Faccio parte, con molto orgoglio -qualche maligno direbbe “supponenza”, ma poco importa, perché la “ftònoia”, come la chiamerebbero gli antichi greci, è sempre in agguato- di un ristretto gruppo di calabresi -per me, più precisamente, di “calabro-lucani”- che da anni va alla scoperta del proprio territorio e poi, davanti ad una tastiera di computer, cerca di trasformare in parole le emozioni vissute.
Ho avuto la possibilità di girare in lungo ed in largo il territorio calabrese, di godere delle splendide altezze che dal Pollino all’Aspromonte, passando per l’Orsomarso, la Catena Costiera, la Sila, le Serre, fanno della Calabria un unicum nel patrimonio paesaggistico italiano;così come di godere di questo nostro mare (anzi dei due mari…) che avvolge la nostra penisola, miscelandosi in quel Mediterraneo che un fine storico come Fernand Braudel ha definito, non a caso, “mare della complessità”.
Ho alle spalle escursioni negli angoli più irreali di questa regione: il sentiero che si sviluppa ai piedi dei mastodontici “Giganti del Fallistro” sembra condurre in un mondo a sé, lontano mille miglia dalla Calabria nota all’opinione pubblica: invece, siamo nel cuore della Sila, “paradosso paesaggistico” come la definì un tal veneto di nome Guido Piovene. Ho toccato con mano la corazza che avvolge i pini loricati del Pollino, anche di quell’esemplare -oggi simbolo del Parco Nazionale- prima che qualche vile e codardo essere vivente che non oso nemmeno definire “uomo”, gli desse fuoco il 19 ottobre del 1993. Sarà, come direbbe il mio amico di avventure e di penna Francesco Bevilacqua, che per chi ha nel cuore una certa Calabria, è molto difficile arrendersi “al disincanto, all’opportunismo, all’omologazione, alla perdita inarrestabile di identità e di orgoglio, al populismo che regna sovrano. Alla vigliaccheria reciproca che impedisce ai governanti di fare ciò che è giusto ed ai governati di protestare (…)”.
“Apollinea. La Rivista del territorio del Parco Nazionale del Pollino” di Mimmo Sancineto, è la palestra che da diciassette anni contribuisce a forgiare un “modus cogitandi” che supera gli steccati ideologici e le mere appartenenze politiche in materia di protezione e sviluppo ambientale. Ho organizzato cocciuti dibattiti sui temi caldi della tutela del paesaggio calabrese, all’interno di rassegne culturali che a qualcuno staranno anche sullo stomaco, ma che hanno -aspetto sempre la prova del contrario- contribuito nel loro “piccolo” a vivacizzare il clima culturale in questa parte di Calabria: e Mauro Francesco Minervino con il suo “La Calabria brucia” non è che il più recente esempio.
Grazie alla mia collaborazione con la rivista “La Buona Neve” di Cortina D’Ampezzo, nel pieno inverno del 2008, la Sila, il Pollino e l’Isola di Dino facevano bella mostra di sé sotto le inimitabili guglie dolomitiche. Bella soddisfazione… Già: l’Isola di Dino. A proposito: all’indomani della scomparsa di Gianni Agnelli, pubblicai sul quotidiano “La Provincia Cosentina” un articolo che titolai “Dino, l’isola dell’Avvocato”: era il 28 gennaio del 2003. <<Nel ricordare la figura di Gianni Agnelli, grande capitano di industria, patron della Fiat, mecenate, presenza di primo piano del jet-set internazionale, la stampa di questi giorni ha fatto a gara a ripescare i luoghi simbolo della sua esistenza: Torino, Sestriere, Saint Moritz, New York, la Costa Azzurra, la Libia, e via via discorrendo le località dove finanza e mondanità si intrecciavano volentieri. Ma a molti, purtroppo, è sfuggito quell’antico legame che venne intessuto tra l’Avvocato e Praia a Mare. Nel 1962, l’Isola Dino Spa, società della famiglia Agnelli, con sede a Torino, acquistò dal Comune tirrenico l’incantevole isola, l’unica, per dimensioni, esistente lungo le coste calabre. Già nei primi anni ’50, una società milanese aveva acquisito, per novantanove anni, il diritto di superficie sull’isola, realizzando, proprio sulla celebre grotta del Leone, un complesso formato dalle caratteristiche costruzioni a uovo, unitamente ad altre strutture turistiche. Ma fu senza dubbio l’ingresso del patron di casa Fiat nella proprietà dell’isola a permettere la predisposizione di un articolato progetto di valorizzazione turistica, capace di fare del gioiello praiese un luogo di incontro per un turismo elitario, visti i legami dell’Avvocato con il bel mondo di allora;senza dimenticare che in quel periodo, un altro piemontese doc, il conte Stefano Rivetti, dalla vicina Maratea, stava iniziando a gettare le basi per la grande avventura dell’industria manifatturiera. Varie costruzioni videro la luce nella parte alta dell’isola, senza deturpare l’incantevole paesaggio, che avrebbe potuto tranquillamente convivere con un casinò, un eliporto, una darsena per yacht di varie dimensioni, il tutto inserito in un più complessivo progetto di sviluppo di una delle aree più belle ed incontaminate dell’allora sconosciutissimo sud Italia. E non era difficile, durante il mese di agosto di quegli indimenticabili anni ’60, veder ancorare, a sud-est dell’isola, una delle tante barche di Gianni Agnelli, che apprezzava la purezza delle acque praiesi, per poi ripartire, anche a bordo di un elicottero, alla volta di mete dove tranquillamente si sarebbe discusso del destino finanziario ed economico di questa o quell’altra società. Un anziano marinaio locale, Natalino Argirò, ebbe la ventura a quel tempo, di trasportare in più occasioni, alla volta dell’isola, il presidente della Fiat. Questo ricordo rimane ancor oggi vivo e ci consegna un Gianni Agnelli “sinceramente attratto dalla bellezza dei luoghi”, selvaggi e non ancora assaliti da un turismo mordi e fuggi. Erano gli anni in cui, tra la speranza dei locali, i Rivetti, gli Agnelli, ed i Tafuri -famiglia che acquistò proprietà estesissime dall’attuale “Bridge” sino a Papasidero- avrebbero potuto far compiere quel salto di qualità alle nostre comunità, se immesse nei circuiti di quel turismo internazionale rimasto oggi solo un dolente miraggio. Non a un caso, ad un modello di punta della casa automobilistica torinese venne, auguralmente, dato il nome “Dino”, come anni dopo sarebbe accaduto al modello “Maratea” della vendutissima Fiat 131. Ma la speranza dei locali finì bruscamente alla metà degli anni ’70, quando, per cause che ancora aspettano risposta, la famiglia Agnelli cedette la proprietà dell’isola, che si avviò a percorrere un lungo e doloroso declino, fatto di scontri politici, rivendicazioni personali, interminabili questioni legali e promesse elettorali, sino ad oggi, quando “l’isola che non c’è” , clamorosamente dimenticata da tutti a largo di Capo d’Arena, dorme un lungo sonno, fatto di sogni infranti e di rimpianto per tutto quello che neppure all’Avvocato (chissà perché) riuscì di compiere. Ma questa è un’altra storia!>>Già: un’altra storia. Perché sette anni dopo quei miei pensieri e quasi mezzo secolo dopo da quel miraggio di sviluppo turistico, accade che un giovane imprenditore praiese, che da alcuni mesi pare si stia interessando all’unica isola calabrese con un progetto di rilancio certamente non “speculativo” -non potrebbe “speculare” per il semplice “status” cui l’Isola è sottoposta- per far riemergere dalle secche e dalle nebbie questo grande scoglio che da troppo tempo se ne sta isolato dal resto della comunità locale, abbandonato al suo muto destino, senza apparente speranza. Ebbene, lamenta il giovane imprenditore praiese di essere continuamente sottoposto ad un controllo fin troppo asfissiante, quasi un marcamento degno della miglior tradizione pallonara, tipo Gentile su Maradona in quell’infuocato luglio 1982. Le domande traboccano come l’acqua dalle Cascate del Niagara! Sinceramente non basterebbero quelle famose “10 domande di Repubblica al Cavaliere”: perché la Calabria è rimasta al palo? Perché il territorio calabrese non ha avuto fortuna pari alla sua bellezza? Perché in Calabria tutte le iniziative abbisognano di ere geologiche per trovare una degna conclusione? Perché la classe politica calabrese ha dato, di sé, un’immagine quasi sempre poco edificante? Perché le bellezze paesaggistiche sono state, spesso, sfruttate e non valorizzate? Perché in Calabria c’è un isola ma è come se non ci fosse? Perché microscopici e sperduti villaggi alpini sono, invece, diventati capitali mondiali dello sci? Perché poche baite dolomitiche hanno portato un benessere diffuso ed, invece, chilometriche spiagge non riescono a trasformarsi in vere e pulite fonti di ricchezza? Perché? Meglio sorriderci sopra: neanche il buon Henry Bergson sarebbe riuscito nell’impresa. Ma questa è un’altra storia. Già, sempre un’altra…
Il Nuovo Diogene Moderno
Anno XIV giugno-luglio 2010 Egidio Lorito, 19/06/2010