La giurista di origini calabresi Caterina Malavenda si confronta sul campo minato dell’informazione italiana

“Perché qualcuno dovrebbe leggere questo libro? Ce lo siamo chiesti anche noi quando abbiamo deciso di scriverlo. Forse per conoscere meglio l’origine di luoghi comuni e facili semplificazioni, per condividerli o sfatarli, entrando nella vita quotidiana del cronista per bene. In Italia, infatti, è invalsa l’opinione, forse qualunquista, ma con un fondo di verità, che il giornalista sia un privilegiato, spesso prono per convenienza al potente di turno, pronto a nascondere o travisare le notizie scomode e a reggere non solo metaforicamente il microfono a chi conta davvero;oppure sia un invasato che, per sostenere teorie di parte, ignora la realtà o la presenta in modo parziale;o ancora, sia la buca delle lettere di magistrati, avvocati, e imputati eccellenti (…)”.

Caterina Malavenda, Carlo Melzi D’Eril e Giulio Enea Vigevani sono esperti ben noti nell’ambito della delicata e quanto mai attuale materia del diritto penale dell’informazione: i primi due -avvocati milanesi esperti in diritto dell’informazione, della comunicazione e di internet- ed il secondo -docente di Diritto costituzionale e Diritto dell’informazione e della comunicazione all’Università di Milano-Bicocca- consegnano ora alle stampe un efficace manuale per districarsi nel complesso mondo dell’informazione, fornendo tutta una serie di “istruzioni” per navigare sicuri in questo mare quasi sempre tempestoso.
“In un Paese come il nostro si è soliti pensare che non vi sia alcun controllo, che ognuno dica e scriva quel che vuole, senza rischiare severe sanzioni, come nelle democrazie più serie, né la vita o il carcere, come nei Paesi a democrazia sospesa. Eppure anche qui da noi la vita può essere dura per coloro che non hanno un padrone e rispondono solo al lettore, né hanno protettori o parenti che contano. Sono quelli che verificano i fatti prima di divulgarli, che danno voce a tutte le parti, esprimono opinioni forti, con toni civili e rispettosi, ma non si girano dall’altra parte, con risparmiano chi conta, non si fermano al primo ostacolo, non usano le veline ma sono osservatori attenti e inesorabili. E’ a questi giornalisti che abbiamo pensato, quando abbiamo ricostruito i principi del diritto dell’informazione, secondo cui la libertà è la regola e i limi l’eccezione, ma anche quando siamo entrati nel labirinto delle leggi e delle sentenze, per segnalare quante siano le zone d’ombra e quanto questo rapporto tra regola ed eccezione possa essere aleatorio”.   
Un manifesto programmatico, dunque, quello che i tre giuristi affidano all’opinione pubblica: certamente scritto da un osservatorio privilegiato, colto e consapevole di quanto tecnicamente caratterizzata sia la materia e per ciò stesso assolutamente in linea con quelle regole -e relative eccezioni…- che fanno della materia della libertà della manifestazione del pensiero e, con essa, del diritto dell’informazione e della comunicazione, una delle frontiere di maggior fascino del panorama giuridico contemporaneo. Attuale, dunque: come se le pagine di Malavenda, Melzi D’Eril e Vigevani fossero scritte praticamente in contemporanea per chi, a vari livelli, è chiamato a svolgere, con scienza e coscienza, il proprio compito che, a volte -anzi, sempre più spesso- si trasforma in una sorta di missione di pace in tempo di guerra! Gli autori, come alla guida di una cordata di soccorritori, ricordano con slancio emotivo -eloquente quanto il tecnicismo delle loro pagine- come “(…) sempre per questi giornalisti abbiamo ricordato come la libertà di espressione non si limiti solo con la forza, che anzi fa alzare la testa anche a chi non ne avrebbe voglia: è sufficiente e più efficace promulgare leggi ambigue, scrivere sentenze miopi, presentare a ripetizione querele, cause di risarcimento, ricorsi al garante, esposti disciplinari che insieme avvolgono, spaventano, esasperano dissuadono e alla fine piegano. E’ questo lo scopo del nostro lavoro, perché se anche un solo giornalista rinuncia a fare il suo mestiere, anche una volta, per il timore di finire in questo tritacarne, è una ferita per la democrazia (…)”.    
Il piano dell’opera (capp. 1,2 e paragrafo 5.3 a cura di Vigevani;capp. 3 e 4, paragrafi 5.1 e 5.2 e cap. 6 a cura di Melzi d’Eril;e paragrafo 5.4 e cap. 7 a cura di Malavenda) evidenzia una facilità espositiva che fa il paio con una ricchezza di temi affrontati, grazie ai quali i presupposti storici, le fonti giuridiche, gli argomenti evidenziati, la tipologia penalistica e le regole processuali, unitamente ad una casistica dedicata, conferiscono alla ricerca quello spessore giuridico che gli autori, è bene ricordarlo, vogliono mantenere tutto interno al dibattito attuale, mai rendendolo avulso dal contesto storico in cui è calato. Come dire: il giornalista vive ed opera non nella “repubblica platonica” quanto in un ginepraio di atti, fatti, comportamenti, regole, pressioni tali da rendere il suo “mestiere” realmente “pericoloso”, anche se, apparentemente, le cose non farebbero pensare in questo senso. 
Lo sottolinea, in maniera congeniale alle ben note qualità professionali, lo stesso avvocato di origini calabresi Caterina Malavenda, allorquando evidenzia come “chi non avesse letto fin qui della complessità e della difficoltà interpretativa delle norme in materia, così ignorandone i rischi, potrebbe pensare che il lavoro del giornalista sia una passeggiata. Invece, per chi svolge questa nobile e difficile professione, è praticamente impossibile far bene il proprio lavoro, rispettare i diritti altrui e non finire sotto processo. Cercare le notizie dovunque, pubblicarle comunque e, contemporaneamente, accertare fino in fondo i fatti, non indulgere nell’uso di espressioni inutilmente offensive e, soprattutto, non superare i limiti posti a tutela della privacy: evitare processi e condanne è possibile solo individuando il giusto punto di equilibrio, sulla scorta delle regole elaborate dalla giurisprudenza, in applicazione delle norme vigenti, senza sacrificare, però la circolazione delle informazioni, come Costituzione e Cedu impongono (…)”.                    
Caterina Malavenda parla di “lacci e lacciuoli”, di “ostacoli e imprevisti”, proprio a voler gettare la luce su quanto di più rischioso sembri esistere sulla strada del giornalista, soprattutto di quello che svolge il proprio compito nell’ambito della cronaca giudiziaria. Infatti, “sono i cronisti giudiziari, fra tutti, i più esposti ai rischi di norme irragionevoli e di iniziative improvvide. C’è sempre qualcuno che ritiene di poter dire loro cosa possono pubblicare e come devono farlo (…)”. La stessa Malavenda insiste non poco proprio sul terreno che interessa ai cronisti per il semplice assunto che costoro sembrano pagare un prezzo caro, anzi salatissimo, visti i costi di un procedimento civile e o penale a loro carico: “(…) a ogni presunta violazione può seguire la reazione delle pretesa vittima che agisce senza rischiare nulla, anche nel caso in cui il giudice, dopo anni di attesa, le dia torto. Questo spiega l’elevato numero di cause, promosse ogni anno, non raramente a puro scopo intimidatorio (…)”.           
Il testo si segnala per una panoramica sulla disciplina che regola l’attività professionale del giornalista: panoramica che, grazie anche agli interventi dei colleghi Melzi D’Eril e Vigevani risulta comunque precisa e competa, proprio come merita una materia di questa delicatezza. Ecco, allora, le utili sottolineature in tema di “libertà di espressione e di informazione”, evidenziate attraverso i concetti di libertà di informazione, Stato democratico, Costituzione italiana e Corte di Giustizia di Strasburgo;così come le stesse riflessioni in tema di limiti alla libertà di espressione, secondo quanto riportato nei contributi che Giulio Enea Vigevani ha inteso affidare all’opera. Così come colpiscono, per lucidità di analisi e doti di sintesi, i contributi di Carlo Melzi D’Eril in tema di “limiti normativi e giurisprudenziali al diritto di informare”, che ricomprendono proprio reati ben diffusi oggigiorno, come la diffamazione, l’ingiuria, la calunnia;o quelli riferiti alla grande bipartizione tra “diritto di cronaca e di critica”, con tutti i corollari del caso.
Assolutamente imperdibile è la postfazione di Francesco Merlo: giornalista siciliano,       ha scritto il primo articolo per Pippo Fava, per poi passare a l'“Ora” di Palermo, “La Sicilia” di Catania, i settimanali “Il Mondo” “La Domenica del Corriere” e, per 19 anni, al “Corriere della Sera”;dall'ottobre del 2013 è editorialista per il quotidiano “La Repubblica”; vincitore di premi quali “Il Premiolino”, “Il Forte dei Marmi”, “Il Pari Opportunità”, “Il Saint-Vincent per il giornalismo”, “L'Alfio Russo”, “Il Capalbio”, Merlo è una di quelle penne sempre in prima fila e, per ciò stesso, esposte ai rischi de mestiere. Simpatica e tutta da riflettere è l’esperienza personale che riporta: “<<Merlo, ho deciso di non leggerti più, da oggi ho delegato il compito al mio avvocato>>, mi disse un giorno Ciriaco De Mita. E lo racconto subito, alla fine di questo utilissimo manuale di giornalismo che è anche una veloce storia del martirio della libertà di stampa e un’affascinante esplorazione dei suoi limiti, per rimettere l’avvocato al suo giusto posto di protagonista-antagonista dell’informazione moderna.” E’ la storia di chi conduce una “vita da querelato”, sempre più comune al giorno d’oggi in questo mestiere pericoloso…

Malavenda Caterina, Melzi D’Eril Carlo, Vigevani Giulio Enea, Le regole dei giornalisti. Istruzioni per un mestiere pericoloso, Il Mulino, Bologna 2012, pp. 178, € 15,00

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