Sono passati 27 anni, eppure sembra ieri. Milano, 28 maggio 1980: Walter Tobagi, un giovane giornalista di origini umbre, inviato speciale ed articolista del “Corriere della Sera”, dal 1978 presidente dell’Associazione lombarda dei giornalisti e consigliere della Federazione Nazionale della Stampa -uno che stava distinguendosi per il rigore scientifico del suo approccio professionale e per l’attaccamento ad una professione che si era praticamente cucito addosso- sta recandosi a prendere l’auto nel garage a pochi metri dalla sua abitazione. Un commando di terroristi della Brigata XXVIII Marzo -un raggruppamento affiliato alle Brigate Rosse, che cerca di mettersi in evidenza con gesti plateali al fine di accedere nel livello più alto della lotta terroristica- lo attende in Via Salaino. Marco Barbone e Mario Marano erano i componenti del gruppo di fuoco: giovanissimi e per di più figli della Milano bene.
Avevano poco più di venti anni ma la freddezza di un commando esperto e senza scrupoli che non diede scampo a quel giovane giornalista -lui, appena trentatreenne- che ad otto anni aveva seguito con la famiglia il padre Ulderico, ferroviere, a Bresso, periferia della grande metropoli lombarda. Walter non ebbe scampo: non poteva averne, perché poi, ad ammazzare un uomo solo, “armato” solo di una borsa con dentro le carte del proprio lavoro non ci voleva poi molto. Tobagi andava eliminato perché diventato il simbolo di scomode inchieste sulla politica ed il movimento sindacale, sul terrorismo di destra e di sinistra, sul sindacato colluso e sulle condizioni di lavoro dei siderurgici, sull’organizzazione del lavoro e sui rapporti con i capitalisti. Ma anche -e soprattutto- sulla misteriosa morte di Pinelli all’interno del Commissariato di Milano e su quell’altrettanto fumosa del commissario Giuseppe Calabresi, senza dimenticare la fine di Giangiacomo Feltrinelli, esploso a causa di una maldestra bomba sotto un traliccio dell’alta tensione. Misteri d’Italia. Andava eliminato, Walter. Ma andatelo a raccontare alla giovane moglie Stella Olivieri ed ai due figli Luca di sette anni e Benedetta di tre. Provate a farlo capire a queste ennesime vittime di quella vergognosa strategia della tensione che insanguinò la nostra Penisola e su cui ancora non è stata scritta la parola fine. Conosco Corso Bovio, uno dei migliori penalisti d’Italia: quel giovane avvocato, tre anni dopo, avrebbe rappresentato la Parte Civile in quel drammatico processo. Marco Barbone, condannato a 8 anni e 6 mesi di reclusione, lasciò il carcere dopo circa tre anni beneficiando della legge “sui pentiti”. Proviamolo a spiegare tutto ciò…
Eco di Basilicata anno VI° n. 11
Egidio Lorito