"Gli alberi sono le colonne del cielo. Quando essi saranno abbattuti, il firmamento crollerà su di noi"
“Con 450 mila ettari di boschi, la Calabria è tra le prime quattro regioni più boscate d’Italia. In epoca classica le sue selve erano assai famose, tant’è che Greci e Romani nominarono “hyle” e “silva” (cioè “la foresta” per antonomasia) tutto il rilievo centro-meridionale della Calabria, allora ricoperto, senza soluzione di continuità, da un atavico manto forestale. E se, come in tutto il mondo civilizzato, anche in Calabria la memoria delle grandi selve primigenie è stata spazzata via dalla protervia dell’uomo, qui -molto più che altrove- sono miracolosamente sopravvissute straordinarie testimonianze di quelle selve.
Grandi alberi, isolati o raggruppati in piccole comunità, allignano infatti un po’ ovunque, dai monti alle marine, dalle valli ai crinali, epigoni di un passato mitico e fiabesco che si sta tentando faticosamente di preservare. Sul Pollino vivono i più vecchi, possenti alberi d’Europa (uno di essi ha 1000 anni di vita), appartenenti ad una specie -il Pino Loricato- che è considerata una vero e proprio relitto botanico della preistoria.
In Sila Grande e sull’Aspromonte, invece, svettano dritti i portentosi obelischi dei Pini Larici, altra conifera endemica di Calabria, questa volta di origine occidentale, che a Fallistro, a Gallopane e sul crinale di Pietra di Mazzulisà annovera alcuni tra gli alberi più grandi d’Europa (sino a due metri di diametro ed a 40 di altezza(…)”. Francesco Bevilacqua, cui devo molto in termini di passioni montane nella mia regione è -sicuramente- uno dei maggiori conoscitori in fatto di montagne calabresi: uno che, dopo aver percorso più di ventimila chilometri a piedi dal Nord al Sud di questa fantastica regione mediterranea ed aver trasferito il suo pensiero in una decina di libri di grande impatto visivo, è capace come pochi a trasmettere ai lettori le sue impressioni, le sue scoperte, le sue riflessioni. E così, dopo il capitolo dedicato alla “Calabria bianca”, Rolly mi ha chiesto di raccontare al pubblico dei suoi lettori un’altra Calabria, non meno eccitante e fiabesca. Quella verde, appunto, fatta di foreste sterminate, pascoli d’altura, alberi dall’età e dimensioni straordinari. Gli alberi appunto: le colonne del cielo!
Tra questi c’è ne è uno che si è meritato un posto di primissimo piano nell’immaginario collettivo: un segno della natura che da oltre un secolo ha stimolato la ricerca scientifica ed eccitato le vette della poesia; un albero che definire tale può risultare del tutto riduttivo visto che per gli addetti ai lavori si tratta di un vero e proprio relitto storico, arrivato dalla regione balcanica ed adattatosi a climi del tutto differenti, quelli roventi delle estati mediterranee come dei rigidi inverni occidentali. Un albero la cui storia è iniziata nella notte dei tempi e che oggi riscopriamo, ammirandone il suo fiero portamento.
Ho avuto la fortuna di ammirare più volte il Pino Loricato della Grande Porta del Pollino nei dieci anni precedenti la sua infausta fine, avvenuta il 19 ottobre del 1993, quando l’imbecillità fatta persona comandò ad ignote mani di darlo alle fiamme: fu un gesto terribile, un affronto non soltanto ad una pianta centenaria che era riuscita a superare le prove di sopravvivenza più difficili, quanto al giovanissimo Parco Nazionale che proprio allora festeggiava i suoi primissimi anni di vita. Durante quei miei dieci anni di visite a quel meraviglioso esempio di forza della natura, ne ho potuto ammirare la possanza, il portamento maestoso, la sua capacità di resistere alle condizioni più estreme: colpiva quella particolare foggia a bandiera orientata secondo i terribili e gelidi venti che a quella quota, anche in piena estate, non darebbero tregua neanche alla più solida struttura in cemento armato. In tutti i visitatori c’era un carattere che forse -più di tutti- colpiva: quel fiero orgoglio che sembrava emanare; se ne stava lì, da qualche secolo, muto guardiano del cuore del Pollino, di quell’area più intima e segreta del massiccio calabro-lucano, quasi a custodire gli altri esemplari della sua specie che trovano poi la massima sublimazione in quel luogo che un attento conoscitore del Parco come Giorgio Braschi ha poeticamente definito “Il Giardino degli Dei”. “Chioma di colore verde brillante a profilo piramidale, corteccia inconfondibile a tutte le età che nelle piante adulte e mature è di colore grigio-cenere e divisa in grandi placche irregolarmente quadrangolari, pentagonali ed esagonali, separate da solchi più o meno profondi e ricoperte da squamette lucenti, con l’insieme delle placche che conferisce al ritidoma del fusto e delle radici scoperte il tipico aspetto di corazza a lorica”, come ha scritto Silvano Avolio che per professione e per passione ha dedicato al Pino Loricato una vita di studi e ricerche.
Una settantina di chilometri più a Sud: siamo in Sila Grande, nel cuore della Calabria delle grandi foreste in quota. Siamo all’ombra di un gigante buono, il Pino Laricio. Lo si incontra lungo tutto l’altopiano, ma in particolare c’è una zona in cui questo gigante è riuscito ad esprimersi in maniera quasi irreale. Partendo da Camigliatello Silano in direzione Sud, seguiamo l’agevole Statale 107 -quella che collega il Tirreno con lo Jonio- sino al crinale di Croce di Magàra: qui, raggiunto il piccolo villaggio, in un giardino di oltre 5 ettari, ad una quota media di 1400 metri, incontriamo i 56 esemplari di Pino Laricio che tra un diametro di quasi due metri ed un’altezza anche di 40 metri incantano per quell’aria da giganti buoni. Se ne stanno lì almeno dal 1620, quando l’allora proprietario del fondo volle gettare le basi per un ricovero di pini da associare alla filanda ed alla casa di famiglia: oggi quelle piante hanno raggiunto proporzioni inusitate tanto da meritarsi l’appellativo di “Giganti del Fallistro”. Quando il vento sibila tra questi tronchi alti e rettilinei, quando le chiome oppongono resistenza agli agenti atmosferici -sia una bufera invernale o una pioggia primaverile- lì, ai piedi di questi giganti buoni, non è difficile trovare riparo, sentirsi protetti da una natura che ha assunto sembianze al limite del poetico. Una sensazione intima di pace interiore ti circonda: vi si entra in contatto, in simbiosi, quasi si è costretti a parlare con queste creature, come accadeva ad “un’anziana nobildonna veneta trapiantata in Calabria” -ricorda ancora Bevilacqua- “che i locali guardavano con sospetto perché non di rado l’avevano sorpresa a discorrere con gli alberi: mi disse che quei patriarchi arborei erano spiriti vecchi di cinquecento anni e che con essi chiunque poteva tessere un intimo sorprendente dialogo, se solo lo desiderava. Da convinta credente, la signora Paola sosteneva che le preghiere salmodiate in quel tempio naturale avevano un valore ben più profondo di quelle recitate in una chiesa: perchè quello -diceva- era uno dei luoghi di culto prediletti dal buon Dio, che l’aveva creato così bello e sontuoso”. Questi alberi sono le colonne del cielo. Quello di Calabria. E non solo…
La Buona Neve – Giugno 2008 Egidio Lorito, 28/04/2008