Non è difficile individuare il luogo sulla carta geografica: basta una semplice triangolazione che ferma i propri vertici tra Capo Palinuro ad ovest, i monti del Pollino ad est, e quel Passo dello Scalone che chiude a sud il gruppo dell’Orsomarso per aprire -a sua volta- la strada alla Catena Costiera. Questo è il luogo dove Campania, Basilicata -o forse, sarebbe più corretto dire Lucania, come piaceva agli antichi- e Calabria giocano ad inseguirsi: perché la Calabria inizia dove finisce la Basilicata, poco più a sud di questo luogo in cui i confini della Campania danno il via a quelli lucani, a loro volta seguiti da quelli calabresi. Il luogo è tutto all’interno di quel Golfo di Policastro, gioiello naturalistico-ambientale che vede precipitare dentro di sé le coste, ora sabbiose ora rocciose, di ben tre Regioni.

“Dopo Sapri, fino all’estremità della Calabria” -scriveva Alberto Moravia- “ la strada non lascia più il mare, e questo tratto è certamente il più bello, di una bellezza mitica e primordiale(…)”: questo è il luogo del nostro appuntamento con la natura, rimasta sostanzialmente intatta; un luogo dove è possibile ancora ascoltare le cicale nei loro concerti estivi, bagnarsi in un mare ancora sostanzialmente pulito ed animato da fondali che nulla hanno da invidiare a quelli che fanno la loro comparsa su accattivanti pubblicità esotiche. Un luogo dove far correre lo sguardo sopra monti che sfondano il tetto dei duemila metri -un tetto innevato per molti mesi all’anno, chiaramente-. Un luogo, insomma, che si candida come uno degli ultimi paradisi di quella che gli addetti ai lavori definiscono “wilderness”: certo, l’arroganza e la tracotanza umana non mancano, indirizzate verso qualche cementificazione selvaggia, ma -si sa- il cemento rende in soldoni e la tutela del territorio potrebbe correre seri rischi di conservazione, con buona pace per il suo delicato equilibrio. E se la linea di costa si presenta ancora sostanzialmente intatta, il merito è sicuramente delle sue stesse caratteristiche orografiche che hanno mantenuto alla larga speculatori che altrove -con coste basse e sabbiose- hanno invece avuto la meglio. Se dal punto di vista amministrativo la costa tirrenica calabrese inizia dai naturali confini con la Basilicata, in realtà quello che un autorevole ambientalista come Francesco Bevilacqua ha definito come “il mare del Mito” ha inizio in quel favoloso luogo che tutti noi conosciamo come Capo Palinuro: da qui, seguendo la linea di costa, ci imbattiamo realmente in un accattivante rincorrersi della natura, in un gioco senza tempo tra mare e monti, una sorta di “luogo-nonluogo”, come poeticamente e romanticamente mi piace definire l’area. “Resta ancora annidato, in luoghi isolati e ritrosi, il fascino di un tempo… come negli isolotti e nei promontori della costa tirrenica in cui la stupenda macchia mediterranea si inebria degli aromi del mirto, del rosmarino, del lentisco, dell’elicriso e del cisto marino, in una sinfonia di aromi distillati dal libeccio e dai raggi del sole riflessi dalle rocce roventi”. Fulco Pratesi aveva, evidentemente, fermato l’immagine di questo spaccato -questa volta vero e realedell’imponente arco di costa che da Capo Palinuro segna il breve tratto campano, quello brevissimo lucano e quello altrettanto fugace dell’alto Tirreno cosentino, che poi, -doppiato Capo Scalea- prosegue per un’altra ventina di chilometri sino a Belvedere Marittimo, esattamente ai piedi dell’estrema propaggine occidentale del Pollino. Linea costiera -questache alterna ampi tratti a strapiombo sul mare -per esempio tra Palinuro e Scario, nel salernitano, e tra Sapri e Castrocucco di Maratea, e tra San Nicola Arcella e Scalea nel cosentino- ad altrettanti ampi tratti di spiaggia sabbiosa, come tra Tortora e San Nicola Arcella o tra Scalea e Belvedere. Una costa che non è mai lasciata sola visto che alle sue spalle la montagna diventa immediatamente protagonista: una montagna che conviene prender sul serio, visto che -quasi per incanto- proprio tra Palinuro e Belvedere, sono ben tre i Parchi nazionali che vi insistono: “(…) Esiste ancora in Italia, al di là della Sardegna, un luogo veramente selvaggio? Certo che esiste. La montagna calabrese. Se ve la sentite di andare (a piedi, per carità) sui monti che si innalzano tra il Pollino e la costa tirrenica -un luogo che, sulla carta, appare come una patata immacolata, priva di strade e paesi, tranne Lungro, ad oriente, e Orsomarso e Verbicaro a occidente -la “wilderness” italica vi apparirà in tutta la sua indomita bellezza. Bellezza calabrese, intendiamoci bene: schiva e rustica (…)”. Come per la costa, anche per questo breve tratto montano che su di essa va ad incidere, Fulco Pratesi ha evidenziato gli aspetti più caratteristici della locale orografia, che si segnala per ambiti ancora intatti, sui quali svettano secolari pini coricati, circondati da aerei pianori in cui la fauna spazia libera ed incontrastata. Il mare, la costa, la collina, la montagna: ecco gli elementi che in perfetto stile si dispongono uno di seguito all’altro, quasi ad offrire al visitatore - speriamo educato, disciplinato e sensibile alla loro tutela- un ampio ventaglio di opportunità paesaggistico-ambientali: qui, il gioco tra mare e monti è veramente un gioco da ragazzi: “ a Belvedere abbandonammo la costa: proseguimmo attraverso delle alte montagne coperte di fitte foreste e solcate da profonde vallate. Questa parte della Calabria è una vasta landa abbandonata agli uccelli predatori, ai lupi e ai cinghiali e attraversata da sentieri coperti da un fogliame che non permette ai raggi del sole di penetrarvi”. Così l’ammirò Duret De Tavel: così ci piacerebbe poterla ancora raccontare.
Anno VIII°, n. 4- Luglio-Agosto 2004
Egidio Lorito, 05-07-2004

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