Sommario: 1. Giustizia e istituzioni pubbliche in John Rawls - 2. La corrente utilitaristico-libertaria di Robert Nozick - 3. Rawls ed i connotati centrali del liberalismo - 4. Le riflessioni sul piano della struttura istituzional-costituzionale della società - 5. La nozione di società ben ordinata - 6. Conclusioni
Le ricerche che John Rawls ha effettuato nel lungo arco di tempo che comprende le sue opere maggiori, da “A Theory of Justice” a “Political Liberalism”, sino a “Justice as fairness: a restatement” vengono a posizionarsi nell’articolato dibattito filosofico-giuridico che caratterizza i fondamenti dello stesso pensiero politico occidentale, al punto che non può esserne taciuta l’importanza sulla stessa struttura costituzionale delle istituzioni pubbliche. Prima di addentrarci in una valutazione complessiva che riguardi l’eredità di Rawls, è opportuno anche riassumere il ruolo che il filosofo di Baltimora (1922- 2002) ha avuto nel ripensamento della struttura fondamentale della società: per quest’ultima, “nel lessico rawlsiano, bisogna intendere l’insieme delle istituzioni pubbliche principali, considerate unitariamente come parti di un unico schema di cooperazione sociale” Il pensiero politico di Rawls si costruisce attorno all’idea che lo studio della società sia incentrato sulla concezione della “giustizia come equità”: non a caso proprio Rawls, a proposito della struttura base della società, parlava di “first subject of justice”, identificando nella sua parola magica il senso stesso di una società. La stessa analisi condotta da Rawls non può non sfuggire per la sua estrema chiarezza: “atteso che per istituzione deve intendersi un sistema pubblico di regole che «definisce cariche e posizioni, con i loro rispettivi diritti e doveri, poteri, immunità e via dicendo», ne deriva che i principi di giustizia devono essere applicati innanzitutto al modo in cui le istituzioni distribuiscono i diritti e i doveri fondamentali e determinano la divisione dei vantaggi che derivano dalla cooperazione sociale”. In questo senso, Rawls ha operato una precisa scelta di campo, dal momento che ha chiarito come soltanto partendo dalle basi della società sarà possibile garantire, “appunto attraverso un determinato assetto delle istituzioni sociali principali, quella “background justice” la cui realizzazione -invece- non risulterebbe praticabile al livello dell’azione dei singoli consociati”. Dunque, Rawls guarda alla società nel suo complesso, alla “basic structure” della stessa e non all’attività dei cittadini singoli che – invece - il nostro filosofo vuole lasciare liberi di raggiungere gli obiettivi personali, gli scopi della propria vita, pur nel rispetto dei limiti dell’originaria struttura di base, appunto.
Ed è proprio a questo punto che si disegna la differenza tra la concezione della giustizia e delle istituzioni pubbliche in John Rawls rispetto a quella evidenziata dalla corrente utilitaristico-libertaria che, storicamente, si rifaceva a Robert Nozick. Possiamo infatti, sinteticamente, sottolineare che “mentre il limite della concezione di Nozick e dei libertari in genere - nell’analisi di Rawls - consisterebbe nel fatto che, elaborando un modello in cui lo Stato è assimilato ad una mera associazione privata, non presentano alcun modello speciale di giustizia applicabile alla struttura fondamentale della società, l’utilitarismo -invece- difetterebbe per eccessiva genericità, in quanto la sua dottrina etica si applica indiscriminatamente sia alla basic structure della società che alle azioni dei singoli consociati”. Ecco la cesura netta che distingue le posizioni di questi due filosofi contemporanei, distinti e distanti per il loro credo nel ruolo dello Stato: “il lavoro che lo impose all’attenzione, “Anarchia, Stato e Utopia” uscì nel 1974, gli fruttò il National Book Award e dopo poco tempo divenne la “bibbia” del pensiero liberal-individualista: gettò le basi per la teoria dello Stato minimo e fornì il sofisticato supporto teorico per l’attacco politico all’intervento pubblico nella società e nell’economia che ha caratterizzato la seconda metà degli anni ’70 e quasi tutto il decennio ‘80”. Intervistato agli inizi degli anni ’90, Robert Nozick, autorevole Professore di Filosofia ad Harvard, sembrò quasi correggere il suo antico e famoso credo dottrinale: “la posizione libertaria che avevo un tempo propugnato mi sembra seriamente inadeguata. La questione di fondo è che le istituzioni democratiche e le libertà che ad esse sono collegate non sono semplicemente dei mezzi per controllare i poteri del governo e indirizzarli verso le questioni che più ci riguardano, ma esprimono e simbolizzano la nostra eguale dignità umana, la nostra autonomia e i nostri poteri di autodeterminazione”. In quest’affermazione si coglie tutta l’analisi socio-politica che l’allora cinquantenne filosofo stava esplicando, consapevole di come fosse quasi giunto il momento di cambiare linea espositiva anche nel rapporto tra cittadini ed istituzioni: “noi votiamo, in parte, come affermazione simbolica del nostro stato di esseri autonomi e autogovernantesi, anche se sappiamo benissimo che esiste una minuscola probabilità che la nostra scelta concreta abbia qualche effetto decisivo; nello stesso tempo esistono delle cose che scegliamo di fare insieme, attraverso il Governo, in segno solenne della nostra solidarietà umana. Insomma, l’espressione della propria libertà non si può compiere in beata solitudine o contro lo Stato, ma in un rapporto dialettico con esso”. Se, all’epoca dell’uscita del suo celebre lavoro, Nozick sottolineava la distanza tra Stato e individuo, vent’anni dopo questo filosofo di Harvard avrebbe rivisto nettamente la sua posizione, riflettendo sull’agire umano e sulle lezioni della storia. Ed in questo lavoro di rivisitazione addirittura “quattro ideali del nostro tempo, alla prova dei fatti, si sono tramutati nel loro opposto: quello “capitalista”, secondo il quale perseguendo il proprio interesse si raggiunge il benessere generale; quello “comunista” di una società di uguali; quello “cristiano” di una comunità fondata sull’amore del prossimo e sul condividere una comune fede, che realizza la discesa di Dio in terra; infine, quello “nazionalista” dell’attaccamento alle tradizioni e al proprio Paese come difesa dell’identità collettiva”. Potrà sembrare assurdo ma, proprio vent’anni dopo, Robert Nozick è costretto ad evidenziare come alcuni dei baluardi del nostro tempo si siano trasformati in una sorta di “opposti”: “è la nostra natura umana che ci rende incapaci di realizzarli? Sono sbagliati in sè o è il modo in cui essi operano in questo mondo, su questo pianeta?”. Proprio quell’inaspettato cambio di rotta ed i successivi interrogativi posti sono ampiamente esplicativi della corposa evoluzione che la filosofia politica americana ha iniziato a compiere nell’ultimo decennio del XX secolo. Infatti, la felice conclusione della “Guerra Fredda” ed il crollo del regime comunista sembravano aver aperto la strada alla teoria liberal-democratica, apparsa -a quel punto- la vera vincitrice dello scontro ideologico. Invece, come accaduto già con Nozick, proprio gli esponenti più autorevoli e prestigiosi del pensiero liberale hanno iniziato a chiedersi cosa esso fosse realmente, quasi a ritornare sui propri passi. Il cambio di secolo ha fatto si che “giustizia ed equità si accompagnano a libertà e mercato e formano un gioco di coppie indissolubile”.
In quell’analisi di inizio anni Novanta, cioè alla vigilia del fondamentale “Political Liberalism”, sempre da Harvard, John Rawls - a proposito della rilettura di classici quali Locke e Rousseau, John Stuart Mill e Marx - sosteneva con forza che “noi proviamo a identificare i connotati centrali del liberalismo come una concezione politica della giustizia, quando il liberalismo è visto dall’interno della tradizione del costituzionalismo democratico: una sponda è la concezione del contratto sociale rappresentata da Locke e Rousseau, l’altra è l’utilitarismo rappresentato da Mill, mentre la sponda socialista è rappresentata da Marx che studiamo essenzialmente come critico del liberalismo”. In effetti, all’epoca di queste riflessioni, la data-simbolo della ricerca rawlsiana era ancora ferma al 1971, ovvero alla sua “A Theory of Justice”: il pensiero filosofico-politico avrebbe dovuto attendere ancora un anno (1993) per la pubblicazione di “Political Liberalism” e ben nove per il riequilibrio operato con “Justice as Fairness. A Restatement” (2001). In pratica, il ventennio che separa “A Theory” da “Political Liberalism” è stato caratterizzato da due intense analisi: la prima, che arriva sino al 1980, “costruisce una più stretta relazione con le basi kantiane della filosofia morale. La sua impostazione del patto sul quale si fonda una società giusta, si spinge oltre la dimensione utilitaristica per approdare a quello che alcuni interpreti hanno chiamato il «kantismo in un solo Paese». Dal 1985, invece, Rawls sviluppa un altro aspetto ed arriva a sostenere che la sua teoria della giustizia si può meglio comprendere come dottrina politica piuttosto che soltanto come disciplina morale”. Insomma, questo nuovo approccio avrebbe condotto Rawls direttamente nel cuore di “Political Liberalism”, ovvero a chiarire che “la teoria contrattualistica della giustizia come equità è (fosse, nda) una concezione propriamente politica”. Ecco il cambio di rotta cui abbiamo fatto ampio cenno nelle pagine precedenti, ovvero il passaggio da un liberalismo basato soltanto su un principio etico a quello che si sarebbe poggiato su principi generali della sociologia e della psicologia umana. Questa nuova impostazione avrebbe avuto i suoi effetti anche sul problema della società in cui far applicare e sviluppare queste nuove analisi: ma il passo, per quanto apparentemente breve, non poteva essere del tutto indolore, “se prendiamo atto della reale complessità che caratterizza le società post-industriali contemporanee: risulterà evidente come le istituzioni effettivamente esistenti finiscano con il rappresentare un contesto di analisi poco adeguato”.
Sul piano puramente istituzionale e della struttura costituzionale, l’apporto di John Rawls è stato del tutto originale, teso proprio a superare le difficoltà derivanti dalla complessità delle predette società: addirittura arriva ad elaborare un modello artificiale di istituzione che gli serve come modello teorico per verificare l’applicazione dei due fondamentali principi di giustizia precedentemente scelti nell’ “original position”. Su questa singolare costituzione teorica è stato finemente osservato che la “basic structure” “(…) è un esperimento mentale: ma esperimento mentale e modello (…) non vanno confusi. Mediante l’esperimento mentale della <<original position», Rawls costruisce un modello di cui poi fa la teoria”. E’ Rawls stesso che definisce l’istituzione pubblica come “A public system of rules wich defines offices and positions”, ovvero -come già evidenziato- “un sistema pubblico di regole che definisce cariche e posizioni”: quindi, non una figura astratta, ma -al contrario- un qualcosa che si realizza grazie ai comportamenti previsti da quelle regole che determinate persone seguono in tempi e luoghi ben specificati. Ecco, in sintesi, cos’è un’istituzione pubblica secondo Rawls: “un’istituzione pubblica può essere intesa in due modi: in primo luogo come un oggetto astratto, cioè come una forma possibile di condotta espressa da un sistema di regole; e, in secondo luogo, come la realizzazione delle azioni specificate da quelle regole, nel pensiero e nella condotta di determinate persone in un certo tempo e luogo”. Rawls evidenzia un problema metodologico e sembra propendere per il versante fenomenico a proposito della sua riflessione sulle istituzioni pubbliche: “esiste, quindi, un’ambiguità riguardo al fatto se sia l’istituzione come oggetto astratto o come realizzazione concreta ad essere giusta e ingiusta. Sembra meglio affermare che ciò che è giusto o ingiusto è piuttosto l’istituzione realizzata ed effettivamente imparzialmente amministrata. L’istituzione come oggetto astratto è giusta o ingiusta solo nel senso in cui qualsiasi sua realizzazione potrebbe esserlo”. Un modello artificiale, un ideal-typus: sembrerebbe proprio ciò quello che Rawls abbia voluto considerare riferendosi al suo modello delle istituzioni pubbliche, anzi -per essere più chiari- si può sottolineare come “l’esistenza di un’istituzione in un certo tempo e luogo è data dal fatto che le azioni che essa definisce vengono normalmente compiute sulla base di una comprensione pubblica del fatto che il sistema di regole che definisce l’istituzione deve essere seguito. In questo senso, le istituzioni parlamentari sono definite da un certo sistema di regole: queste regole enumerano determinati tipi di azione che vanno dal tenere una seduta parlamentare al votare su un progetto di legge, al proporre un ordine del giorno”. Questo è il tipo-ideale di istituzione pubblica presentato da Rawls, tipo corroborato dalla constatazione secondo la quale “quando affermo che un’istituzione, e quindi la struttura di base della società, è un sistema pubblico di regole, intendo dire che chiunque è impegnato in essa sa ciò che saprebbe se queste regole e la sua partecipazione all’attività che esse definiscono fossero il risultato di un accordo. Chi fa parte di un’istituzione sa ciò che le regole richiedono a lui e agli altri (…)”.
Pur sintetizzando, Rawls introduce - a proposito della sua corposa riflessione sulla “struttura costituzionale delle istituzioni pubbliche”- una mozione destinata a chiarire molte delle sue riflessioni in materia: la c.d. “Well Ordered Society”, ovvero la “società benordinata”, cioè quella in cui è possibile soddisfare l’esigenza dei consociati all’obbedienza al sistema. In questo modo, si ha una sorta di chiusura del sistema perché Rawls stesso afferma che l’obbedienza al sistema “dipende chiaramente dalla giustizia sostanziale delle istituzioni e dalle possibilità di una loro accettazione”. A questo punto non resta che evidenziare un aspetto “necessario per completare il complicato puzzle della struttura fondamentale della società bene-ordinata, ovvero quello dell’accettazione delle norme da parte dei consociati: “se un sistema giuridico è «un ordinamento coercitivo di norme pubbliche rivolte a persone razionali allo scopo di regolare la loro condotta e di fornire la struttura della cooperazione sociale», allora, queste norme devono poter stabilire anche «(…) una base per le aspettative legittime»”. Insomma, queste norme devono anche essere considerate “giuste”, cosa che rende la condizione precedentemente affiorata come problematica a verificarsi. Per Rawls, giustezza delle norme significa anche aspettative legittime: “è la giustizia delle norme che rende possibile la reciproca fiducia delle persone, una fiducia che, in questo modo, finisce col costruire la condizione dell’effettività dell’ordinamento stesso”. La giustezza delle norme (o giustizia…) per Rawls “costituisce il fondamento su cui poggia la reciproca fiducia delle persone e in base a cui possono avanzare giuste obiezioni quando le loro aspettative non vengono soddisfatte”.
Possiamo iniziare a tirare le somme del ragionamento sinteticamente condotto in queste pagine: Rawls ha evidenziato che l’ordinamento giuridico rappresenti l’effettività dei comportamenti dei consociati, quando ha descritto il framework della società bene ordinata, secondo il quale nel valutare le istituzioni pubbliche “sembra meglio affermare che ciò che è giusto o ingiusto è piuttosto l’istituzione realizzata ed effettivamente e imparzialmente amministrata: l’istituzione come oggetto astratto è giusta o ingiusta solo nel senso in cui qualsiasi sua realizzazione potrebbe esserlo”. Inoltre, come abbiamo visto, Rawls ha specificato la stessa condizione di effettività, intesa come “la fiducia dei consociati nel fatto che anche tutti gli altri si conformeranno ai modelli comportamentali imposti dalle norme”. Questo atteggiamento fiduciario si realizzerà solo nel momento in cui le norme giuridiche verranno considerate “giuste”, ed allora ne deriveranno due conseguenze alternative: • “che non essendo riscontrata la giustizia sostanziale nell’assetto fondamentale delle istituzioni sociali contemporanee, queste sono da considerarsi ineffettive; • che, attesa l’effettività delle istituzioni sociali contemporanee, bisogna concludere che le stesse, in linea di massima, soddisfino i principi di giustizia sostantivi”.
Con l’ulteriore conseguenza che la prima conclusione sarà viziata al suo interno, ponendosi in contraddizione proprio con il principio di effettività; mentre la seconda conclusione aprirà scenari interpretativi molto complessi, la cui trattazione andrebbe ben oltre l’oggetto di queste riflessioni generali.
NOTE
V. Iorio, Istituzioni Pubbliche e Consenso in John Rawls, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1995, p.61.
J. Rawls, The Basic Structure as Subject, in AA.VV., Values and Morals, Essays in Honor of W. Frankena, C. Stevenson and R. Brandt, 1978.
J. Rawls, Una teoria della giustizia (1971), trad. it., Feltrinelli, Milano 1982, p.70.
J. Rawls, Op. cit., p.24.
V. Iorio, Op. cit., p.62.
Ibidem
S. Cingolani, Liberal: ma che cos’è questa crisi? in “Corriere della Sera”, 6 Aprile 1992, p.18.
R. NOZICK, , in S. Cingolani Op. cit.
R. Nozick, in S. Cingolani Op. cit.
S. Cingolani, Op. cit.
R. Nozick, in S. Cingolani Op. cit.
S. Cingolani, Op. cit.
J. Rawls , Op. cit.
S. Cingolani, Op. cit.
S. Veca (a cura di), John Rawls, Liberalismo Politico, Edizioni di Comunità, Milano 1994, p. IX.
V. Iorio, Op. cit., p.63.
Sul punto, M. Introvigne, I Due Principi di Giustizia nella Teoria di Rawls, Giuffrè, Milano 1983, pp.229-233.
M. Introvigne, Op. cit., p.230.
J. Rawls, Op. cit., p.70.
J. Rawls, Op. cit., p.71.
Ibidem
Ibidem
Ibidem
Sul punto Rawls rinvia alla teorizzazione dell’obbedienza al sistema di Ch. Perelman, La Giustizia (1943), trad. it., Einaudi, Torino 1959.