Se siamo consapevoli del fatto che la comunicazione rappresenti, oggi, il campo su cui si giocherà una partita fondamentale per le sorti della libertà complessivamente data, dobbiamo parallelamente essere consapevoli di come “qualsiasi progresso della libertà e della responsabilità in questo campo strategico non sarebbe attualmente immaginabile prescindendo da un’opzione preliminare, che porta all’affermazione di un postulato: quello che l’informazione e la comunicazione non sono assimilabili -in virtù della loro stessa natura intrinseca di beni sociali- ad una merce qualsiasi, né ad una funzione meramente privata, ma piuttosto ad un pubblico mandato, ad un <<offentliche Aufgaube>>”.(1

Solo prendendo per buona -ed accettando- questa teoria, che si fa comunemente risalire alla dottrina tedesca, ci si rende perfettamente conto di come l’informazione non possa essere equiparata ad una merce di scambio, quasi la si vendesse ad acquirenti privati: si può al limite sostenere che l’informazione possa influenzare i valori di democrazia e civiltà comunemente accettati dalle società contemporanee. Questo è, in fin dei conti, il postulato che si cerca di far accettare alla comunità degli attori del mondo dell’informazione, per stabilire -soprattutto- delle regole che limitino un mercato in piena evoluzione, dominato sempre più da gruppi di potere economico, dagli indici di ascolto o dalle opinioni dei politici. Non sarebbe errato accettare il suggerimento che nel 1995 Karl Popper espresse, circa l’istituzione di una sorta di “patente” per tutti i soggetti interessati all’esercizio di professioni mediatiche, quasi una riformulazione del “Giuramento di Ippocrate” adattato alle esigenze degli attori del mondo della comunicazione: una sorta di “summa deontologica” per quanti fossero impegnati nel difficile mestiere dell’informazione. (2
In questo modo, anche il giornalista sarebbe obbligato alla ricerca della verità, al rispetto della dignità umana, al mantenimento equidistante tra gli interessi politici ed economici: a coltivare, insomma, la sua professione rispettando regole etiche e giuridiche oggi indispensabili.
E proprio all’inevitabilità di una seria regolamentazione venne dedicata una tavola rotonda svoltasi nel gennaio del 1996, all’indomani di quel celebre “giuramento”, che raccolse l’idea popperiana e la ribaltò nel vasto ed articolato panorama italiano: in quell’occasione si affermò che “la complessità dei mezzi di comunicazione, la rapida e continua evoluzione delle loro caratteristiche, impongono l’adozione di strumenti flessibili, dotati di autonomia decisionale (…)”. (3
Insomma, anche in Italia sembrava essere giunto il momento di prendere sul serio il consiglio del filosofo della “società aperta”, allo scopo di arginare i potenziali pericoli di un’informazione selvaggia che rispondeva solo a regole di “cassa” e non ai principi costituzionali di tutela della persona in tutte le sue dimensioni. L’Europa dei giornalisti aveva già conosciuto, tra il 1954 ed il 1971, dichiarazioni di diritti e doveri dei giornalista (Bordeaux e Monaco di Baviera), mentre i colleghi italiani potevano vantare la “Carta di Treviso” del 1990 e la “Carta dei Doveri” del 1994, approvata dall’Ordine Nazionale dei Giornalisti e dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana: sino al Codice Deontologico del 1998, che tra l’altro ha fissato principi i materia di privacy, interesse pubblico, violenza delle immagini, consenso dell’interessato, diritto alla non discriminazione, tutela delle persone malate, tutela della sfera sessuale. In questo modo, ne discendeva che il diritto-dovere di pubblicare è ammesso “nell’ambito del perseguimento dell’essenzialità dell’informazione e sempre nel rispetto della dignità della persona, se questa riveste una posizione di particolare rilevanza sociale pubblica”. (4 
Compresa in questa evolutiva linea di sviluppo, “La Carta di Treviso (1990) ha costituito una testimonianza eloquente di una nuova fase della sensibilità deontologica dei comunicatori: si è passati dalla preoccupazione di autoregolare i propri ambiti di libertà professionale, alla premura di salvaguardare anche gli interessi dei membri più deboli ed inermi della cittadinanza dinanzi alla strapotenza dei media”. (5  
A questo punto, le regole non mancano proprio: il rischio è che continuino a rimanere lettera morta! Da qui l’esigenza di attuare realmente dei codici etici che siano in grado di operare su scala nazionale ed internazionale con la stessa cogenza sostanziale, in modo da servire universalmente come strumento giuridico nelle mani di utenti sempre più indifesi: il caso di Internet è più che mai emblematico, con milioni di “utenti lasciati a navigare senza alcuna difesa e senza bussola  nell’oceano dell’infocomunicazione globalizzata, che non sono meno abbandonati dei giornalisti ormai privi di reale difesa nell’impegno per un giornalismo di quantità, quello che finisce ineluttabilmente penalizzato sotto la magnitudine delle coalizioni degli interessi di settore e di mercato”. (6 
Certo, se è innegabile che la pressione del sistema economico abbia raggiunto livelli elevatissimi, è altrettanto vero che proprio nell’attuale momento storico l’etica possa rappresentare l’unica alternativa per recuperare quello spazio alla libertà di informazione e di comunicazione che non può assolutamente mancare. In pratica, “la rottura del rapporto tra informazione e società  -a causa del primato economico- passa inevitabilmente per l’accantonamento delle regole deontologiche basilari, ma questa esplosione manda in frantumi anche i valori di un giornalismo di qualità e ne rende precaria l’affidabilità, allontanandone gli utenti”. (7      
Questo è il grande enigma che il mondo dell’informazione dovrà affrontare e risolvere, stretto com’è tra l’esigenza di un corredo etico tutto da reclamare e la realtà fatta di spietati interessi economici che alleati dell’etica proprio non sono: e tutto ciò, proprio nel momento in cui forte è il passaggio storico sul dibattito etico e sui fondamenti morali della comunicazione. Se in passato, alcune forme di assolutismo innalzavano il livello dell’etica per dare un’assurda giustificazione all’istituto della censura e per controllare la libertà di stampa, oggi -guarda caso- la ricerca di un profilo etico è voluta proprio dai sostenitori della cultura libertaria, ben consapevoli che la stessa etica rappresenti una tra le condizioni di sopravvivenza della liberta di cui stiamo parlando, senza la quale l’autodistruzione e l’implosione sarebbero i fenomeni pronti a verificarsi.
Non deve apparire affatto scontato affermare con forza che, oggi, dopo le estenuanti lotte per far sopravvivere ed imporre una libera informazione, è tempo per la scelta di valori che servano da confini certi e sicuri entro i quali quella libertà possa esprimersi al meglio, all’interno di una società pluralista, con l’aiuto di modelli che operino da continuo motore di norme e leggi: le “regole” non potrebbero diventare normative senza un preliminare consenso sui “valori”. (8

Estratto da: Egidio Lorito, Informazione e libertà. Privacy e tutela della persona
Cues, Salerno, 2001

Note bibliografiche.

  1. G. Zizola, L’informazione tra etica e mercato, in (a cura di S. Privitera, G. Vecchio) “La notizia a confronto con l’etica”, Acireale, 1999, p. 45;
  2. Cfr. K. Popper, Il giuramento di Sir Karl, in Il Sole24ore, 20/01/1996;
  3. Aa.vv. Comunicazione senza regole. Il problema etico nei media vecchi e nuovi (contributi di Corasaniti, Maffettone, Pellicani, Rodotà et alii), I.U.S.O.B, Napoli, 20/01/1996;
  4. OG Informazione, bimestrale del Consiglio Nazionale dell’ordine dei Giornalisti, n. 3/98;
  5.  G. Zizola, op.cit. p. 48;
  6.  G. Zizola, op. cit. p. 49;
  7.  G. Zizola, op. cit. p. 50;
  8.  Cfr. H.Heller, Le condizioni della morale, Roma, 1995, p. 33
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