La Voce della Calabria

Nel 1951, all’indomani del suo ritorno dal campo di prigionia di Hereford, in Texas, Giuseppe Berto diede alle stampe un romanzo pronto a sorprendere critica e pubblico che da tempo seguiva lo scrittore di Mogliano Veneto: all’apice della fase neorealistica della sua produzione, un veneto iniziava ad interessarsi di una terra lontana per collocazione geografica e sentire culturale, suscitando anche un certo disagio tra molti intellettuali suoi contemporanei, dai quali non solo non fu mai amato, ma addirittura perseguitato ed osteggiato: forse anche ghettizzato. Berto iniziava, così, ad interessarsi direttamente della questione meridionale, entrava in contatto con una terra ancora sconosciuta alla maggior parte dei nostri connazionali dell’epoca e, come se non bastasse, ambientava addirittura il suo romanzo tra gli sperduti boschi della Sila.

Qualche anno orsono, nell’ottica di una valorizzazione delle culture regionali per come teorizzato da un grande studioso di localismi come Carlo Dionisotti, videro la stampa venticinque volumi con le più significative pagine della narrativa calabrese: venticinque grandi autori del tessuto vivo della nostra cultura venivano ripresentati al grande pubblico per riorganizzare le fila di un discorso mai sopito sulla genesi e l’importanza della tradizione regionale nella culturale nazionale.

“Mi è capitato recentemente di riferire una breve testimonianza su Giuseppe Selvaggi da inserire in una ricerca effettuata dagli alunni della Scuola Media Biagio Lanza di Cassano Ionio: in quell’occasione, mi sono reso conto che sintetizzare un uomo ed un’amicizia non è facile, imbrigliato come sono in quel pudore -direi generazionale- nel manifestare i sentimenti, che quasi sempre rimangono implosi nel mio cuore. So che può sembrare una sciocca scusa, ma io -come Selvaggi- appartengo e provengo da un mondo nel quale si aveva un rispetto reverenziale per i genitori, per le persone adulte, per i superiori in cultura e in esperienza, ai quali ci si rivolgeva con il voi: è capitato anche con Giuseppe Selvaggi.

Ne è trascorso di tempo da quel periodo che possiamo collocare tra la prima metà del ‘700 e gli inizi del ‘900, da quando, cioè, la terra di Calabria divenne meta prediletta di grandi viaggiatori che dal centro e nord Europa si spostavano in riva al Mediterraneo per ammirare, respirare ed odorare una terra che fino a qual momento avevano potuto leggere soltanto su datati manuali o all’interno delle grandi opere classiche.

Il panorama è di quelli che lasciano incantati. Lo sguardo spazia a 360° in un susseguirsi di mare, monti e cielo. La Rocca domina l’intero Golfo di Policastro, dal campano Capo Palinuro, al tratto lucano di Maratea sino a Capo Scalea, estrema punta calabrese dell’enorme arco di costa che abbraccia tre Regioni, tre Province, una manciata di Comuni affratellati dal mare del Mito di Ulisse. Le montagne ci sono tutte: il Parco Nazionale del Cilento e del Vallo di Diano con la sua massima altezza, quel Monte Cervati che da qui mostra il suo versante meridionale, innevato per molti mesi all’anno;le montagne lucane che fanno da corona alla breve ma intensa costa di Maratea, con quel Monte Coccovello che sembra proprio voler ergere un invalicabile confine geografico.

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