Da oltre dieci anni la mia attività pubblicistica spazia -unitamente a ricerche più strettamente giuridiche- verso riflessioni socio-politiche e paesaggistico-culturali riguardanti la terra di Calabria, dalla quale proviene il cinquanta per cento delle mie origini: scollamento della vita socio-culturale, classe politico-amministrativa spesso inadeguata, giornalieri accadimenti che non sfuggono alla cronaca, impongono ben più di una riflessione.
In questa estrema penisola dell’Italia continentale, che dalla notte dei tempi ha sempre esercitato un fascino su intere generazioni di viaggiatori, lo Stato di Diritto sembra essere divenuto più un obiettivo da raggiungere che un dato conquistato: l’illegalità spesso elevata a sistema non è null’altro che il sintomo di un atavico malessere mai curato, di un’antica aspirazione di redenzione mai raggiunta ed oggi ci troviamo di fronte allo stesso concetto di cittadinanza che sembra aver perso l’antica connotazione cui giuristi, filosofi, storici e sociologi ci avevano sempre abituato. “(…) Il cittadino -espressione derivata dalla nomenclatura istituzionale della rivoluzione francese- è l’uomo in quanto qualificato dall’appartenenza ad uno Stato, ad un’organizzazione politica: già il dire “appartenenza politica” significa essere dentro qualcosa, essere parte di qualcosa. Nessuno di noi è parte dello Stato, appartiene alla Stato per sua libera scelta, ma vi sono regole in virtù delle quali si viene fatti appartenere ad uno Stato. (…) E la parola <> è usata in contrapposto alla parola <>”. (1
Poche battute ed il punctum dolens viene facilmente individuato: in Calabria -e lo scrivo sempre con grande rammarico- le più elementari norme, giuridiche o morali che siano -quelle che dovrebbero garantire la vita del moderno Stato costituzionale di diritto- appaiono sempre più in balìa di marosi e tempeste che poco o nulla hanno a che fare con quei fenomeni fisici che da sempre flagellano la lunga costa calabrese, quei tanto celebrati 780 chilometri di sabbia e roccia che dal Tirreno allo Jonio rappresentano un balcone sul cuore del Mediterraneo: quel mare in cui “molto a ragione Fernand Braudel -la cui opera ha detto probabilmente la parole fondamentale, se non definitiva, sulla storia del Mediterraneo- vi comprende fin dall’inizio l’idea geopolitica della modernità”. 2)
Indubbiamente, ragioni storiche risalenti nel tempo almeno alle drammatiche vicende dell’Unità d’Italia continuano a pesare come macigni, nonostante si parli di accadimenti storici datati: ma che questa terra abbia smarrito nell’arco di pochi decenni la sua lunga tradizione storica, è un dato di fatto. Con la nascita, nell’antica Grecia, della Polis e con l’esportazione del suo modello in tutta la “Magna Graecia”, il concetto di cittadinanza entrava appieno nel patrimonio giuridico della nostra civiltà, divenendo il diritto di appartenenza per eccellenza e solo molti secoli dopo questa certezza sarebbe stata messa in discussione da regimi totalitari, tanto che Hannah Arendt avrebbe parlato di “incertezze dei diritti umani”. Ebbene, a distanza di secoli, in Calabria lo stesso diritto di cittadinanza mi appare “incerto”: “<>, scriveva la Arendt, perché proprio nel momento in cui avrebbero dovuto manifestarsi come fondamentali, i diritti umani -invece- hanno mostrato tutta la loro fragilità”. (3
Ebbene, se il Novecento apportò in tutti gli Stati europei più avanzati come in tutte le Democrazie classiche quegli elementi e quei caratteri che nel diritto affondavano la propria origine, quel secolo avrebbe -invece- fatto compiere alla società locale un salto all’indietro di secoli, quasi fino ad una condizione pre-classica, cioè ben lontana dai fasti dell’epoca d’oro. E proprio nel corso del XX secolo, sarebbero venuti al pettine i tanti nodi che una difficile riunificazione nazionale aveva portato con sé: proprio nel ‘900 i calabresi avrebbero conosciuto il dramma della massiccia emigrazione verso le Americhe ed il Nord Italia; proprio in quel secolo una potente corrente malavitosa come la ‘ndrangheta avrebbe occupato “manu militari” intere aree della penisola calabrese; e proprio nel ‘900 la Calabria avrebbe subito il tradimento più umiliante della sua millenaria storia e questo non ad opera dell’ennesima invasione di “stranieri”, ma ad opera di una classe politica -fortunatamente, con gli opportuni distinguo- che solo oggi si denuncia come “casta”. Una sorta di grande inganno, dunque: “(…) In che modo la Calabria partecipa alla formazione dell’unità d’Italia; quali erano i suoi problemi ed i rapporti tra il ceto politico ed il sistema di governo regionale-locale? La risposta a tali interrogativi porta ad osservare che la Calabria si atteggia alla stessa stregua del ceto politico che la rappresenta, una rappresentanza che è ovviamente limitata, com’è proprio dello Stato liberale fino alla Costituzione repubblicana. In realtà c’era stata, con l’unificazione, una sorta di aspettativa messianica dei contadini calabresi alla prese con l’onerosissimo problema del latifondo e con le condizioni sociali di arretratezza, ben colte dalla letteratura dell’epoca (…)”(4.
Ecco il punto di svolta di un’intera generazione, tradita e dimenticata proprio da chi avrebbe dovuto difenderla ed instradarla sulla via della rinascita.
“(…) La Calabria sarebbe potuta diventare il paese di un turismo nuovo, colto, civile, un luogo di recupero spirituale per tutta la gente estenuata dalle nevrosi, dalle intossicazioni, dagli arrampicamenti, dal consumismo e industrializzazione, che ormai fanno malata più di mezza Europa. Invece i calabresi, appena tirata fuori la testa dalla miseria, si sono messi a distruggere il proprio passato -anche gli alberi, le case, il paesaggio- con un accanimento che l’avidità, l’ignoranza e l’ansia di portarsi al più presto all’altezza di Jesolo e di Busto Arsizio, non bastano da sole a spiegare. Bisogna cercare nell’inconscio (…)”. (5
Rileggo sempre con grande piacere e commozione -e giustamente lo cito- questo passo di Giuseppe Berto: una dedica sincera alla “sua” Calabria, quasi il testamento spirituale dello scrittore, giornalista, drammaturgo, sceneggiatore e poeta di Mogliano Veneto che nel 1957 si ritirò su quel Capo Vaticano, superbo angolo di Calabria dove iniziò a condurre -per i vent’anni successivi, sino alla morte- donchisciottesche battaglie per salvare quanto di quel promontorio ancora non era stato devastato. E quando nel 2005 diedi alle stampe il mio “Tracce di Calabria. Lo sguardo indietro, il cuore avanti”, avevo ben chiaro l’obiettivo che quelle pagine avrebbero dovuto raggiungere:mostrare la Calabria di oggi attraverso il suo aulico passato, perchè -in fin dei conti- gettare “lo sguardo indietro” equivaleva proprio a comparare la Calabria di oggi -spesso imbarazzante- con quella straordinaria stratificazione di civiltà eterodosse rappresentata proprio dalla penisola calabrese. Quel dolce flash back stupì la mia giovane ed assetata voglia di ricercare le antiche origini di una civiltà che il veneto Berto, non a caso, definì “scomparsa”: la modernità calabrese pare essere, invece, passata sotto gli ingranaggi di una malefica macchina trita-sassi, capace anche di incrinare lo stesso sistema istituzionale e paralizzare un’intera comunità umana.
Risultato? “(…) La nozione di cittadinanza, allora, perde le sue connotazioni sociologiche” (6, per trasformarsi in un lontano ricordo di ciò che dovrebbe essere lo Stato di diritto.
Conseguenze? Assenza forzata dello Stato e apparizione forzosa di ‘ndrangheta e varia criminalità organizzata; un falso turismo che caratterizza buona parte del territorio calabrese; una falsa economia che affama molte delle sue comunità; una falsa politica che ha conquistato molta della sua vita amministrativa. Quelli che altrove sembrano gli elementi patologici dello Stato di Diritto, in Calabria rappresentano il suo stato “fisiologico”, con una rassegnazione così palpabile tra la popolazione che assiste -spesso indifferente- allo sbriciolarsi di un passato aulico del quale le “tracce” stanno inesorabilmente scomparendo. E quando in questo allarmante ritratto contemporaneo si è inserito uno dei casi più emblematici che l’attualità regionale abbia mai fatto registrare, tanto da scuotere finalmente l’opinione pubblica -soprattutto quella giovane, per età ed idee- si è arrivati anche a gridare allo scandalo perché un giovane Magistrato napoletano era arrivato a toccare i gangli del malaffare regionale: c’era di tutto, soprattutto un trasversalismo partitico da far semplicemente rabbrividire… Nel corso di quest’intensa attività pubblicistica, non ho mai mancato di far sentire il mio giovanissimo pensiero per portare solidarietà e “voce” a quanti si battono quotidianamente per la stessa sopravvivenza dello “Stato di Diritto” in Calabria -terra metà Paradiso, metà Inferno- di cui mi sforzo di narrare le vicende quotidiane e mai come in questi ultimissimi tempi i cultori della “calabresità” stanno ricevendo tali e tanti assist che sarebbe politicamente e moralmente poco corretto non raccogliere. Lo faccio oggi, sottolineando ancora la gravità di fatti ed accadimenti che hanno nomi, cognomi, appartenenze, ruoli, responsabilità che fanno ormai parte della storia recente dell’Italia: piaccia o non piaccia.
Ma almeno una “certa” Calabria ha dimostrato di essere viva e non sottomessa e“(…) ad essa è legata una piccola speranza: che i calabresi comincino a guardare con rispetto al loro passato e operino per conservare quanto della loro antica civiltà non è stato ancora distrutto”. (7
Pessimismo estremo, come qualche mio critico continua a sottolineare? Dico no: solo realismo e speranza, appunto. “Frutto di una spirale malefica, questo meccanismo può essere spezzato, se solo la vicenda politica d’Italia che si spera avviata verso traguardi di sempre più vera democrazia e di sempre più moderna civiltà- saprà premiare la buona Calabria dei buoni calabresi, moderni e svegli nel pensare e progettare, ma custodi dell’antico coraggio nelle idee e nei fatti. Si deve: per il destino dei calabresi che oggi sono ancora bambini nelle culle, o che popolano le prime classi di scuole che li spingono alla speranza. Si deve: perché non si dovrebbe fare?”. (8
Già: perché non dovremmo tentare…
Nota bibliografica
IL TETTO - N. 270 ANNO XLVI - Marzo-Giugno 2009
Egidio Lorito
www.egidioloritocommunications.com