Non capita spesso che la nostra terra di Calabria si conquisti spazi di assoluto pregio nella pubblicistica nazionale: la cronaca quotidiana riferisce continuamente di una Regione sotto lo schiaffo di clan malavitosi, di malapolitica, di indagini della Magistratura. Insomma, un quadro desolante al quale noi calabresi abbiamo fatto l’abitudine, mentre all’ombra della Alpi ci si chiede se questa sia -veramente- una delle aree più povere e sbandate d’Europa. Recentemente mi è capitato di prendermi una bella rivincita, personale e regionale: lo scorso ottobre, anticipato dall’inconfondibile timbro lombardo (di adozione) e trentino (di nascita), ricevo la gradita telefonata di Rolly Marchi, il “Signor Trofeo Topolino”, l’instancabile animatore degli ultimi sessant’anni di vita sulla neve, di quell’impareggiabile mondo sportivo e mondano che è il “circo bianco”; ma anche il cantore delle sue Dolomiti, quelle di Lavis, poco sopra Trento, come delle immacolate Tofàne, vanto della superba e ricercata Cortina.
A questo instancabile poeta delle Dolomiti, con cui ho costruito negli ultimi anni uno splendido rapporto -nel 2005, in occasione della pubblicazione del mio “Tracce di Calabria”, l’avevo onorato di una bella citazione, riprendendo un passo romantico e struggente del suo “Neve per dimenticare”- mi legano l’amore per la natura, la montagna, la neve, le storie sospese tra il reale ed il magico: perché ho sempre a che fare con uno dei massimi cultori dello sci internazionale, capace di raccontare la montagna con levità, competenza tecnica e affetti reconditi come pochi al mondo. Me ne ero già accorto nel maggio dello scorso anno quando, concedendomi una lunga ed affettuosa intervista per il quotidiano che allora mi vedeva firmare una corposa rubrica settimanale, mi aveva raccontato mezzo secolo di vita italiana, di passioni, di affetti, di dolori. Mi affascinò così tanto quel suo prorompente esordio -“ah, la Calabria, voi avete la Sila, il Pollino…”- da chiedergli -senza mezzi termini- di iniziare a collaborare con quella rivista -“La Buona Neve”- che cura da un quarto di secolo con professionalità tecnica e gusto poetico, che è possibile sfogliare all’ombra delle immacolate Tofàne di Cortina o sotto la piramide del Cervino o ancora tra quel susseguirsi di guglie e pinnacoli che le Dolomiti creano nel loro breve ma imponente arco montano. Quella nostra comune passione per la montagna, segno di un legame nato praticamente quando ero ancora “altrove”, si è materializzata all’interno di un primo corposo articolo dedicato alla Calabria in versione invernale, corredato da alcune foto del mio personale archivio, pubblicato su questa patinata rivista che ha visto susseguirsi nel tempo le firme di Giorgio Bocca, Jas Gawronski, Mario Rigoni Stern, Isabella Bossi Fedrigotti, Gaudenzio Capelli, Bepi Degregorio, Indro Montanelli, Piero Ostellino, Cinzia Maltese, Gian Paolo Ormezzano, Serge Lang. E’ così che ha preso corpo il mio intervento sul numero natalizio de “La Buona Neve”, sul quale i tanti lettori sparsi per l’Italia hanno potuto finalmente ammirare la Calabria in versione “bianco Natale”, facendo la conoscenza di una terra effettivamente ben diversa da quella che quotidianamente pensano di conoscere. Non c’è traccia di guerre tra clan malavitosi, di indagini politico-giudiziarie, di loschi affari consumati nel chiuso dei palazzi della politica. Solo natura allo stato puro… Certo, su quelle pagine natalizie ho attinto molto dalla mia personale visione di questa terra, metà Paradiso, metà Inferno, come amo definirla: una visione poetica -forse da sogno- che già le mie “Tracce di Calabria” avevano reso pubblica, facendola emergere da spazi tipicamente personali. E così ne è uscita una Calabria che -me lo ha confidato lo stesso Rolly- ha destato non poche curiosità nella “sua” Cortina: quella di una Reggio Calabria da cui si gode di un impareggiabile panorama sull’Etna fumante ed innevato; quella di una montagna sconosciuta -l’Aspromonte- dal nome non certo rassicurante, che sarebbe passata drammaticamente alla storia del nostro Paese per una lunga serie di sequestri, vittime nella maggior parte dei casi giovani ragazzi settentrionali, strappati all’affetto delle famiglie e costretti a vivere come animali per lunghi mesi tra quelle gole inaccessibili: la vicenda di Cesare Casella e di sua “madre coraggio” Angela, è la sintesi di questo capitolo vergognoso, fortunatamente debellato. Quella della Sila -la Hyle degli antichi greci, la Silva dei romanitalmente splendida da raccogliere i giudizi di una infinita generazione di intellettuali, da Strabone, Virgilio, Plinio, Diodoro Siculo, Dionigi D’Alicarnasso, fino a Gabriele Barrio, Richard Keppel Craven, Astolphe De Custine, Duret de Tavel, Norman Douglas, Francois Lenormant, Henry Swinburne, John Arthur Strutt, Edgard Lear, Guido Piovene, Giuseppe Isnardi. “Dolomiti a parte, la Sila assomiglia davvero al Cadore: e lasciatelo dire ad un veneto che alla conca ampezzana ha legato i ricordi più meravigliosi della sua giovinezza”, come ama ricordare lo scrittore e giornalista veneto Gastone Geron. Siamo abituati a considerare la Calabria soprattutto dalla prospettiva marina, ma che le cose non siano affatto così te ne accorgi proprio percorrendo la sua parte più centrale, quell’altipiano che deve aver così tanto incantato Guido Piovene -un altro illustre veneto!- da spingerlo ad affermare che “la Sila è un paradosso paesaggistico che ci riporta a certe composizioni surreali che ottengono il loro fascino accostando tra loro oggetti eterogenei e disambientati. Sembra di essere caduti in un angolo della Scandinavia, con i pini silani più alti e snelli degli abeti”. E poi, tutti quei toponimi affascinanti e misteriosi che parlano di briganti, fate, fattucchiere e magre, lupi ed apparizioni fantastiche che rimandano immediatamente agli “elfi” di Dino Buzzati -proprio il “Maestro” di Rolly Marchi”- o ai “monachicchi” di Carlo Levi del suo “Cristo si è fermato ad Eboli”. Poi, forse non contento ancora di quanto avessi già riferito della penisola calabrese, ecco una seconda richiesta, questa volta dedicata alla “Calabria verde”: un articolo prossimo ad uscire sul numero di giugno con la Calabria dei 450 mila ettari di bosco che ne fanno una delle prime quattro regioni boscate d’Italia, con quei suoi grandi e curiosi alberi. E non potevo non citare i miei “maestri”: “sul Pollino vivono i più vecchi, possenti alberi d’Europa -uno di essi ha 1000 anni di vita- appartenenti ad una specie -il Pino Loricato- che è considerata un vero e proprio relitto botanico della preistoria. In Sila Grande e sull’Aspromonte, invece, svettano dritti i portentosi obelischi dei Pini Larici, altra conifera endemica di Calabria, questa volta di origine occidentale che a Fallistro, a Gallopane e sul crinale di Pietra di Mazzulisà annovera alcuni tra gli alberi più grandi d’Europa, sino a due metri di diametro e 40 metri d’altezza(…)”. Non smetterò mai di ringraziare il buon Francesco Bevilacqua per aver contribuito a consolidare la passione per la montagna… Già, il “nostro” Pino Loricato: quello vigliaccamente incendiato alla Grande Porta del Pollino, divenuto simbolo del Parco, come quelli che trovano la loro massima sublimazione in quel luogo che il più profondo conoscitore del Pollino come Giorgio Braschi, ha poeticamente definito come “Il Giardino degli Dei”. Questo e molto altro ancora ho scritto su una “rivista dolomitica”, il cui direttore -ma amo definirlo “papà”- ha aperto le porte alle montagne di Calabria, inaugurando un gemellaggio che avrà la sua consacrazione il prossimo 5 luglio, quando Rolly sarà mio ospite nella seconda edizione della Rassegna Culturale “Praia, a mare con…”. Parleremo di poesia e montagne, di Buzzati e Piovene, di Dolomiti e Cortina: e -naturalmente- di Calabria, “cuore verde” del Mediterraneo!
Apollinea- Anno XII n. 3 Maggio-Giugno 2008
Egidio Lorito www.egidioloritocommunications.com
Referenze Fotografiche:
1) Veduta aerea del lago Arvo: Foto Francesco Bevilacqua;
2) Pino Loricato: Foto Francesco Di Benedetto.