“Così come il primo vagito testimonia l’inizio della vita terrena del neonato, non scorderò mai la reazione traumatica e liberatoria che contrassegnò il mio ingresso nella vita dell’Italia trapiantata in Egitto. Avevo quattro anni. Era il settembre del 1956…”. Sono i primi ricordi che riaffiorano dalla recente pubblicazione che Magdi Allam, vicedirettore ad personam del “Corriere della Sera”, ha dedicato all’Italia, sua seconda patria. In “Io amo l’Italia. Ma gli italiani la amano?” (Mondadori), Allam, grazie ad una lucida analisi storico-culturale che -francamente- ha dell’incredibile se paragonata a tanta supponenza, sufficienza, autoreferenzialità tipiche di casa nostra, urla a gran voce il suo amore incondizionato per il nostro Paese, visto come “la Terra promessa”: “il matrimonio con l’Italia, voluto con tutto me stesso, si realizzò nel tempo con l’adesione spirituale ad un insieme di valori, ad un modello di vita, a persone, suoni, colori e profumi. La metamorfosi si era già consumata prima che quell’aereo dell’Alitalia atterrasse a Roma: dentro di me tifavo Italia con tutto me stesso (…)”.
Strano Paese l’Italia, ma forse già lo sapevamo. Alla vigilia della partenza degli Azzurri per l’avventura mondiale, una larga fetta della c.d. opinione pubblica sarebbe stata pronta a defenestrare Lippi e buona parte della sua allegra compagnia, perchè quella squadra era -alla fine- nient’altro che la squadra di quel Moggi diventato -per quella parte di giustizialisti e forcaioli “senza giusto processo” che si definiscono cittadini di uno Stato di Diritto- il padre di tutte le disgrazie italiche.
Non è passato neanche un anno e quella che i colleghi giornalisti definiscono orami “la pagina delle intercettazioni” è cresciuta a dismisura, tanto da essere la più letta dei quotidiani: sembra che agli italiani non interessino più la politica, la cultura, lo sport: interessa solo leggere (e commentare) estratti di migliaia di pagine di intercettazioni telefoniche.
L’avevo promesso! Annamaria, Antonella D’, Antonella Z., Antonio, Carmine, Chiara, Daniela P., Daniela T., Domenica, Edmea, Emilia, Enza, Enzina, Enzo, Francesca, Giovanni T., Luisa, Magda, Manuela, Mariahelena, Mariangela, Marianna, Marilia, Moira, Nicola, Roberta, Rosamaria, Rosita, Rita, Simona, Stefania C., Stefania S., Ylenia. Letta così, tutta d’un fiato, sembrerebbe una bella formazione di calcio, d’altronde siamo in clima da coppa del mondo.
Succede con tutte le aree di confine: ma qui succede ancora di più, perché la Storia -da queste parti- ha inesorabilmente legato al filo doppio le nostre terre ed il nostro mare. Lo sostengo da almeno un decennio: il dibattito l’ho condotto dapprima sul piano della ricerca e della pubblicistica, tanto da dedicare alle mie due Regioni l’ultimo “Tracce di Calabria”, che solo il titolo potrebbe ingannare il lettore meno attento;molto più di recente, il tema lo sto trasferendo sul piano più squisitamente antropologico: non me ne vogliano gli addetti ai lavori -tranquilli, non ruberò loro la professione!- ma ci sarà pure un motivo se nella mia vasta schiera di frequentatori, di ragazze e ragazzi con cui condivido ormai molto di questa esistenza, la percentuale dei “lucani” supera di gran molto quella dei “calabresi”.
"Brigitte era la ragazza del tempo nuovo, della strada nuova, della città nuova, la portabandiera della generazione in jeans e maglione che stava cambiando il volto del mondo occidentale”. Di questa ragazza esplosa in tutta la sua prorompente bellezza alla metà degli anni ’50 del secolo appena trascorso, Giampiero Mughini parla nel suo ultimo “E la donna creò l’uomo.Lettera d’amore a BB ( Mondadori, 2006), nel quale il giornalista-scrittore ritorna ad uno dei suoi temi più cari: quello della bellezza femminile, appunto.