Proseguo, con molta passione, un itinerario iniziato all’interno del precedente numero: lo devo, per la passione che nutro per la terra di Calabria nella quale vivo ed opero, stratificando professioni e passioni che -fortunatamente- mi spingono a calarmi nella realtà che mi circonda. Osservare ed ammirare il paesaggio non è una semplice operazione visiva, fisica: occorre immedesimarsi in esso, riproporre i temi che risalgono nella Storia, conoscere gli accadimenti di più stretta attualità, effettuare operazioni di comparazione.

Insomma, agire contemporaneamente nel presente tenendo a mente la lezione del passato. In Calabria c’è un “prima” ed un “dopo”, non facilmente localizzabili, ma comunque sempre presenti nella sua millenaria storia fatta di civiltà e popoli, di invasioni e difese, di aperture ed arroccamenti. Purtroppo questo “prima” si staglia sempre più lontano nel tempo, datato in epoche sempre più distanti da noi: è il “dopo” che dovrebbe preoccupare maggiormente l’odierno abitante di questa lunga penisola, punta estrema della Penisola italiana. E questo “dopo” è -purtroppo- sin troppo contemporaneo a chi firma queste riflessioni…  
Ricorda Francesco Bevilacqua -avvocato e grande conoscitore del paesaggio calabrese per essersi impegnato, da un trentennio, in qualità di esponente di punta di Italia Nostra, W.W.F., Club Alpino Italiano e Fondo per l’Ambiente Italiano, esperienza da cui ha tratto una poderosa pubblicistica- che “tra la prima metà del ‘700 e gli inizi del ‘900, la Calabria fu meta di viaggiatori provenienti da varie parti d’Europa e dal resto dell’Italia (…). Il fenomeno è per gran parte -ma non del tutto- riconducibile nell’ambito del Grand Tour, la temperie culturale che spinse aristocratici, letterati, studiosi dell’epoca ad effettuare lunghi viaggi in Italia alla ricerca di vestigia archeologiche, opere d’arte, paesaggi pittoreschi da descrivere, poi, in raffinati diari di viaggio (…). Chi si spingeva a sud di Napoli era animato, in genere, dal desiderio di visitare i siti della Magna Grecia e di rievocarne i fasti, come nel caso dell’archeologo francese Fancois Lenormant, che fu in Calabria tra il 1879 ed il 1882, traendone un’opera corposa e dotta (…). E tutti gli studiosi che a vario titolo si sono occupati del Grand Tour in Calabria hanno finito per soffermarsi quasi esclusivamente sugli aspetti storici, archeologici ed antropologici dei vari reportage di viaggio: si è sempre ritenuto, infatti, che l’osservazione della natura avesse poco spazio nelle cronache di viaggio in Calabria. Ma all’occhio attento del naturalista, quegli stessi scritti rivelano un’insospettata quantità di descrizioni dedicate ai paesaggi naturali, anche in quegli autori che si riteneva fossero più di altri sorretti da interessi eminentemente culturali.”(1      
Sarebbe impossibile ricordare quanti, dalla notte dei tempi, hanno cantato le bellezze racchiuse nella penisola calabrese, ma Tito Livio, Strabone, Virgilio, Plinio, Diodoro Siculo, Dionigi D’Alicarnasso, fino a Gabriele Barrio, Richard Keppel Craven, Astolphe De Custine, Duret de Tavel, Norman Douglas, Francois Lenormant, Henry Swinburne, John Arthur Strutt, Edgard Lear, Guido Piovene, Giuseppe Isnardi, Giuseppe Berto (e l’elenco potrebbe continuare) meritano, almeno una citazione.
Qui, in mezzo al Mediterraneo, non esiste forse nessuna altra regione dove così forte appare il connubio tra mare e montagne, tra la vastità della distesa marina equamente suddivisa tra Tirreno e Jonio e le inimmaginabili elevazioni appenniniche, racchiuse in almeno sette diversi sistemi montuosi che spesso poco o nulla hanno di appenninico, addirittura.      
Elementi questi -mare e montagna- che giocano a rincorrersi regalando, praticamente da ogni angolo di visuale regionale, immagini che non possono non stupire anche il più distratto osservatore: e così, passiamo dal Pollino di Norman Douglas - “nessuno che visiti queste regioni deve rinunciare alla visione di questo spazio rinchiuso tra le cime dei monti, anche se esso si trova un po’ fuori dai percorsi consueti” (2- alla Sila di Guido Piovene -“la Sila è un paradosso paesaggistico che ci riporta a certe composizioni surreali che ottengono il loro fascino accostando tra loro oggetti eterogenei e disambientati. Sembra di essere caduti in un angolo della Scandinavia, con i pini silani più alti e snelli degli abeti”(3;dall’Aspromonte di Edward Lear  -“le torreggianti forme d’Aspromonte sembravano chiudere fuori il cielo, i lunghi solchi di montagne vestite di dense foreste: il senso di mistero e di solitudine di queste scene, la profonda solitudine di queste montagne, sono tali che né la penna né la matita possono descrivere” (4-  sino al ricordo elegiaco del mare del Mito: “lo Stromboli che avevo davanti fumava in mezzo ai flutti: il suo pennacchio bianco ondeggiava in balìa del vento sull’azzurro sempre più scuro della sera. Il suo cono bluastro si confuse presto nelle tinte vaporose del tramonto e il crepuscolo coperse gradualmente e scolorì tutte le cose. L’atmosfera era molle e limpida. Tutto era inebriato d’aria e profumi” (5.
Una bellezza commovente, complessa e variegata, spesso irreale a queste latitudini, capace di ripresentarsi -stagione dopo stagione- sempre pronta ad emozionare, stupire, incantare: c’è una Calabria verde, una azzurra, una bianca, una marrone. Insomma, una per tutte le stagioni, in questo “cuore multicolore” in mezzo al Mediterraneo. Poi, drammaticamente, appare quel “dopo” cui facevo cenno precedentemente: estremamente distante dai “molteplici aspetti del paesaggio e dei luoghi naturali di quella che un tempo fu la Calabria dei viaggiatori. I luoghi di una civiltà antica e in armonia con la natura che oggi, per una sorta di nemesi della storia, è diventata tra sfregi, distruzioni e abusivismo, un’area simbolo di un paradosso ambientale e sociale e lo stigma del non-luogo contemporaneo” (6.
E così, all’età dello stupore, della bellezza, della “Calabria sublime” cui la Storia ci aveva miracolosamente abituato, si è sostituita un’età della “vergogna”, caratterizzata da tante -troppe- nefandezze che hanno letteralmente sommerso quanto di ancora bello e stimolante era rimasto. Lo affermo con estrema rabbia, con estremo disgusto soprattutto perché -dopo tante invasioni straniere che nei secoli passati hanno messo la Calabria sotto assedio- questa volta i nemici -i barbari- non provengono da chissà quale recondita regione del Mediterraneo, ma si annidano al suo interno, con una trasversalità politico-affaristico-malavitosa che non sembra avere termine. Da quando le “Regioni” -come enti amministrativi, intendo- vennero istituite, la Calabria è stata sottoposta al fuoco di fila di un potere politico che, con le dovute eccezioni,  (e il mio ricordo commosso va all’indimenticabile figura di Antonio Guarasci, il Primo Presidente, morto tragicamente nell’ottobre del 1974) ha fatto a gara per avviare un sacco politico-amministrativo di sempre crescente ritmo. Mi si obietterà di essere estremamente pessimista, irriconoscente per quanto è stato fatto (per fortuna…) di buono;di essere omnicomprensivo in questa valutazione a posteriori! Davvero?
“(…) Sulla Calabria s’è abbattuta una distruzione ancora più maligna di quella dei terremoti e i principali responsabili sono le amministrazioni locali -quasi tutte avide e ottuse- e i vari governi e governanti che hanno sempre affrontato e continuano ad affrontare il problema del Mezzogiorno con stupefacente rozzezza (…)”. (7 
Tutto sommato, dopo trentadue anni, non mi sembra che le parole di Giuseppe Berto (che calabrese proprio non era!) siano molto distanti dalla realtà attuale. Sarebbe sin troppo facile e scontato proseguire su questa linea, parlare delle colate di cemento sulla costa Tirrenica, dello scempio su molte realtà interne -anche se la montagna, va precisato, ha subìto aggressioni meno apparenti!- dell’oppressione asfissiante della mafia più potente -la famigerata ‘ndrangheta- di intere classi politiche che hanno gareggiato per dare il peggio di sé, di misteri che molti volevano rimanessero tali. Da ultimo, la cronaca di queste ultime settimane sulla triste vicenda delle “navi dei veleni” affondate al largo delle due coste, pone interrogativi che puntano dritti ad intrighi internazionali con coinvolgimenti da far rabbrividire.
Su un dettaglio fondo una piccola certezza: non ci hanno ancora tolto il diritto di sperare che, un giorno, a trionfare sarà la Calabria dei buoni calabresi. Che spero saranno la maggioranza!               

Nota bibliografica

  1. Francesco Bevilacqua (a cura di), Calabria sublime. I paesaggi naturali della Calabria attraverso gli occhi di viaggiatori e descrittori, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2005, pp. 22 e ss.;
  2. Norman Douglas, Old Calabria, Londra 1915 (trad. it. Vecchia Calabria, Giunti Martello, Firenze, 1967);
  3. Guido Piovene, Introduzione alla Calabria, in Aa.Vv. Calabria, Sadea Sansoni, Novara, 1963, pp. 1-2;
  4. Edward Lear, Journals of a landscape painter in Soutern Calabria, Richard Bentley, Londra 1852 (trad. it. Diario di un viaggio a piedi, Parallelo 38, Reggio Calabria, 1973);
  5. Charles Didier, in Aa. Vv., L’Italie pittoresque, Pigoreau, Parigi, 1853;
  6. Mauro Francesco Minervino, Prefazione a Francesco Bevilacqua, Calabria sublime (op.cit.) pag. 25;
  7. Giuseppe Berto, La civiltà scomparsa, in “Calabria e Lucania. I luoghi, le arti, le lettere”, Libri Scheiwiller, Milano 1990, p. 20;  

IL TETTO - N. 271 ANNO XLVI -  LUGLIO-OTTOBRE 2009                                

Egidio Lorito
                                                                       

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