“Pensare ad una strategia didattica di prevenzione dell’illegalità e della criminalità in difesa della democrazia richiede una riflessione preliminare sullo status attuale della nostra democrazia, per cui diventa necessario porsi, anzitutto, qualche domanda sul sistema democratico e sull’istituzione Stato in Italia. Dipenderanno, ovviamente, dal grado di democraticità delle nostre istituzioni e della nostra società, in generale, le strategie educative e didattiche che sarà necessario sviluppare per affrontare le possibilità di prevenzione dell’illegalità e della criminalità organizzata come richiesto dal tema qui oggetto di riflessione”.
Michele Borrelli, Ordinario di Pedagogia Generale presso l’Università della Calabria, si è formato filosoficamente e pedagogicamente all’Università di Gissen, in Germania, dove ha conseguito, tra l’altro, i titoli accademici di Magister Artium e di Doktor Philosophie; ha insegnato negli Atenei di Gissen, Frankfurt a.M., Wuppertal e Nurberg, prima di trasferirsi definitivamente in Calabria, sua terra natale: nella sua imponente bibliografia si incontrano testi che spaziano dalla ermeneutica trascendentale alla fondazione della filosofia e della scienza, dalla pedagogia europea a quella italiana, sino all’analisi del pensiero di Karl Otto Apel -uno dei grandi della filosofia mondiale- cui ha dedicato l’omonimo Centro Filosofico Internazionale ed il Premio Internazionale per la Filosofia che hanno nella natìa Acquappesa sede della loro articolata attività.
Borrelli parte dal dato allarmante della crisi della democrazia in Italia che “non è questione recente, dovuta solo al venire meno, in questi ultimi anni, del ruolo delle istituzioni, all’impossibilità formale e sostanziale di poter partecipare al sistema democratico essenzialmente così come premesso nella carta costituzionale e per com’è venuto formandosi nei sessant’anni della sua esistenza, alla mancanza di credibilità dei partiti politici e, in conseguenza di tutto ciò, alla sfiducia dei cittadini nella politica in generale e nella forma della politica democratica in particolare”.
E non è un caso che Borrelli parli di “silenzio storico” per sottolineare questo complesso sistema critico che avvolge la nostra democrazia, che ne incrina le basi, che ne mette in pericolo a sua stessa esistenza: basta una semplice e superficiale analisi storica per rendersi conto di quanto fragile sia la nostra storia costituzionale, il nostro sistema democratico, perché “diversamente dai Paesi nei quali l’esperienza democratica poteva e può vantare una tradizione consolidata e dov’è stato ed è più facile identificarsi con l’istituzione che definiamo Stato, la democrazia italiana è al suo primo e debole esperimento, condannato a fallire non solo e non tanto per il fatto che in Italia sembra quasi un diritto, se non un bisogno <<biologico>> porsi contro lo Stato, ma anche e soprattutto perché siamo lontani non solo dall’identificarci con l’interesse pubblico, ma riteniamo addirittura un nostro diritto, se non un obbligo, pensare la cosa pubblica da una prospettiva privata”.
Ed è a questo punto che facendo leva sulle sue basi culturali tedesche, Borrelli pone un sorprendente parallelismo tra la storia costituzionale italiana e quella tedesca, nel senso di rifarsi direttamente alla “teoria dell’educazione politica” che il nostro considera preliminare ad ogni impegno o mandato politico di qualunque livello. Qui, Borrelli chiama in causa direttamente uno dei suoi Maestri, quel Kurt Gerhard Fischer (1928-1999), studioso di pedagogia, filosofia, psicologia, e scienze sociali, autore nel 1973 di un testo fondamentale per l’analisi che Borrelli fa nell’Italia (e nella Calabria) contemporanea. Infatti, ne “L’educazione politica nella Germania Federale. Un’introduzione alla didattica politica”, il filosofo di Lipsia dava un’importanza fondamentale proprio alla cultura civica, intesa come conoscenza delle istituzioni, per cui “l’insegnamento politico ha come fine la prestrutturazione psichica, in ogni uomo inteso come cittadino normale, di disposizioni all’attività, delle quali ognuno possa disporre liberamente per prendere delle decisioni, sia caso per caso, sia in linea di principio come homo politicus e per riconoscere e sopportare le conseguenze della propria decisione”.
Insomma, sostiene Borrelli, “diversamente dalla Germania, la democrazia italiana non ha ritenuto necessario avviare un processo di re-education (ri-educazione): mentre in Germania fiorirono e fioriscono tutt’ora, nelle scuole e nelle università, le cattedre di educazione politica (Politiche Bildung), e di didattica delle scienze politiche e sociali, in Italia si è rimasti all’educazione civica come appendice della storia”. Ecco perché, come sostiene il filosofo calabrese, “la scuola che tace non alimenta la democrazia”, perché “si è pensato che dopo gli anni dell’ideologizzazione dovuta al regime fascista si dovesse passare ad una scuola, appunto, neutrale e apoliticizzata (…). Le scuole italiane hanno pensato e pensano tutt’ora che la migliore politica è il non parlare di politica, come se la democrazia non fosse una forma altamente politica, anzi la forma politica per eccellenza di discussione e di critica, di scontro e di dialogo, di dissenso e di ricerca del consenso”.
E la nostra Calabria? Negli ultimissimi anni, Borrelli si è avvicinato al tema dell’analisi del fenomeno mafioso in Calabria grazie alla collaborazione con il magistrato Nicola Gratteri e lo studioso del fenomeno Antonio Nicaso, collaborazione che ha partorito, nel 2008, un fortunato libro -“Il grande inganno. I falsi valori della ‘ndrangheta- dal quale la riflessione si fa serrata: “solamente la ‘ndrangheta dispone di un esercito di seimila affiliati, distribuiti nelle 131 cosche attive sul territorio, con la media di un affiliato ogni 345 abitanti: la ‘ndrangheta è una grande holding economico criminale che mantiene, come tratto costante, il controllo maniacale, quasi ossessivo, del territorio e delle strutture sociali ed economiche. Ciò avviene con una forte capacità di penetrazione negli appalti pubblici, negli investimenti dell’edilizia e nella stessa amministrazione pubblica”.
Il dato allarmante che Borrelli sottolinea a proposito della Calabria e della sua ben nota “holding criminale” è però un altro e non può passare inosservato: “se ci atteniamo a questi dati reali” -ragiona il pedagogista- “non ha senso parlare di fenomeno illegalità, in quanto non ci troviamo solo al cospetto di singoli casi di criminalità organizzata e violenza spesso inaudita, dinanzi alla guerra tra bande, cosche e singoli criminali. Siamo, ovviamente, anche in presenza di tutto ciò. Ma, come è noto, a singoli casi si possono trovare le risposte giuste anche in tempi relativamente brevi per il corso che può sembrare comunque sempre lento della giustizia. Le risposte sono difficili, invece, e possono risultare anche impossibili se non inutili e, quindi, anche scoraggiare la stessa giustizia e noi tutti come singoli cittadini, laddove siamo in presenza di una criminalità, di una illegalità e di una violenza strutturali o sistemiche e, quindi, in presenza di espressioni criminali che investono l’intera società”. E, purtroppo, nella nostra terra di Calabria si è verificato proprio tutto ciò, tra l’atavico radicamento territoriale, il condizionamento degli apparati politico-amministrativi e la stupefacente disponibilità di risorse umane e professionali di alto profilo.
Detto francamente: se può apparire in crisi la democrazia in Italia, non oso neanche immaginare il suo stato in Calabria!
Michele Borrelli, Difendiamo la democrazia. Per una didattica di prevenzione dell’illegalità e della criminalità organizzata, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza 2009, pagg. 88, €. 10,00
APOLLINEA – Anno XIV – n. 2 marzo-aprile 2010 Egidio Lorito