“(…) La Calabria sarebbe potuta diventare il paese di un turismo nuovo, colto, civile, un luogo di recupero spirituale per tutta la gente estenuata dalle nevrosi, dalle intossicazioni, dagli arrampicamenti, dal consumismo e industrializzazione, che ormai fanno malata più di mezza Europa. Invece i calabresi, appena tirata fuori la testa dalla miseria, si sono messi a distruggere il proprio passato -anche gli alberi, le case, il paesaggio- con un accanimento che l’avidità, l’ignoranza e l’ansia di portarsi al più presto all’altezza di Jesolo e di Busto Arsizio, non bastano da sole a spiegare. Bisogna cercare nell’inconscio (…)”.

E’ mia consuetudine, quando scrivo di Calabria, utilizzare come incipit questo passo che vide la luce una trentina d’anni fa: era il 1977 e Giuseppe Berto dedicava alla “sua” Calabria un lungo ed accorato messaggio, quasi un testamento spirituale ad un anno dalla sua scomparsa; da un ventennio lo scrittore, giornalista, drammaturgo, sceneggiatore e poeta di Mogliano Veneto si era praticamente ritirato a Capo Vaticano, quel superbo angolo di Calabria dove conduceva anche “donchisciottesche battaglie” per salvare quanto di quel promontorio ancora non era stato devastato. Quando un paio d’anni orsono diedi alle stampe le mie “Tracce di Calabria. Lo sguardo indietro, il cuore avanti”, avevo ben chiaro l’obiettivo che quello scritto doveva raggiungere:mostrare la Calabria di oggi attraverso la lente d’ingrandimento del suo aulico passato. D'altronde, gettare “lo sguardo indietro” equivaleva proprio a comparare la Calabria di oggi con quella straordinaria stratificazione di civiltà che da sempre è la penisola calabrese. Quel flash back  non poteva che stupire la mia giovane ed assetata voglia di ricercare le antiche origini di una civiltà che Berto, non a caso, definì “scomparsa”: la modernità calabrese -la Calabria contemporanea, per rimanere al titolo- pare essere, invece, passata come uno spartineve sulle sue antiche vestigia, non lasciando altra traccia di sé se non la volontà di cancellare quanto di meglio i nostri avi -ovvero le più antiche e colte civiltà del mondo- ci avevano lasciato in eredità.
Ed allora ecco il non-turismo che caratterizza buona parte del territorio calabrese;la non-economia che affama le nostre comunità;la non-politica che si è letteralmente impadronita della nostra vita amministrativa. Non parlo dell’ormai abusato termine di “anti-politica”, perché ogni cittadino è di per sé stesso un frammento della vita politica: parlo semplicemente dell’assenza di quella categoria umana che permette ad una collettività di vivere secondo regole certe, evitando abusi ed illegittimità. Ed in questo desolante quadro contemporaneo viene ad inserirsi uno dei casi più emblematici che l’attualità regionale abbia mai fatto registrare, tanto da scuotere -finalmente- l’opinione pubblica come le stesse coscienze collettive, quasi a voler restituire un livello fisiologico al senso civico regionale.  
L’argomento l’ho sfiorato già altre volte nei miei interventi sulla stampa;quel nome l’avevo scritto e pronunciato: mi ero già schierato pubblicamente a difendere l’azione di un Magdi Allam o del giovanissimo Roberto Saviano. Figuriamoci in questo caso, quando in ballo c’è la stessa sopravvivenza dello “Stato di Diritto” in Calabria, “terra metà paradiso, metà inferno” di cui cerco di narrare amorevolmente le vicende quotidiane. Questa volta i cultori della “calabresità” ricevono continui assist che sarebbe grave non raccogliere per qualche riflessione, perché la vicenda umana e professionale di quel coraggioso Magistrato napoletano che va sotto il nome di Luigi De Magistris non può essere taciuta. Non entro nel merito tecnico-giuridico della vicenda perché sarebbe poco professionale discutere di fatti e circostanze oggettive ancora ben lungi dall’essere chiarite e risolte: ma gli interrogativi precipitano a valanga. Si vuole allontanare un Magistrato proprio quando sembrano al capolinea corpose inchieste sulla “presunta” tangentopoli calabrese che vedrebbe avvinghiati nomi eccellenti di parte della classe politico-amministrativa regionale? Si vuole stoppare la ricerca della verità su una serie di ipotesi di reato che avrebbero contribuito a fare della Calabria una delle ultime regioni d’Europa? Si vogliono colpire gli inquirenti invece di difenderli dalla ‘nadrangheta? Oppure si vuole, molto più semplicemente, allontanare quel giudice da indagini su nomi di primo piano dello stesso Governo del Paese? Complessa e diabolica, questa vicenda, da rimanere senza fiato! “Cosa sarebbe mai successo in Italia se Silvio Berlusconi, da indagato, avesse chiesto il trasferimento del magistrato che svolgeva indagini sul suo conto: la sinistra sarebbe arrivata con i carri armati sotto Palazzo Chigi”. Guzzanti? Baget Bozzo? Castelli? Bondi? No. Marco Travaglio, intervistato qualche tempo fa -dalla stampa calabrese- sulla paradossale vicenda. Non spetta a me fare pronostici sul finale di questa brutta vicenda calabro-italica: poco mi interessa, poi, dell’evidente imbarazzo di parte del centro-sinistra regionale o del preoccupante silenzio di frange del centro-destra calabrese. Quello che mi preme sottolineare, almeno questa volta, è la forte sollevazione di piazza che si è registrata sin da quando questa vicenda è venuta a conoscenza dell’opinione pubblica: certo, non saranno le migliaia di firme raccolte a sostegno di De Magistris o la solidarietà mostrata dalla gente di Calabria a far imprimere alla vicenda la svolta auspicabile. Ma almeno una “certa” Calabria ha dimostrato di essere viva e non sottomessa. E come avrebbe chiosato il buon Berto, “(…) ad essa è legata una piccola speranza: che i calabresi comincino a guardare con rispetto al loro passato e operino per conservare quanto della loro antica civiltà non è stato ancora distrutto.” Compreso qualche coraggioso magistrato pronto a svelare i segreti della Calabria contemporanea!

Fondazione Antonio Guarasci-  Anno XXII n. 11/ Novembre 2007

Torna su