L’estate appena trascorsa, tra gli immancabili incendi, anche se in diminuzione rispetto agli anni passati, e le consuete diatribe tra i fruitori dell’ambiente calabro, ha evidenziato le ennesime crepe che da anni, anche dalle pagine della nostra rivista, andiamo denunciando circa la poca incisiva tutela e valorizzazione che si attua nella penisola calabrese. Eppure le aree protette presenti nella nostra Regione colpiscono non certo per la loro oscurità o per la loro ridotta visibilità, quanto per l’imponente luminosità, tipica di una regione mediterranea: proprio la luminosità infatti -intesa come connotato geo-fisico- è uno degli elementi che più colpiscono chi si avvicini per la prima volta all’ambiente della Calabria, regione mediterranea per eccellenza, ma caratterizzata da tratti che ne completano un quadro disegnato a tinte complesse.
C’è, infatti, chi ha visto in essa aspetti del Marocco, come quelli tipici delle distese immacolate di boschi e foreste del Canada;chi ha scorto elementi da isole greche e chi i colori ed i sapori del miglior paesaggio alpino. “Dolomiti a parte, la Sila assomiglia davvero al Cadore: e lasciatelo dire ad un veneto che alla conca ampezzana ha legato i ricordi più meravigliosi delle sua giovinezza”: così, Gastone Geron ricordava il suo incontro con la grande selva calabrese, che nel corso dei secoli avrebbe infiammato gli occhi di intere generazioni di letterati di ogni dove, affascinati dallo straordinario gioco di colori che quella montagna calabrese è in grado di offrire. E lo stesso vale per il mare: dovremmo provare tutti l’esperienza della visione di un tramonto da Capo Vaticano -il luogo sacro di Giuseppe Berto- con l’imponente sagoma di Stromboli a portata di mano, con colori irreali a fare da contorno. Ogni parte della Calabria è uno scrigno di segreti, capace di ammaliare le menti più sopraffini, di ipnotizzare i fotografi più raffinati: insomma un’ondata di colori e di luce che sembrano fatti apposta per regalarle quella luminosità tutta particolare, mediterranea e nordica al tempo stesso. Su questa festa di luce, immancabili si gettano le ombre: non sono quelle dell’autunno imminente, capace anch’esso di regalare fascino e sensualità;sono quelle, ancor più profonde e perniciose, fatte di incuria e dimenticanza, di abbandono e rassegnazione che caratterizzano il binomio tutelavalorizzazione della natura calabra. Mai come in questi ultimi anni, si è levato alto il grido di chi dedica la sua vita, professionale o semplicemente affettiva, alla tutela dell’ambiente: un impegno a 360 gradi, che coinvolge non solo gli enti ufficiali, ma sempre più spesso intere generazioni di giovani, sensibili forse di più alle problematiche dell’eco-sistema Parlavo del binomio tutela-valorizzazione, l’aspetto forse più sentito del problema: oggi ci troviamo innanzi ad un’opinione pubblica che se da un lato è disposta anche a delle rinunce pur di migliorare la qualità dell’ambiente in cui vive, dall’altro -e giustamente- appare sempre più interessata al versante della valorizzazione, inteso come sviluppo eco-sostenibile, come produzione e sponsorizzazione di prodotti tipici, insomma come azione incisiva in termini di risposte lavorative. Insomma: pochi sono disposti a continuare a considerare l’ambiente “sotto vuoto”, pochi accetteranno di considerare un Parco nazionale, solo come un insieme di divieti, di vincoli, di obblighi, distinto e separato dalla realtà sociale ed economica. Si vuole un Parco che produca. Si auspica una nuova politica ambientale, proiettata verso i canoni approvati dalla recenti Conferenze mondiali sull’ambiente;così come si anela ad un cambiamento generazionale, capace di far occupare i posti-cardine nella tutela dell’ambiente non più a politici tutto-fare, abili solo nel ricercare ricche prebende, ma a tecnici della materia, profondi conoscitori della disciplina e del territorio di loro pertinenza. Forse l’esempio più evidente degli errori italiani in tema di politica ambientale, sono state le Comunità Montane, o meglio il loro disarmante funzionamento: nate come comunità intermedie, dirette alla tutela ed alla valorizzazione delle realtà montane -popolazioni ed habitat al tempo stesso- si sono trasformate in strumenti politici, dirette alla spartizione di posti di sotto governo, con l’unico scopo di servire alla classica spartizione di poltrone, con buona pace delle montagne, della loro tutela, e delle attive popolazioni che si sono lentamente viste privare di uno strumento che la legge istitutiva dei primi anni ’70 aveva disegnato in maniera pionieristica. Non sono pochi gli esempi di enti montani commissariati, incapaci di esprimere qualunque valenza politica diretta ad incidere fattivamente sul territorio: se a ciò aggiungiamo la regola che la loro composizione risulta praticamente affidata alla realtà politica temporaneamente vigente su un territorio -realtà ballerina, capace di durare il tempo di un cambio di casacca- senza alcuna presa in esame delle reali competenze tecniche, giuridiche e scientifiche, allora lo scempio è bello e compiuto. L’irrazionale governo del territorio, la dilagante amoralità, il persistente malaffare hanno causato -e continuano a causare- danni molto più gravi di un’inondazione o di un periodo di siccità: la mancanza di una vera e propria “etica ecologica”, capace di far da guida per ogni retto ed oculato amministratore dell’ambiente, ha poi contribuito in maniera complessiva all’esplosione del fenomeno, che oggi raggiunge dimensioni allarmanti. La Calabria, con i suoi mali storici, e con un ambiente caratterizzato da un delicato equilibrio, è l’area italiana dove, forse, il problema raggiunge il picco più elevato, stretta com’è tra la drammatica necessità del quotidiano -criminalità, disoccupazione, crisi politiche, emigrazione di cervelli- e l’ingombrante fardello di un passato ricco e nobile, al cui cospetto il presente è quasi un incubo. Da più tempo, sulle pagine della nostra rivista, ho inteso iniziare un percorso diretto all’analisi della problematica oggi affrontata: perché i nostri amministratori rimangono spesso insensibili al problema ambientale? Perché la stessa popolazione reagisce poco agli stimolo provenienti da parte della società civile? Perché la politica ha occupato anche la tutela e la valorizzazione ambientale, senza una seria e fattiva proposta? Perché dobbiamo delegare tutto ciò all’insensibilità di persone povere culturalmente, occupate solo a far crescere il proprio peso -quale poi- politico? L’etica ecologica, credo sia la nuova sensibilità verso cui dirigere la nostra cultura e la nostra società, se non si vuole correre il rischio di trasformare l’immenso patrimonio ambientale in un terreno di scontro dove la piccola politica, quella delle prebende, dei posticini e dei “piatti di lenticchie”, ci fagociti miserevolmente, bruciando non solo il Pino Loricato del Pollino, ma anche le nostre stesse coscienze.
Apollinea, Settembre- Ottobre 2002
Egidio Lorito, 16-09-2002