A tu per tu con...

“Nove. Perché nove? Perché questi nove?(…)Non parlo solo del grumo di conoscenze acquisite, di esperienze pregresse, di percorsi interrotti ma non cancellati che condizionano inconsapevolmente colui che si accinge ad un nuovo lavoro (…). Pensieri. Che senso dare a questo reiterato appello al pensiero?A quali ascendenze rimanda e quali motivazioni trasporta? Certamente esso percorre una direzione che non coincide con la pura ricerca storica: anche se non la esclude né le si contrappone (…). Sulla politica. Quest’oggetto è la politica. Vorrei insistere sul ruolo di oggetto assegnato alla politica. Perché? Quale necessità trattiene la politica alla misura di oggetto del pensiero. Cosa le impedisce di farsene contemporaneamente soggetto?(…)”.

Era l’agosto del 1992 e da Parigi Roberto Esposito si interrogava -nella sua introduzione- sui fondamenti della sua ultima opera, Nove pensieri sulla politica (Il Mulino, 1993): un testo sul quale si sono formati in molti, capace di spiegare con rigore scientifico e chiarezza di linguaggio termini quali Politica, Democrazia, Responsabilità, Sovranità, Mito, Opera, Parola, Male, Occidente. Insomma nove ragionamenti su altrettante parole-chiave che accompagnano l’esperienza non solo del fine ricercatore ma anche del comune cittadino. Il mio incontro con questo intellettuale non è stato casuale: nella mia biblioteca, da tempo, faceva bella mostra di sé quel saggio e la curiosità è stata tanta, insieme al consiglio di Massimo Donà di inserirlo tra gli ospiti di una tappa di queste conversazioni. Il dialogo con Roberto Esposito scorre pacato, lento, segno di una disponibilità che mette a proprio agio l’interlocutore: “per quel che riguarda l’ambito degli studi -laurea in Filosofia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia della Federico II di Napoli- provengo direttamente dalla letteratura italiana: il mio Maestro è stato un importante italianista oggi scomparso, Giancarlo Mazzacurati, e quindi all’inizio mi sono dedicato a ricerche tra la letteratura italiana e quella politica, sezionando autori come Machiavelli e Vico: successivamente sono andato specializzando il mio percorso verso la filosofia politica e da quel momento la mia stessa pubblicistica ha seguito questo itinerario grazie a due trilogie che hanno caratterizzato questo filone di ricerca: la prima comprende Categorie dell’Impolitico (Il Mulino, Bologna, 1988), Nove pensieri sulla politica, appunto, e L’origine della politica. Hannah Arendt o Simone Weil, (Donzelli, Roma 1996); la seconda, più recente, riunisce Immunitas. Protezione e negazione della vita (Einaudi 1999), Bios. Biopolitica e filosofia (Einaudi, 2002) e Communitas. Origine e destino della comunità (Einaudi 2004). Attualmente è in uscita una nuova ricerca sul tema della persona e dell’impersonale”. Questi titoli si inseriscono di diritto nel panorama di maggior pregio della ricerca in filosofia politica, e ad essi va aggiunta anche la prima fase della produzione che, dopo una serie di saggi giovanili dedicati alla letteratura italiana tra gli anni Trenta e Sessanta, comprende i tre volumi Vico, Rousseau e il moderno Stato borghese (De Donato, Bari, 1976), La politica e la storia. Machiavelli e Vico (Liguori Napoli, 1980) e Ordine e conflitto. Machiavelli e la letteratura politica del Rinascimento (Liguori Napoli, 1984). Già professore Ordinario di Storia delle Dottrine Politiche presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli e Direttore del Dipartimento di Filosofia e Politica, oggi Roberto Esposito insegna Filosofia Teoretica all’Istituto Italiano di Scienze Umane, un centro di alta formazione nato nel 2002 come consorzio tra Università, destinato a realizzare programmi di alta formazione dottorale nelle scienze umane: con sede a Firenze e Napoli, il centro può contare su docenti del calibro di Franco Cardini, Andrea Giardina, Aldo Schiavone, Mario Citroni, Leonardo Morlino, Alberto Varvaro, Guido Martinotti, Omar Calabrese, Paolo Prodi, Maria Patrizia Violi, Francesco Amarelli, Maurizio Bettini, Luigi Caporossi Colognesi, Piero Craveri, Ernesto Galli della Loggia, Giuseppe Galasso, Tullio Gregory, Claudio Leonardi, Pietro Rescigno e Cesare Salvi. A sottolineare l’assoluto pregio accademico del nostro ospite, anche la Facoltà di Filosofia dell’Università Vita e Salute-San Raffaele di Milano può contare sulla sua esperienza scientifica, con una recente collaborazione accademica che lo vede docente di Biopolitica: “questo insegnamento” -mi precede subito- “nasce dalla chiara esigenza di spiegare che oggi la politica ha sempre più a che fare con la vita biologia, sia nel senso che tutte le ultime vicende scientifiche (tecnobiologia, mutazione genetica, bioetica), hanno assunto una “dimensione politica” e sia in quello che la politica tende sempre di più ad agire proprio sul corpo umano, per esempio nel modo nuovo di condurre le guerre, nei drammatici eventi terroristici: ecco, la Biopolitica si occupa proprio di tutto ciò”. Spiegato, allora, l’ultimo nato, riveduto e corretto, ovvero Bios. Biopolitica e filosofia, in cui il nostro interlocutore traccia le linee evolutive di questo suo pensiero. Né possiamo dimenticare la vasta attività editoriale che ha visto Esposito direttore responsabile e membro della direzione della rivista Il Centauro, condirettore della Rivista di Filosofia Politica, tra i fondatori del Centro per la Ricerca sul Lessico Politico Europeo, consulente editoriale e scientifico della rivista “Micromega”, direttore della collana di filosofia politica “Teoria e oggetti” delle Edizioni Liguori e condirettore della collana “Per la Storia della filosofia politica” per l’Editore Franco Angeli: ed ancora collaborare con Einaudi, Il Mulino, Bollati Boringhieri, Bruno Mondadori e Donzelli. Allora, Professore, vogliamo evidenziare l’interesse per il pensiero politico? “Il pensiero politico non ha un carattere normativo che cioè definisca cosa si debba fare in politica, cosa debbano fare i partiti politici o i soggetti variamente impegnati: è un pensiero, invece, essenzialmente critico, che decostruisce il senso comune che circonda le parole ed i concetti della politica, cogliendone gli elementi di contraddizione interna: questo per quanto riguarda termini come democrazia, libertà, comunità per cercare di aprire un nuovo varco di comprensione del mondo contemporaneo. Il linguaggio tradizionale della politica oggi appare esausto, è in uno stato di crisi permanente e quindi si avverte la necessità di creare un nuovo linguaggio, chiaramente connesso ai concetti a loro volta legati alla realtà delle istituzioni: il principale obiettivo sta nel ridefinire i termini della politica, ovviamente!”. All’interno di Nove pensieri che utilizzo come Filo D’Arianna per questa conversazione, Esposito inaugura la sua galleria con il termine “Politica” e non poteva essere altrimenti: “può sembrare strano che la filosofia politica, impegnata in interminabili dispute sulla differenza disciplinare nei confronti della scienza politica o della storia delle dottrine politiche, perda di vista il problema fondamentale che sempre più urgentemente le si pone: quello, cioè, del crescente divario tra politica e pensiero. Tra i due pare elevarsi una barriera di reciproca incomprensione: è come se la politica si rifiutasse all’esperienza del pensiero nella stessa misura in cui il pensiero si dimostra incapace di pensare la politica; e ciò nonostante la proliferazione di filosofie politiche che sempre più stancamente affollano il nostro panorama culturale. Si direbbe, anzi, che esse non solo non riescano a ridurre quel divario, ma neanche a concettualizzarlo, a farsene carico e interrogarlo. Perché? Proverò a rispondere a tale domanda con una tesi che preferisco enunciare con la massima nettezza: la filosofia politica non riesce a riempire -o solamente a conoscere- lo scarto tra politica e pensiero perché è proprio essa a produrlo (…)”. Poi compare il termine “Democrazia” e qui Esposito parte dalla constatazione che “la contrapposizione di Mito e Democrazia appartiene a una di quelle evidenze che s’impongono senza bisogno di dimostrazione. Il Mito, nella sua accezione politica, è normalmente inteso come il rischio mortale che dall’esterno insidia le sorti della Democrazia e la Democrazia -per contro- come il regime che più d’ogni altro è capace di resistere all’attacco del Mito, di dissolverlo nella razionalità delle proprie procedure e di restaurare la naturale trasparenza della politica. Il presupposto da cui questa concezione si origina è naturalmente quella del nesso organico tra Mito e Totalitarismo: la Democrazia è per essa opposta alla politica del mito perché questa è propria dei regimi totalitari: e, in maniera corrispondente, i regimi totalitari fanno uso del mito politico proprio per abbattere la democrazia e impedirne il ritorno. Riprova storica di tale assunto concettuale è considerata la circostanza che la democrazia occidentale, nata nel secolo scorso con la generalizzazione del suffragio universale e della dialettica dei partiti rappresentati in Parlamento, sia uscita rafforzata dalla vittoria sul mito politico totalitario alla fine delle Seconda Guerra Mondiale, e ormai definitivamente affermata dopo il crollo del Comunismo”. C’è anche l’Occidente tra i suoi obiettivi… “ L’Occidente appare diviso al suo interno tra almeno due diverse prospettive: da un lato quella “americana”, di tipo aggressivo, legata ad una visione di scontro economico e militare; dall’altro c’è un Occidente europeo che predilige -nei rapporti internazionali- il dialogo, la strategia pacifica, la politica diplomatica. Ecco, già al suo interno quest’area del globo non si presenta omogenea, perchè divisa tra due logiche diverse, se non addirittura opposte. Potrei aggiungere, inoltre, che in fondo anche quello che non è “Occidente”, ha ormai assunto alcuni dei caratteri tipicamente occidentali, come l’uso della tecnica, l’uso della propaganda, come avviene sempre più spesso nel mondo del fondamentalismo islamico che nell’uso dei media appare alquanto occidentalizzato: quindi, oggi, la differenza assoluta tra ciò che è Occidente e ciò che non lo è non esiste come valore assoluto, semplicemente per il fatto che la tanto decantata o vituperata globalizzazione, in questo caso, sta rendendo il mondo una casa sempre più piccola!” E in Nove pensieri sulla politica, Roberto Esposito seccamente affermava che “pochi concetti, come quello di Occidente sono sottoposti alla pressione di schemi interpretativi frontalmente contrapposti e contesi dalle loro implicite opzioni valutative. Il primo modello ermeneutico è quello del “compimento”. Del compimento, precisamente, come realizzazione di un’intima essenza: l’Occidente ha finalmente compiuto la storia perché ha effettivamente realizzato i propri valori: libertà, progresso, pace. Il crollo del comunismo non è che la prova postuma, e perciò logicamente superflua, di un esito già tutto contenuto nei suoi presupposti(…). Figuriamoci se il termine “Sovranità” non poteva non stimolare ancor di più questa conversazione, visto che da questa parte c’è un giovane gius-pubblicista che con questo concetto si è imbattuto almeno un ventennio fa, prima con le nozione filosofiche liceali e poi con quelle giuridiche nelle aule universitarie ed ora il rapporto tra Stato e Cittadino è essenziale: “se c’è una categoria politica che più di altre si presta ad uno smontaggio semantico -o rotazione intorno al proprio asse- tale da proiettare in superficie il suo cuore impolitico, è proprio quella di Sovranità. Ovviamente penso in primis all’operazione condotta intorno agli anni Trenta da Georges Bataille con una tale violenza decostruttiva da fargli precisare, ad apertura di discorso, che la sovranità di cui egli parla “ha poco a che vedere con quella degli Stati definita dal Diritto internazionale””: così aveva esordito Esposito nell’analisi del 1993 ed ancora oggi torna sul fondamentale argomento ribadendo che “la Sovranità è il paradigma fondamentale della politica moderna dalla creazione dei grandi Stati nazionali: oggi, questo paradigma di sovranità è minacciato sia all’interno degli Stati da gruppi che tendono a separarsi sia all’esterno dai grandi aggregati come quello europeo, in cui la sovranità è soverchiata dalle dinamiche della globalizzazione: la sovranità dello Stato dura ancora ma con sempre crescenti difficoltà”. Siamo su un bel foglio di carta-stampata, poteva mancare un richiamo alla “Parola” ed alla “Comunicazione”? Assolutamente no, se è vero che in uno dei pensieri -Parola- appunto, Esposito dichiara solennemente esserci “un’attrazione fatale tra politica e linguaggio: se la politica resta il segno dell’azione, questa -allorchè si fa politica- appare interpretata, avvolta, riempita dal linguaggio. Conferisce ed attende parola. Non si tratta di una semplice funzione di trasmissione, il linguaggio come strumento di comunicazione politica: il linguaggio, in questo caso, non è più considerato solo il tramite privilegiato della politica, ma l’oggetto stesso della politica”. In conclusione, Professore, Lei sta indirizzando le sue ultime ricerche nel rapporto tra origine delle politica e idea della comunità: cos’è per Roberto Esposito la Communitas? “La intendo non come un’aggregazione di persone unite dalla lingua, dalla religione, dalla etnia come invece sostengono i comunitaristi: per me è un modo di essere in cui l’elemento decisivo è il “munus”, elemento fondante la comunità: ovvero avere dono e cura reciproca, legge del dono. Quindi i membri della comunità, prima ancora che dall’interesse, sono uniti proprio da questa legge del donare qualcosa di sé -o addirittura tutto di sé- agli altri”. Insomma, Esposito colloca la comunità al di fuori di qualsiasi richiamo ai comunitarismi passati e presenti, idea nuova rivolta a quegli autori (Rousseau, Kant, Heidegger) in cui prevale una concezione della comunità come legge comune dell’essere-insieme, non senza sottolineare la consapevolezza “tragica” della sua irrealizzabilità politica. Questo è l’universo di Roberto Esposito, il filosofo dell’impolitico, ovvero di “un tipo di sguardo con cui agirono alcuni pensatori come Simone Weil, Georges Bataille e lo stesso Martin Heidegger: la politica non vista frontalmente, ma cercando di far emergere le zone d’ombra…”.
La Provincia Cosentina
Egidio Lorito, 24-02-2007

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