Aliberti Editore, Reggio Emilia 2006, pp. 206, € 15.00
“Ho incontrato Francesca, per l’intervista, a Castiglione della Pescaia, il paese toscano da cui è partito suo padre, nel 1973, per il giro del mondo in solitario. Qui lei è di casa e quando la riconoscono le raccontano sempre qualche aneddoto su Ambrogio Fogar. "Mi ricordo quando è arrivato -dice l’amico Ado Guidi- nel nostro albergo Miramare, vestito da città, di professione faceva l’assicuratore e ha chiesto l’indirizzo di un armatore. Parlava di barche da inesperto, così gli abbiamo chiesto che cosa ci volesse fare, lui, con una vela: “il giro del mondo”, ha risposto. E’ matto, abbiamo pensato. Ma ci credeva talmente che l’abbiamo aiutato e appoggiato in tutto. Fino al trionfo. E dire che alla partenza, al porto, eravamo quattro gatti".
Nel corso della giornata siamo andate a passeggiare sul molo cercando di immaginare l’emozione di un uomo che dopo quattrocento giorni di navigazione in solitario rientra in porto accolto da migliaia di persone, con l’intima consapevolezza che quello sbarco gli avrebbe cambiato, per sempre, la vita. Francesca allora non era ancora nata, ma il trionfo di suo padre, della sua voglia di andare, scoprire, sarebbero diventati parte integrante anche della sua vita”.
Inizia così la lunga conversazione di Marta Chiavari -giornalista professionista free lance, milanese, collaboratrice di Mtv e La7- con Francesca Fogar, vulcanica e sensibile giornalista, forte e dolce figlia di quell’Ambrogio Fogar che non esito a definire “simbolo” per un’intera generazione, quella che vedeva in questo baffuto milanese l’incarnazione del moderno eroe, novello Ulisse, capace di sfidare la natura e le sue forze pur di spingersi a ricercare e superare i propri limiti. Ricordo ancora il giorno della sua scomparsa, il 24 agosto del 2005: non esagero se affermo che abbiamo sicuramente perso una piccola parte di noi stessi, piena zeppa di emozioni, ricordi, limiti interiori ed esteriori da superare, di sogni; sembrava inarrestabile e “nonostante un giorno si sia fermato per sempre, in seguito all’incidente che l’ha paralizzato, nel deserto del Turkmenistan durante il rally Parigi-Mosca-Pechino, questa giostra non si è fermata. Ma il rapporto tra padre e figlia, prima così fisico, dinamico, fatto di viaggi, sport, abbracci, ha dovuto, con sofferenza e difficoltà, trovare una nuova dimensione, un nuovo linguaggio che permettesse di continuare a comunicare l’affetto, ora ancora più vitale, con rinnovato vigore. Perché un dramma di questa entità richiede un grande sforzo per essere affrontato con lucidità, senza abbandonarsi a una disperazione cieca quando ci si accorge che parole che prima avevano un significato ora potrebbero perderlo per sempre”.
Il dialogo tra Marta Chiavari e Francesca Fogar -non un semplice incontro tra intervistatrice ed intervistata, è bene sottolinearlo- ha il merito di aver scandagliato sin dentro le pieghe più intime di questo particolare rapporto tra un padre, letteralmente fuori dal comune, ed una giovane figlia che negli anni è come se ne avesse seguito la strada -le tante strade, i mille sentieri, in verità- che solo un moderno esploratore, solo un camminatore instancabile, un navigatore senza paura, uno scalatore senza timore poteva letteralmente aprirle. E quando parlo di sentieri -conoscendo bene Francesca- mi riferisco, soprattutto, a quelli interiori!
Perché è sull’interiorità che si gioca sia il resto della vita di Ambrogio Fogar e del suo particolarissimo rapporto con la figlia Francesca che le stesse pagine che ho la fortuna di conservare gelosamente nella mia biblioteca: quell’uomo, fino a quel momento praticamente imbattibile, che aveva messo piede negli angoli più sperduti del mondo, che aveva navigato in solitaria contro le correnti ed il senso dei venti, che aveva raggiunto da solo il Polo Nord, che si era spinto laddove traccia umana non era mai arrivata, quell’uomo -ora- avrebbe passato i successivi tredici anni come forse mai avrebbe immaginato: come noi mai avremmo pensato. Eccola la parabola umana di Ambrogio Fogar: qualcosa di molto più profondo della semplice avventura al limite della sopravvivenza, del rischio da missione impossibile, della voglia di superare ogni limite, di abbattere ogni barriera. Questo qualcosa in più, sarebbe venuto fuori proprio all’indomani di quel tragico incidente che, per la terribile gravità delle conseguenze, avrebbe annientato qualunque altro essere umano. Evidentemente non Fogar: perchè questo “qualcosa in più” lo ha aiutato a lottare, anzi lo ha tenuto in vita per tredici lunghi anni, passati non come un vegetale, non come corpo senz’anima disteso su un letto: perchè l’avventura più dura di Ambrogio Fogar è iniziata proprio quel 12 settembre del 1992, per durare quasi tredici anni… Ed ancor oggi mi risuonano forti le sue parole che, meglio di ogni altro commento, chiariscono il senso di quel qualcosa in più: “ voglio spiegarvi perché un tetraplegico come me, un uomo tagliato fuori dalla vita, decide di provare a tornare a navigare sui suoi oceani. Per capire, non basta pensare alla voglia dell’aria salmastra che invade il volto e il corpo: il vero motivo di questo viaggio è la voglia di tornare a vivere slegato dalle quattro mura che ormai da due anni e mezzo mi incapsulano…”. Era il maggio del 1995 ed il nostro moderno eroe raccontava la sua ultima avventura: ovvero ripetere la circumnavigazione del globo a bordo di una barca a vela attrezzata, allo scopo di raccogliere fondi per la ricerca sul midollo spinale…
Francesca racconta e si racconta, ed in questo alza il velo sul mondo interiore di suo padre, senza neanche tralasciare l’ultimo dialogo con lui, al ritorno dalla Cina, dove Ambrogio Fogar si era recato per tentare la via del trapianto con cellule fetali. Un mondo fatto di uno straordinario dialogo che il padre aveva contribuito ad alimentare con scritti e pubblicazioni, come con le singolari cartoline spedite dai luoghi più improbabili del pianeta: per non parlare -appunto- delle struggenti lettere scritte alla moglie ed alla madre durante gli interminabili giorni del naufragio del 1978 quando, a bordo del “Surprise”, tentando di circumnavigare l’Antartide, subisce l’attacco di un branco di orche che ne provoca il naufragio al largo delle Isole Falkland. Settantaquattro infiniti giorni vissuti a stretto contatto con l’amico-giornalista Mauro Mancini che perderà la vita.
Alla fine di queste intense pagine, accade magicamente come se il dialogo tra Marta Chiavari e Francesca Fogar avesse lasciato le pagine del libro per trasferirsi in una dimensione così talmente intima, così strettamente personale, da dare alla conversazione stessa quasi il senso di una confessione: ci sono i ricordi della famiglia paterna, quelli della fanciullezza, della scoperta del mare, del senso goliardico, del corteggiamento verso Maria Teresa, conosciuta a Madonna di Campiglio nella Pasqua del 1968 e sposata -dopo un lungo corteggiamento- nel 1971; poi la nascita di una bella bambina, contesa nel nome tra ”Margherita” e “Francesca”; le passioni giovanili, i viaggi in solitaria: le vittorie e le sconfitte, le gioie e i dolori. Sino a quel mitico cane, Armaduk, entrato nell’immaginario collettivo di tutti noi. Insomma, un intero ciclo che Francesca Fogar indaga sin nei risvolti più intimi della sua straordinaria relazione con un padre più che mai straordinario e che ora ci restituisce in tutto quel commovente rapporto.
“Di Ambrogio Fogar leggevo le avventure e seguivo la voglia di cercarsi. Un giorno mi chiamò. Mi disse che, nel 1978, quando fu attaccato dalle orche, aveva con sé una cassetta di mie canzoni. Disse anche che, quando aveva paura di non farcela, ripensava a Velasquez. "Con quella canzone", mi disse, "posso vincere il mondo". Non riesco a immaginare niente di più bello. Una canzone, a volte, può servire a sopravvivere. Oggi, sapere che l’ultima volta, prima di andarsene, ha accennato Luci a san Siro, mi riempie il cuore. Spero abbia avuto musica nel suo ultimo viaggio”
Roberto Vecchioni entra, con la profondità e la sensibilità che lo contraddistinguono, nelle pagine di questo piccolo gioiello di interiorità, tra il sogno e la lotta. “Come ti piacerebbe che venisse ricordato Ambrogio” chiede Marta Chiavari a Francesca. “Come l’uomo che credeva nei suoi sogni e non ha mai smesso di lottare”, risponde Francesca. Grazie per questa bella lezione di vita…