falcone eravamo a Roma. Mi arrivò la proposta di candidarmi alla Camera, come capolista del Partito repubblicano nella circoscrizione della Sicilia occidentale».
Giocava in casa.
«Eppure ero fortemente indeciso e stavo per rifiutare. Chiamai Giovanni, che mi disse: "Vedi, Peppino, nella vita le scommesse che si perdono sicuramente sono quelle che non si accettano. Per cui accetta, ché secondo me funzionerà". Mi candidai».
Con tanto di foto iconica...
«La celebre foto di Falcone e Borsellino che ridono insieme fu scattata nel marzo '92 a Palermo, proprio in occasione della presentazione della mia candidatura».
Si aprivano scenari visionari: lei e Falcone a Roma, Borsellino ancora a Palermo…
«Quegli scenari si frantumarono insieme al tritolo di Capaci e via D'Amelio. Ma non va dimenticato, il 12 marzo precedente, l'assassinio dell'onorevole Salvo Lima».
Il luogotenente di Giulio Andreotti in Sicilia, una macchina elettorale da 300.000 preferenze.
«Devo essere più chiaro? Contrariamente a quanto ho sempre sentito dire, non era colluso con la mafia: l'onorevole Lima era organico alla mafia, per più di 20 anni fiduciario degli andreottiani in Sicilia. Parlano le carte processuali. Sono stato abbastanza chiaro?»
Ma se era mafioso, non era intoccabile?
«Venne ucciso perché la mafia non accetta tradimenti: Lima si era impegnato in prima persona affinché il maxiprocesso venisse aggiustato. Ma nessun aggiustamento "in melius" si verificò, perché la sentenza venne confermata, con i 19 ergastoli inflitti a tutti i capi di Cosa nostra, compresi i latitanti Salvatore Riina e Bernardo Provenzano. Furono confermati tutti i 2665 anni di carcere da me richiesti».
Un omicidio in Sicilia che cambiò gli scenari romani…
«Nella torrida estate del 1992 vide la luce il governo Amato. Dopo meno di un anno arrivò un governo tecnico, guidato da Carlo Azeglio Ciampi. Anche allora la mafia fece sentire la sua presenza, con i tre attentati di Roma, Firenze e Milano. Coincidenza pure questa? Ne sono convinto, la mafia ritenne di alzare il potere contrattuale, soprattutto in riferimento alla legislazione del carcere duro».
E qui torniamo ai suoi fantasmi…
«Sono giorni particolari per me, lo immaginerà. Rividi per l'ultima volta Giovanni nella tarda serata del 23 maggio di quel 1992, dopo essermi precipitato da Roma a Palermo su un volo. Con lui avevano perso la vita la giovane moglie Francesca e i tre agenti della scorta che conoscevo benissimo: Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro».
Con Borsellino andò ancora peggio.
«Poiché mi trovavo a Palermo, la seconda esplosione fu ancora più devastante. La ricordo nitidamente: ero stato al mare e, dopo l'immancabile pennichella pomeridiana, fui buttato giù dal letto da un boato fragoroso. Vedendo una colonna di fumo nera che superava il palazzo di 10 piani, di fronte all'Hotel Marbella ove alloggiavo, capii che qualcosa di terribile era successo. Mi precipitati in strada».
Via D'Amelio come Beirut, si disse.
«Una scena da attacco terroristico. Frastornato, inciampai in un tronco di uomo bruciato. Era quello che restava di Paolo. Fui il primo a vederlo e sarò l'ultimo che potrà dimenticarlo, come i suoi cinque valorosi agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina».
Del processo per la strage di via D'Amelio lei parla sempre con grande rabbia.
«Perché fu provato il depistaggio. Il processo a Caltanissetta si basava sulle dichiarazioni di un pentito, Vincenzo Scarantino, che si era accusato di aver partecipato all'attentato. Fu arrestato il 29 settembre 1992 e poi decise di collaborare, raccontando l'organizzazione della strage: fu condannato a 18 anni, ma poi accusò poliziotti e magistrati, dichiarando di essere stato indotto a muovere quelle accuse. Solo dopo si pentì».
Ora capisco il suo rammarico.
«Un processo di quella portata si era basato sulle dichiarazioni di un pentito, che solo anni dopo, grazie a un magistrato come Sergio Lari, si scoprì non credibile».
Da attento osservatore delle dinamiche della magistratura, da un anno…
«Mi sta chiedendo forse delle recenti vicende del Csm e del caso Palamara? Si risparmi di finire la domanda. In quest'ultimo anno ho definito l'organo di autogoverno della magistratura un vero e proprio verminaio, le cui correnti, esattamente come all'interno dell'Anm, hanno condotto a nuocere gravemente all'immagine della stessa magistratura».
A lei il sistema delle correnti non è mai piaciuto?
«Sul tema si era espresso, nell'88, lo stesso Giovanni Falcone. Prenda nota: "Se i valori dell'autonomia e dell'indipendenza della magistratura sono in crisi, questo dipende in maniera non marginale dalla crisi che da tempo investe l'associazione dei giudici, rendendo l'Anm un organismo diretto alla tutela di interessi corporativi"».
Panorama.it
Praia a Mare, 28/07/2020 Egidio Lorito