A tu per tu con...
“Questo è un libro sgradevole. E scomodo. Sgradevole perché non è simpatico che qualcuno ti ricordi che Kant pensava che i negri puzzassero e che la nazione è tale “per comune discendenza di stirpe”. Mentre Voltaire era convinto che le negre si accoppiassero con gli scimpanzè dando vita a mostri sterili. E che “ancora oggi in Calabria si uccide qualche mostro generato dalle donne. Non è improbabile che, nei paesi caldi, delle scimmie abbiano soggiogato delle fanciulle”. D’altra parte sempre Voltaire notava “che i negri e le negre, trasportati nei paesi più freddi, continuano a produrvi animali della stessa specie” e che “i mulatti sono semplicemente una razza bastarda. (…)
Non ci sono solo i soliti Gobinau e Rosemberg in questa galleria degli orrori prodotti dal pensiero umano. Da Linneo a Darwin a Spencer -passando per Lombroso, Marx e Carrel- la galleria costruita da Marco Marsilio comprende il meglio della filosofia e delle scienze moderne. E smonta così, pezzo per pezzo, il luogo comune auto-assolutorio che l’uomo contemporaneo europeo e occidentale si è costruito per evitare di fare fino in fondo i conti con le proprie radici”. Gianni Scipione Rossi, giornalista, è vicedirettore dei Servizi Parlamentari della Rai: studioso del Novecento, si occupa in particolare di storia del Fascismo e di storia della Destra italiana, oltre che delle problematiche legate alle migrazioni: tra i suoi libri più recenti, Mussolini e il diplomatico (2005), La destra e gli ebrei (2003), L’Islam e noi (2002). Di Marco Marsilio, ospite questa settimana nella galleria di “A tu per tu con…” ha curato la ricca prefazione di “Razzismo. Un’origine illuminista” (Vallecchi 2006), libro presentato lo scorso 13 aprile all’Università di Bari ed il 18 a Roma in occasione della manifestazione “La vita segreta delle parole” organizzata dalle Biblioteche della Capitale. Il nuovo contatto è “patrocinato” -anche questa volta- dalla cortese Sebastiana Gangemi dell’ufficio stampa della storica casa editrice fiorentina: lo raggiungo telefonicamente a Roma e proprio partendo dalla sua città -di cui è consigliere comunale per Alleanza Nazionale- questo trentottenne dottore in Filosofia affronta i temi del confronto tra culture differenti, dell’integrazione etnica, dei conflitti di civiltà: temi al centro di ricerche che ha sviluppato nel corso di numerose conferenze e che, ora, sono alla base degli studi dai quali ha preso il via la sua ultima pubblicazione. Nove capitoli spesi a spiegare il concetto di superiorità nel passato, lo sviluppo delle scienze umane positive, la nascita del razzismo scientifico, gli studi linguistici, lo sviluppo dell’antropologia, l’evoluzionismo, la nascita dell’eugenetica e della psicometria. Insomma, un bel po’ di argomenti: “la mia principale passione -quella per la politica, appunto- coltivata sin da ragazzo prima nell’ambito scolastico e poi in quello universitario, è alla base di questa riflessione trasferita su libro: ho iniziato giovanissimo ad occuparmi di politica, dapprima all’interno dei consigli di quartiere e poi, da un decennio, all’intermo del Consiglio Comunale di Roma. E’ indubbio che sulla mia stessa attività politica abbia pesato il fatto che Roma appare sempre più come il luogo di incontro di numerose culture, una città che ospita uomini e donne che provengono da ogni parte del mondo: questo, evidentemente mi ha messo di fronte ad una realtà, anzi a delle realtà spesso differenti dalla mia, da quella italiana: e ciò ha dato l’input per una serie di riflessioni che sono poi state tradotte nelle pagine che formano la mia ultimissima pubblicazione. Dibattiti nelle scuole, nei quartieri, conferenze e poi il lavoro di tesi di Laurea, approdato successivamente alla Vallecchi: una ricerca condotta sul campo, a Roma, contornata dalle necessarie nozioni di antropologia, di storia, di filosofia, di scienze umane in genere”. Per la tua analisi sei partito praticamente dal mondo antico: “non poteva che essere così. Il mondo antico non conosceva sviluppi di concezioni razziste sistematiche. L’assenza di una speculazione sistematica e scientifica in questo campo durerà almeno fino al secolo XVIII: ciò non vuol dire certo che prosperasse al contrario un pacifico e sereno clima di convivenza. Possiamo anzi dire che ogni popolo coltivasse l’idea di una sua superiorità rispetto alle altre popolazioni e che questa convinzione fosse, per così dire, un dato di fatto, un punto di partenza implicito. La storia che conosciamo è una successione incredibile e inarrestabile di guerre, conflitti, invasioni; di civiltà, che nascono e muoiono. L’atteggiamento di fondo che rintracciamo nelle relazioni tra i popoli è riconducibile a quello che gli psicologi identificano quando descrivono la diffidenza e l’ostilità nei confronti dell’altro da sé. La scoperta del diverso provoca un’istintiva reazione di rifiuto e di conseguente affermazione della propria identità: ma se in epoca moderna l’affermazione della propria identità si è posta in termini assoluti e di negazione di quella altrui -fino ad arrivare ai progetti di sterminio, alle deportazioni di massa, alle pulizie etniche di estesi territori- tali eccessi nel mondo antico sono una rara eccezione; di norma troviamo invece una diffusa tolleranza ed accettazione di modelli culturali e sociali, quando non un esplicito riconoscimento del valore della cultura altra che si incontrava e questo nonostante la conflittualità di fondo descritta”. Poi, ad un certo punto della Storia, si verifica la scoperta dell’ “altro”… “E’ nell’età moderna che le popolazioni europee subiscono lo shock della “spcoperta del selvaggio”: nelle Americhe e nel cuore dell’Africa nera e successivamente in Australia e nelle isole del pacifico, l’uomo bianco civilizzato entra in contatto con popolazioni assolutamente incomparabili con i propri modelli. Negli studiosi che affrontano lo studio del razzismo e della discriminazione, si è sviluppato un dibattito a proposito del periodo a cui far risalire il punto di avvio delle moderne dottrine in merito: la crescente importanza che viene data all’analisi delle reazioni e degli effetti della scoperta del Nuovo Mondo, al peso dell’esperienza coloniale nella genesi del razzismo, ha fatto identificare una cosiddetta “scuola del 1492”. In effetti, la scoperta dell’America segna uno spartiacque innegabile: si può dire che “i conquistadores spagnoli appartengono storicamente al periodo di transizione fra un Medioevo dominato dalla religione e l’epoca moderna che mette i beni materiali al vertice della sua scala di valori”. Questo fenomeno è ben impersonato dallo stesso Colombo, sincero cattolico e assetato di ricchezze, il cui atteggiamento nei confronti degli indiani rappresenta lo stereotipo del rapporto che per secoli caratterizzerà colonizzatori e colonizzati. Le descrizioni che i primi viaggiatori danno dei popoli indigeni del Nuovo Mondo, esprimono il totale rifiuto che la civiltà europea mostra nei loro confronti. I selvaggi sono descritti con tutti gli aggettivi dispregiativi possibili e immaginabili e gli si attribuiscono comportamenti ed abitudini del tutto disumani: nel Mundus Novus, una delle prime relazioni di viaggio conosciute sulla scoperta dell’America e attribuita ad Amerigo Vespucci in persona, la descrizione esclusivamente privativa degli indigeni si conclude con un lampante”quid ultra dicam? Vivant secundum naturam”. Persino dal punto di vista teologico la stessa Chiesa entra in crisi di fronte a uomini così distanti dal modello universalmente dato: molti teologi si affannano a elaborare una teoria del “peccato originale supplementare” che avrebbe colpito le popolazioni negre in virtù della loro origine da Cam, figlio maledetto di Noè e grazie alla quale si giustificano le violenze e le sopraffazioni che ai loro danni compiono i bianchi”. La conversazione con Marco Marsilio a proposito della sua recente uscita in libreria e, più in generale, dello stato dei rapporti oggi in corso tra residenti ed immigrati -tema questo tra i più attuali e pressanti per qualunque amministrazione di una grande città come Roma- mi permette di affrontare -praticamente dal vivo- un argomento salito agli onori della recente cronaca nazionale, con i fatti della “Chinatomwn” milanese esempio eclatante del difficile clima e dei rapporti tesi tra residenti e comunità straniere, da tempo ormai stanziate nel capoluogo lombardo, come -del resto- in qualunque altra grande realtà italiana. E Marsilio, sull’argomento, è secco quando afferma che “si parte sempre dalla diffidenza verso l’altro e dallo stato di superiorità in cui noi sentiamo di vivere! Per lunghi secoli, diverse popolazioni si sono confrontate, conosciute, combattute: oggi viviamo in una sorta di equilibrio precario che basta poco per far saltare”. Nel tuo saggio utilizzi il termine “razzialismo”… “parto dal pensiero illuminista anche se occorre fare molta attenzione nel definire “sic et simpliciter” razzista il pensiero dei primi illuministi: questo perché non tutti i teorici illuministi della nuova idea di razza erano tali; alcuni utilizzavano il termine “razza” e i suoi derivati in senso puramente descrittivo, dal punto di vista antropologico, senza alcun giudizio di valore. Ciò che fonda il virulento razzismo del secolo XIX è la tassonomica classificazione della “fissità della specie” in relazione ai diversi gruppi umani, con la quale l’Illuminismo -o meglio una sua parte- sostituisce l’antica visione cristiana dell’unità della specie umana. La convinzione di una fissità biologica, inalterabile, delle differenze umane, unita ad un giudizio di valore etico e morale -che utilizza i termini “superiore” e “inferiore”- diventa il criterio decisivo e fornisce l’argomento chiave al razzismo moderno e alla sua propagazione: i teorici illuministi svilupparono i loro sistemi per la classificazione e la gerarchizzazione delle razze umane con posizioni estremamente varie rispetto al fenomeno dello schiavismo o al problema dell’appartenenza o meno delle razze “inferiori” al mondo animale. Se nel XVII secolo il tedesco-olandese Georgius Hornius, autore di una delle prime storie della filosofia, pubblicando nel 1666 l’Arca Noae riconduceva le razze umane ancora alla tripartizione biblica tra popoli jafetici, semitici e camitici, già pochi anni dopo l’antropologo e fisico francese Francois Bernier, in un articolo pubblicato su un giornale francese, proponeva una “teoria delle differenze innate” e un nuovo metodo di classificazione basato, forse per la prima volta con l’ufficialità accademica, sulle variazioni dell’aspetto del viso e del corpo. Poteva così credere di individuare quattro grandi razze umane, ovvero gli europei, gli estremo-orientali, gli africani ed i lapponi, considerando i nativi americani come un sottogruppo. Quest’autore oggi è pressoché dimenticato, ma all’epoca il peso dei suoi studi e della sua dottrina era tale da attirare una polemica forte e diretta del grande Leibniz che gli contestava esattamente la teoria delle differenze innate”. Nella tua puntuale ricostruzione sei approdato anche -e non poteva essere altrimenti- alla nascita della Nazione-Stato: “la frammentaria storia europea si ripercuote anche nei diversi e contrastanti percorsi che portarono all’emergere del moderno modello della Nazione-Stato che per la prima volta si incarna compiutamente nella Francia della rivoluzione: è qui, per l’ultima volta, che la nazione cessa di essere un generico aggregato senza diritti politici o tutt’al più una proprietà della dinastia regnante. Nella Francia giacobina, l’elemento caratterizzante della nazione era quello politico-giuridico prima che quello etnico. Su un altro versante si posizionarono, invece, quelle nazioni che non avevano già alle spalle uno Stato unitario: la Gemania, in particolare, ad un corpo politico frammentato in centinaia di unità faceva corrispondere un sentimento di unità linguistica particolarmente sviluppato. Il ruolo della lingua nella costruzione di un’idea nazionale in Germania si può dire che preceda, al contrario della Francia, quello politico-giuridico: prevaleva, cioè, l’idea della nazione come Kulturnation, cioè nazione che per esistere ha bisogno della coesione culturale più che di quella politica e che di quest’ultima “poteva anche costituire la preparazione biologica”. Fu partendo da questi presupposti che in Germania nacque l’idea che quello tedesco fosse un “popolo originario” ed il principale esponente di questa particolare corrente di pensiero, teorico della dottrina dell’Urvolk-Ursprache, fu senza dubbio Fichte con i sui Discorsi alla Nazione Tedesca che, a ragione, possono essere considerati un classico del genere”. C’è uno scritto che segna indelebilmente il tema che hai trattato… “L’esame analitico dell’opera di Adolf Hitler -Mein Kampf- mostra ancor più chiaramente di Rosenberg le tracce indiscutibili della derivazione illuministico-positivistica del razzismo biologico: è con evidente accenti evoluzionistici che Hitler afferma che “coloro che hanno potuto resistere ai colpi dell’esistenza ne escono provati, duri e adatti a procreare di nuovo, in modo che continui come prima il gioco della selezione(…) La diminuzione del numero rappresenta un irrobustimento dei singoli e quindi, in ultima analisi, un rafforzamento della specie”. Si tratta di un darwinismo popolarizzato e volgarizzato, dove la razza assume il ruolo che la specie svolge nella lotta per l’esistenza e diviene il fine ultimo dell’organizzazione sociale”. Ma citi anche Hannah Arendt, una delle figure più importanti della cultura dell’intero Novecento! “Insieme a lei possiamo ripercorrere e riesaminare i passaggi fondamentali che ho dispiegato nella mia pubblicazione: scritto nel contesto delle immediate conseguenze della Seconda guerra mondiale e dello sterminio nazista degli ebrei, “Le origini del totalitarismo” parte esaminando innanzi tutto quella questione ebraica che pochi anni prima era precipitata nell’esito sconvolgente dei campi di concentramento: “i rappresentanti dell’Illuminismo avevano disprezzato gli ebrei come cosa naturale: avevano visto in essi un residuo del Medioevo…””.
La Provincia Cosentina
Egidio Lorito, 29-04-2007