Il neo presidente dei costituzionalisti italiani analizza il percorso che porterà all’elezione del Presidente della Repubblica. Tra allarme Covid, liturgie costituzionali e scenari inediti.  «Se fosse eletto Mario Draghi», riflette, «ci troveremmo in una situazione costituzionalmente complessa». 

Napoletano di Pompei, classe 1955, Sandro Staiano, professore ordinario di Diritto costituzionale nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Napoli Federico II, è da alcune settimane il nuovo presidente dell’Associazione italiana dei costituzionalisti. Attualmente direttore del Dipartimento di Giurisprudenza dell’ateneo federiciano, vanta decine di pubblicazioni sui principali temi di diritto pubblico e costituzionale.

Panorama.it ha bussato allo studio del presidente dei costituzionalisti italiani per un’analisi ad ampio spettro sull’imminente elezione del Presidente della repubblica, tra allarme covid, liturgie costituzionali e nuovi scenari ad oggi mai materializzati.

Professore, l’emergenza sanitaria aleggia sull’elezione del presidente della Repubblica.

«Proprio l’emergenza sanitaria in corso ha fatto evocare la possibilità di ricorrere al voto a distanza, anche se in realtà si tratta di un’ipotesi difficilmente realizzabile principalmente per un motivo tecnico. Infatti all’adunanza in seduta comune, come quella che porterà all’elezione del Presidente, si applica il regolamento della Camera dei deputati, interamente pensato per deliberazioni in compresenza dei componenti dell’assemblea, e, in situazioni come questa, le garanzie di libertà e segretezza devono essere massimamente assicurate».

Si tratta di garanzie imprescindibili.

«Si tratta di un obiettivo prefissato dalle istituzioni. Basti ricordare il celebre “catafalco”, costruito in tempi rapidissimi e posizionato per volontà dell’allora presidente della Camera Oscar Luigi Scalfaro, nel 1992, per garantire la massima segretezza nelle procedure di voto e evitare che i franchi tiratori si esercitassero nelle loro pratiche».

Neanche nel caso di un voto espresso in via telematica si riuscirebbe a garantire la dovuta segretezza.

«In extrema ratio si sostiene che i parlamentari potrebbero votare dai loro studi privati o da spazi appositamente allestiti, mediante il ricorso a procedure telematiche: in realtà si tratta pur sempre di una modalità espressiva incapace di assicura segretezza ed autonoma manifestazione del voto in capo ai singoli parlamentari. I rischi sarebbero troppi».

Si potrebbe potenziare i sistemi informatici.

«La tempistica, allo stato, non sarebbe in grado di assicurare le garanzie richieste: forse in un futuro prossimo, ma si dovrebbe re-ingegnerizzare il voto, modificando il regolamento della Camera dei deputati per adeguarlo al voto a distanza: ovviamente non è immaginabile che ciò avvenga in tempi rapidi come quelli ora imposti».

La segretezza sembra essere l’obiettivo primario da garantire…

«Pensiamo che oggi lo stesso espediente immaginato del Presidente Scalfaro non garantirebbe la segretezza, visto che proprio l’uso degli smartphone personali consentirebbe di violare la segretezza delle operazioni di voto. Pensiamo piuttosto all’opportunità che, per evitare ogni rischio di riconoscibilità e controllo del voto, il presidente della seduta comune, ovvero il presidente della Camera, segua una modalità standardizzata di lettura delle scede nel corso dello scrutinio».

In che modo, ci perdoni?

«Per prassi consolidata le schede vengono lette così come sono state vergate dai singoli elettori: per scongiurare ogni rischio di riconoscibilità, è consigliabile che il Presidente della Camera possa leggere soltanto nell’ordine il nome ed il cognome, senza l’indicazione di titoli professionali o scientifici. Insomma eliminando le diverse combinazioni che spesso servono a rendere riconoscibile un voto, pur nella formale segretezza».

Al di là del dato tecnico, esiste anche una questione simbolica.

«Che in occasioni del genere assume una forte valenza: non si può dare, proprio in questo periodo caratterizzato da forti restrizioni, l’immagine che i parlamentari possano essere messi in una situazione più protetta in confronto di quella dei cittadini che esercitino un munus pubblico o semplicemente un lavoro. Sarebbe un cattivo esempio, anche poco consono alla dignità della funzione parlamentare».

Non solo come liturgia ma anche come manifestazione simbolica della posizione dei parlamentari e dei grandi elettori.

«I parlamentari non possono apparire come titolari di posizioni di maggior favore: verrebbe in gioco la violazione dell’art. 3 della Costituzione, oltre che l’immagine delle istituzioni».

E con l’ingerenza dei partiti, a molti osservatori apparsa eccessiva, come la mettiamo?

«L’attuale dibattito è forse anche viziato da un convincimento, ovvero che in realtà i partiti stiano attraversando una fase di debolezza, fino al declino se non alla “morte”.  Personalmente non la vedo così: i partiti non sono morti, sono in trasformazione, anzi già trasformati rispetto a ciò che erano nel XX secolo. Oggi abbiamo partiti personali nazionali e personali regionali, ispirati a mentalità populista».

Questa trasformazione sembrerebbe condurre ad una forma di arretramento tattico.

«Capita soprattutto con i governi tecnici, o caratterizzati dalla presenza forte di personalità non provenienti dal mondo partitico: ma la nostra democrazia rimane, essenzialmente, una democrazia dei partiti. La trasformazione ha anche condotto all’attuale configurazione del Parlamento, caratterizzato da continui passaggi da un gruppo ad un altro, tanto da registrare la crescita esponenziale del Gruppo misto, slegato dalle discipline di partito e che potrebbe essere determinate, soprattutto a partire dalla quarta votazione, quando sarà sufficiente la maggiorana assoluta».

I partiti dovrebbero sforzarsi di identificare una personalità di primo piano…

«Dovrebbero indicare un candidato che travalichi confini ideologici e di appartenenza. Non è possibile nessuna previsione, ovviamente, anche per l’assenza di candidature ufficiali: esistono quelle informali, le autocandidature, nulla di più. Ma l’influenza partitica rimane dominante».

A proposito di nomi: su Mario Draghi si potrebbe giocare una singolare partita…

«Questa ipotesi dà luogo a riflessioni politico-costituzionali su temi complessi, nell’assoluta assenza di precedenti cui rifarsi. Innanzitutto partiamo da un’incompatibilità tra i due uffici, quello del Presidente della Repubblica e quello del Presidente del Consiglio dei ministri, a mente dell’art. 84 c.2 della Costituzione. Infatti, nel caso in cui venisse eletto alla prima carica, il Presidente del Consiglio Draghi dovrebbe immediatamente dimettersi dal suo ufficio e dovrebbe farlo proprio nelle mani del Capo dello Stato uscente, ovvero in quelle di Mattarella».

Si innescherebbero meccanismi a catena…

«Se Draghi, infatti, dovesse essere eletto al Quirinale non assumerebbe ancora le funzioni di Presidente della Repubblica perché occorrerebbero il giuramento e il passaggio delle funzioni dal Presidente uscente a quello entrante. Ora, il giuramento interviene in un arco temporale non predefinito e quindi l’ipotetico presidente della Repubblica Draghi dovrebbe rassegnare le sue dimissioni da Presidente del Consiglio prima del giuramento quale nuovo Presidente della Repubblica. E’ dal giuramento, infatti, che decorrono l’assunzione delle funzioni presidenziali e il settennato».

Domanda: Draghi è il nuovo presidente della Repubblica, si dimette dalla sua carica di Presidente del Consiglio dei ministri. Chi lo sostituirà al governo?         

«Subito dopo le sue dimissioni scatterebbe l’istituto della supplenza previsto dall’art 8 della legge 400 del 1988: in sostanza dovrebbe assumere le funzioni di Presidente del Consiglio dei ministri quello in carica più anziano. (Questa norma in realtà prevede che a supplire sia il vicepresidente, che nel governo Draghi non è previsto)».

Ma è prevista anche un’altra ipotesi, se non sbagliamo…

«Il più anziano subentra in assenza di diversa determinazione del Presidente del Consiglio, e Draghi potrebbe designare come supplente non il ministro più anziano d’età, ma, per come consente la norma del 1988, una personalità di suo maggiore gradimento».

Riassumiamo: questo governo, potrebbe rimanere in carica presieduto dalla persona indicata dal Presidente uscente Draghi, nel frattempo eletto Presidente della Repubblica.                 

«Esatto. In realtà, per ragioni di stile e di correttezza istituzionale, tale governo dovrebbe dimettersi: dovrebbe farlo nelle mani del nuovo presidente della Repubblica, ovvero in quelle di Mario Draghi. Insomma, saremmo in una situazione costituzionalmente complessa, per l’assenza di consuetudini costituzionali capaci di orientare i comportamenti».

Questo caso limite potrebbe divenire una prassi costituzionale…

«Esattamente: se, infatti, Draghi si dimettesse da Presidente del Consiglio prima del giuramento da Presidente della Repubblica, in ossequio all’artt. 84 c. 2 della Carta costituzionale, questo modo di procedere diventerebbe una prassi costituzionale, cioè una regola accettata dai diversi attori costituzionali coinvolti nell’elezione del Presidente della Repubblica. Qualora la vicenda si riproponesse successivamente, la regola diventerebbe vincolante».

La legge 400 del 1988 sull’istituto della supplenza venne pensata a suo tempo per regolare il caso di assenza o impedimento temporaneo del presidente del Consiglio dei Ministri.

«Oggi verrebbe applicata secondo un’interpretazione estensiva analogica. Si tenga conto che si tratta di supplenza: questo Presidente del Consiglio, o come più anziano tra i ministri in carica o come designato per disposizione del Presidente del Consiglio uscente -intanto diventato Presidente della Repubblica- è un supplente, cioè si trova nella pienezza dei poteri e non si limiterebbe a restare in carica per gli affari ordinari».

Eserciterebbe poteri e prerogative pieni.

«Sarebbe un vero come un vero Presidente del Consiglio con pienezza di poteri. Ovviamente, come detto, ragioni di correttezza istituzionale imporrebbero a questo nuovo governo e al suo leader di dimettersi, ma nulla -allo stato- impedirebbe al nuovo Presidente della Repubblica (Draghi, nel nostro esempio) di dare l’incarico proprio a questo Presidente del Consiglio precedentemente nominato. Giocano ragioni di opportunità e di lealtà costituzionale».

                 

Panorama.it                                                    Egidio Lorito, 12/01/2022