Gian Pietro Calabrò

Dedico queste riflessioni alla cara memoria di Fabio Limongi (1972-2021), guida-escursionista, maestro di sci, instancabile cuore lucano, le cui “tracce” rimarranno indelebili sulle nostre montagne…

Mi legava a Fabio una bell’amicizia. Certo, meno quotidiana di quella che condivideva con molti suoi concittadini, in quel di Lauria, ma -sicuramente- oltremodo entusiasta nel nome della nostra passione comune. Per lui, la montagna, era diventata, nel tempo, un impegno, una professione, un modus vivendi coltivato giorno dopo giorno: maestro di sci, guida escursionista, membro del Soccorso alpino e speleologico di Basilicata, Fabio aveva contribuito a contagiare un’intera generazione che, oggi, guarda a lui con affetto, con rimpianto. Con dolore…            
Non è facile accettare la perdita di una vita nel fiore degli anni, soprattutto quando questi stessi anni venivano spesi, anno dopo anno, non solo per coltivare una passione personale, quanto -soprattutto- per coinvolgere le forze attive del proprio territorio, dalla politica all’associazionismo, in un progetto ampio e diffuso di tutela e valorizzazione.

Qui, nell’estremo lembo sud-occidentale della Basilicata, o Lucania, come preferiscono i cultori della millenaria tradizione magno-greca, nel punto esatto in cui, lasciandosi alle spalle il mare di Maratea ed inoltrandosi nel vicino entroterra che incantò Guido Piovene durante il suo celebre “viaggio”, ad appena 15 km dalla linea di costa, si staglia in tutta la sua maestosità il Gruppo del Sirino-Papa. Se lo contendono geograficamente le comunità di Lagonegro e Lauria, dall’alto dei suoi 2005 metri s.l.m., questo massiccio, che detiene il record di seconda cima dell’intero Appennino meridionale, poco sotto le cinque vette oltre i duemila metri del nostro Pollino.
Nel suo grembo, nella conca scavata dalla morena di un ghiacciaio del Quaternario, durante la glaciazione di Wṻrm, risalente ad oltre 100.000 anni fa, Fabio aveva orientato la sua vita personale e professionale nel nome della montagna, unendo passione ed impegno lavorativo, intima proiezione verticale e valorizzazione di territori che, evidentemente, meritavano -e meriterebbero- da tempo tutt’altra attenzione. Quella che solo un profondo conoscitore ed un amante appassionato sanno infondere, al di là dei tradizionali clichè da marketing turistico.Una decina d’anni fa, pubblicando alcune riflessioni all’ombra delle Tofàne di Cortina d’Ampezzo, sulla bella e patinata “La Buona Neve”, la creatura editoriale di Rolly Marchi (1921-2013) -uno dei padri costituenti della letteratura contemporanea alpina- avevo ricordato un episodio forse sconosciuto ai più, che Fabio aveva colto al volo per un nuovo rinascimento delle nostre amate vette. Avevo ricostruito come nell’aprile del 1970, grazie a lungimiranti contatti delle autorità comunali di Lagonegro con il Comitato organizzatore dei Campionati mondiali di sci alpino che si erano svolti nel febbraio di quello stesso anno nella splendida cornice della Val Gardena, l’allora direttore della Scuola Italiana Sci di Selva di Val Gardena, Ferdinando Rudiferia, avesse guidato una vera spedizione alla scoperta della vocazione sciistica del Gruppo del Sirino-Papa. E come, qualche mese dopo appena, in occasione della XIX edizione della Festa Nazionale della Montagna dell’Italia meridionale, il gruppo del Sirino-Papa fosse entrato nella sua fase di valorizzazione turistica, con le prime opere permanenti -la rete viaria, il primo avveniristico  rifugio “Italia” ed un simpatico monumento bronzeo al “Montanaro”- che anticiparono il collaudo ufficiale delle piste del 19 marzo del 1972, con sciatori lucani e gardenesi, trasportati a bordo di un gatto delle nevi del celebre gruppo Prinoth di Ortisei, a lanciarsi lungo quella nuova pista, erede di quel ghiacciaio del Quaternario.  Seguirono l’inaugurazione di una seggiovia biposto, con nuove strutture sciistico-ricettive, nel febbraio del 1986, il successivo agognato collegamento con il centro sciistico di “Conserva”, nel Comune di Lauria, con il comprensorio a diventare una realtà per migliaia di appassionati degli sport invernali.
Con Fabio avevo riflettuto sulla caparbietà di chi si era avvicendato, negli anni, alla guida della stazione, su un innevamento naturale che ha dell’incredibile a queste latitudini e sulla recente inclusione del “Gruppo” nel Parco Nazionale dell’Appennino Lucano, quasi ad onorare quel ghiacciaio del Quaternario. Riconoscevo in Fabio la forza della sua -della nostra…- giovane età, la volontà di non fermarsi al primo ostacolo, di contribuire ad imprimere una svolta alla “vita quotidiana” delle nostre realtà sospese tra il mare e la montagna. Quel suo essere sognatore incantato, quasi bohemienne, con quegli iconici fotogrammi dalla finestra del suo ufficio -scarponi penzoloni a 2000 metri, con mare all’orizzonte ed immancabile macchinetta, per il “coffe-break” d’ordinanza…- che affascinavano anche il più sbadato follower. Con sincere dosi di ammirazione ed invidia, ovviamente, per quanti non potessero permettersi un così maestoso panorama dalla finestra del proprio ufficio…                 
Questo turbine di sentimenti ha subìto un’accelerazione improvvisa quando, al calar delle tenebre del 27 gennaio scorso, la notizia di una tragedia consumatasi sul canalone di nord-ovest del Monte Sirino, ha trascinato a valle, assieme al corpo esanime di Fabio, anche i sogni, i progetti, le aspettative di una vita intera. Un corpo immobile su un crinale maledettamente ripido. Immobilità e ripidezza. E per gli esteti della letteratura d’alta quota parte l’effetto rimbalzo…   
Il 14 ottobre del 1948, con un elzeviro di Dino Buzzati pubblicato sulle pagine del Corriere della Sera, lo scrittore e giornalista bellunese dava il proprio personale suggerimento a tutti coloro che si avvicinavano alla conquista di una vetta: Hanno obbedito alla montagna -questo il titolo- vede l’autore impegnato a sostenere “innanzitutto la necessità di uscire da una visione ottocentesca, da anima bella, per cercare una soluzione efficace e alta della passione per la montagna (...). Per Buzzati, la molla psicologica che porta l’uomo a salire le vette o scendere i pendii è la forte, naturale attrazione per l’immobilità e la ripidezza”(1.
“L’immobilità” riesce a far esplodere nell’uomo un senso di forte tranquillità che Buzzati mirabilmente spiega quando si chiede “a che si affanna l’uomo, giorno e notte, a quale scopo lavora, accumula soldi, persegue fama e potenza, se non per poter un giorno essere completamente libero da ogni soggezione e, quindi, riposare? (...) Sì, l’uomo tende inconsciamente a conquistare la quiete. Proprio per ciò la vista delle montagne, modello perfetto dello stato di quiete a cui egli tende, procura un senso di appagamento. Non solo, sorge nell’uomo il confuso desiderio di aderire, di adeguarsi, di identificarsi in un certo modo a tanta immobilità, di prenderne infine possesso”(2.
Maè soprattutto nel concetto di “ripidezza” che il camminatore tra i monti riesce forse meglio a cogliere un sentimento di fascino, proprio perché amplifica la lontananza e quel “senso di mistero” che la montagna riesce per incanto a regalare grazie all’immensa “carica di solitudine: c’è un gioco molto più fantastico di luci e di suoni. E c’è l’incanto della intimità, lo stesso che si assapora in parete, su per i grandi camini e diedri, (...) gli aerei baldacchini assumono un’espressione umana. Si direbbe che qualcuno ci aspetti, che ci spii tra le rocce. Ogni angolo, cavità, anfratto, sembra invitarci a restare, promettendo misteriose beatitudini. Nei canaloni, non sulle pareti o sulle creste, vivono gli elfi, gli gnomi, gli antichi spiriti della montagna” (3.
Il lettore mi ricorderà, a questo punto, che a parlare era nientemeno che Buzzati, lo scrittore-alpinista “fulminato” dalle sue Dolomiti, che alla passione per i “monti pallidi” ha dedicato capolavori come “Barnabo delle Montagne”! Sarà anche vero, ed in sua compagnia Guido Gozzano, Thomas Mann, Ernest Hemingway, Hermann Hesse, Massimo Mila, Vladimir Nabokov, Mario Soldati, Goffredo Parise, Mario Rigoni Stern, Scipio Slapater, Guido Piovene, Giorgio Bocca, Rolly Marchi -il mio indimenticabile amico Rolly!-  hanno contribuito ad immortalare le stupende elevazioni alpine, tra poesia ed escursionismo. Tutto indiscutibilmente vero, ma anche alle nostre latitudini: rileggendo alcune tra le più note pagine della letteratura contemporanea, non dovrebbe essere impossibile imbattersi, allora, ne “i monachicchi, esseri piccolissimi, allegri, aerei (che) corrono veloci qua e là, e il loro maggior piacere è di fare ai cristiani ogni sorta di dispetto; (…) ma sono innocenti (…), il loro carattere è una saltellante e gioiosa bizzarria, e sono quasi inafferrabili. Portano in capo un cappuccio rosso, più grande di loro; e guai se lo perdono: tutta la loro allegria sparisce (…)” (4. Carlo Levi docet
A te, Fabio, lo dovevo…
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1) Borgo L., Scritture di neve. Cent’anni di sci, di letteratura, di Dolomite. Tipolitografia Danzo, Cornedo, (Vc), 1997, p. 106;
2) Buzzati D., Hanno obbedito alla montagna, Corriere della Sera, Milano, 14/10/1948, in Borgo L. op. ult. cit. p. 107;
3) Buzzati D., op. ult. cit. p. 110;
4) Levi C., Cristo si è fermato ad Eboli, Einaudi, Torino, 1945 
 
Apollinea.  Rivista Bimestrale del Territorio del Parco Nazionale del Pollino
Anno XXV, numero 2 / Marzo - Aprile 2021   

Praia a Mare, 03/03/2021                                                               Egidio Lorito