Il Caso Calabria
Nel corso degli ultimi anni bbiamo sovente orientato la nostra attività pubblicistica, al di là delle riflessioni di carattere tecnico-giuridico, anche verso analisi legate allo stato di attuazione dei diritti e delle libertà nei contesti territoriali. Potrà sembrare strano affrontare questa tematica nel 2008, ma una lunga tradizione negativa, una classe politica inadeguata e giornalieri accadimenti, che non sfuggono alla cronaca, impongono, talvolta, ben più di una riflessione, anche giuridica. d esempio, in terra di Calabria, estrema regione dell'Italia continentale, lo Stato di Diritto pare essere divenuto più una connotazione ideale che un reale stato giuridico: la diffusa illegalità, che sembra regnare sovrana, non è altro che la punta di un iceberg di antichi malesseri mai curati e di antiche aspirazioni mai raggiunte.
E vittima sacrificale è la stessa nozione di cittadinanza, oggetto delle più svariate aggressioni. Questo è il nodo centrale: in una delle venti Regioni di uno degli Stati più sviluppati del pianeta, ancor oggi non vengono rispettate appieno le regole fondamentali che garantiscono la nascita del moderno Stato costituzionale di diritto.
Questa nostra affermazione non è solo frutto del contemporaneo succedersi di "accadimenti" negativi all'interno delle istituzioni regionali, ma anche della constatazione defacto dell'estrema difficoltà che s'incontra ad "azionare" quel complesso fascio di "diritti e libertà" che rappresentano il cuore della nostra democrazia. E se pure ragioni storiche risalenti alle drammatiche vicende dell'Unità d'Italia pesano tuttora come macigni, questo non giustifica affatto che questa terra abbia smarrito quell'antica tradizione storica che, derivante dai fastigi della "Magna Graecia", collocava il concetto di cittadinanza nel patrimonio storico nella nostra civiltà.
Per cui, oggi, quelle che Hannah Arendt aveva definito "le incertezze dei diritti umani", incertezze perché "proprio nel momento in cui avrebbero dovuto manifestarsi come fondamentali, i diritti umani hanno manifestato tutta la loro fragilità", hanno connotato drammaticamente il panorama socio-politico-istituzionale della Calabria.
Cerchiamo di dare una spiegazione a questa anomalia. Per tutta una serie di motivi, se il '900 apportò negli Stati europei più avanzati (le cosiddette Democrazie classiche od occidentali) elementi e caratteri che nel diritto affondavano la propria origine, in Calabria proprio quel secolo avrebbe rappresentato un inspiegabile salto all'indietro di millenni, ovvero una condizione preellenica, quando la civiltà era solo un'aspirazione per il futuro.
E questo, perché proprio nel '900 sarebbero venuti al pettine i tanti nodi che una difficile riunifìcazione nazionale aveva portato con sé: nel '900, i Calabresi, infatti, avrebbero conosciuto il dramma dell'emigrazione massiccia verso il Nord Italia e le Americhe, così come una potente corrente malavitosa qual è la 'ndrangheta " avrebbe messo a ferro e fuoco intere aree della regione, così come avrebbe subito il più grande inganno della sua storia, ad opera, con i naturali distinguo, della sua classe politica.
Non a caso, in merito alle, per così dire, "aspettative tradite", Giuseppe Berto, lo scrittore veneto, calabrese d'adozione in quanto praticamente ritiratesi a Capo Vaticano per amore di questa terra, in "La civiltà scomparsa in Calabria e Lucania" significativamente si domanda: "In che modo la Calabria partecipò alla formazione dell'unità d'Italia;quali erano i suoi problemi ed i rapporti tra il ceto politico ed il sistema di governo regionale-locale? La risposta a tali interrogativi porta ad osservare che la Calabria si atteggia alla stessa stregua del ceto politico che la rappresenta: una rappresentanza che è ovviamente limitata, com'è proprio dello Stato liberale fino alla Costituzione repubblicana. In realtà c'era stata, con l'unificazione, una sorta di aspettativa messianica dei contadini calabresi alla prese con l'onerosissimo problema del latifondo e con le condizioni sociali di arretratezza, ben colte dalla letteratura dell'epoca".
Ed ancora, tradendo grande affetto verso questa antica terra di civiltà ellenistica, sottolinea con rammarico: "La Calabria, sarebbe potuta diventare il paese di un turismo nuovo, colto, civile, un luogo di recupero spirituale per tutta la gente estenuata dalle nevrosi, dalle intossicazioni, dagli arrampicamenti, da consumismo ed industrializzazione, che ormai fanno malata più di mezza Europa. Invece, i Calabresi, appena tirata fuori la testa dalla miseria, si sono messi a distruggere il proprio passato - anche gli alberi, le case, il paesaggio - con un accanimento che l'avidità, l'ignoranza e l'ansia di portarsi al più presto all'altezza di Jesolo e di Busto Arsizio, non bastano da sole a spiegare. Bisogna cercare nell'inconscio".
Quando, un paio d'anni or sono, fu dato alle stampe "Tracce di Calabria. Lo sguardo indietro, il cuore avanti", ci si materializzò l'obiettivo che quelle riflessioni avrebbero dovuto raggiungere: mostrare la Calabria di oggi attraverso la lente d'ingrandimento del suo aulico passato. D'altronde, gettare "lo sguardo indietro" equivaleva proprio a comparare la Calabria di oggi con quella straordinaria stratificazione di civiltà che, da sempre, era stata la penisola calabrese, civiltà che Berto, non a caso, definisce "scomparsa", in quanto passata sotto gli ingranaggi di una malefica macchina annulladiritti. Per cui, lo stesso sistema istituzionale funziona a fasi alterne, la cultura regionale sembra essersi imbalsamata (molti intellettuali sono organici al potere) e la comunità dei cittadini è mille miglia lontana dalla sua effettiva funzione di fruitrice di diritti e di erogatrice di doveri.
Insomma, in Calabria sembra essersi realizzato l'esatto opposto di quanto preconizzato da un'intera generazione di filosofi e giuristi in materia di diritti umani, se è vero, come ha scritto Gian Pietro Calabrò a pagina XII di "Prefazione a Helzei", che, al cospetto di una condizione di patente illegalità, "la nozione di cittadinanza (...) perde le sue connotazioni sociologiche" per divenire un freddo ed astratto dato normativo, del tutto eludibile come l'intero fascio di diritti che connotano lo Stato di Diritto.
Per cui, fenomeni quali la '"ndrangheta", la criminalità organizzata e l'illegalità, spesso sovrane in molte istituzioni regionali, non sono altro che effetti consequenziali a questa condizione. Ed allora, ecco il non-turismo che caratterizza buona parte del territorio calabrese;la non-economia che affama le nostre comunità;la non-politica che si è letteralmente impadronita della nostra vita amministrativa.
Quelli che altrove sembrano, quindi, gli elementi patologici dello Stato di Diritto, in Calabria rappresentano lo stato "fisiologico" del vivere quotidiano, ovvero, una sorta di rassegnazione ormai dilagante tra la popolazione che assiste, del tutto immobile, al continuo consumarsi della sua stessa tradizione, della sua stessa vita. Di fatto, in Calabria, se non proprio tutto, molto è "anti-politica". Ed è in questo desolante quadro contemporaneo che viene ad inserirsi uno dei casi più emblematici che l'attualità regionale abbia mai fatto registrare, un caso in grado (forse) di scuotere finalmente l'opinione pubblica, quasi a voler restituire un livello fisiologico al senso civico regionale;un caso contestualmente capace di mettere in discussione la stessa sopravvivenza dello "Stato di Diritto" in Calabria, "terra metà paradiso, metà inferno";il caso del magistrato napoletano Luigi De Magistris.
Non entreremo nel merito tecnico-giuridico della vicenda perchè sarebbe poco professionale discutere di fatti e circostanze ancora ben lungi dall'essere chiarite e risolte. Ciò nonostante, non possiamo non porci alcuni interrogativi che sono sulla bocca di tutti. Perché si cerca di allontanare un Magistrato proprio quando sembrano al capolinea corpose inchieste sulla "presunta" tangentopoli calabrese, che vedrebbero coinvolti nomi eccellenti di buona parte della classe politico-amministrativa regionale? Perché si cerca di "stoppare" la ricerca della verità in merito ad una serie di possibili reati che, se portati a compimento, avrebbero grandemente contribuito a fare della Calabria una delle ultime regioni d'Europa? Perché si vogliono colpire gli inquirenti invece di difenderli dalla '"ndrangheta"? Ovvero, perché si vuole, più semplicemente, allontanare quel giudice da indagini su nomi di primo piano della classe politico-istituzionale del Paese? È talmente complessa e diabolica questa vicenda, che si rischia di rimanere letteralmente basiti.
Non spetta a noi fare pronostici su come andrà a finire questa brutta vicenda. Poco ci interessa, pure, dell'evidente imbarazzo di alcune forze politiche regionali. Quello che, invece, ci preme sottolineare, è la forte sollevazione di piazza che si è registrata sin da quando questa vicenda è venuta a conoscenza dell'opinione pubblica.
Certo, non saranno le migliaia di firme raccolte a sostegno di De Magistris o la solidarietà mostrata dalla gente di Calabria a far imprimere alla vicenda la svolta auspicabile. Ma almeno una "certa" Calabria, questa volta, ha dimostrato di essere viva e non sottomessa. E come avrebbe chiosato Giuseppe Berto, "ad essa è legata una piccola speranza: che i Calabresi comincino a guardare con rispetto al loro passato e operino per conservare quanto della loro antica civiltà non è stato ancora distrutto". Pronti a salvare, aggiungiamo noi, lo Stato di Diritto. Che vuol dire salvare i diritti e le libertà.
Egidio Lorito