Scrittore, saggista, drammaturgo, poeta, conferenziere, Franco Galiano ama definirsi intellettuale organico al territorio. Non ad un partito, ad una ideologia, ad un gruppo organizzato, come tanto andava in voga nella seconda metà del Novecento, ma ad un’area geografica ben determinata, nella specie quella stretta linea di costa che dal confine settentrionale della Calabria discende la penisola per poi dileguarsi tra i colori del mar Tirreno e le suggestioni della montagna calabrese. Una vita, la sua, spesa tutt’attorno alla cultura ed all’idea della sua divulgazione, dapprima come docente di materie letterarie nei licei e poi -in realtà, contemporaneamente…- come cultore delle antiche tradizioni sociali delle popolazioni che da sempre abitano questo tratto finale della Calabria. O iniziale, se si vuole.
Seguendo proprio questa linea interpretativa, la sua quindicesima fatica letteraria “La Terra del Mazzuco” (Edizioni Accademia del Peperoncino, Diamante), si presenta come una silloge di raccolte poetiche in vernacolo, secondo una variante del dialetto calabrese della Riviera dei Cedri, tuttora senza tradizione e codificazione scritta. Il libro si avvale di un lungo saggio introduttivo del noto dialettologo Leonardo Alario, uno tra i primi estimatori del poeta, che lo ha inserito, a pieno titolo, nella poesia contemporanea europea e nel più illuminante pensiero meridiano, oggi tanto in voga. L’opera presenta, inoltre, ben due prefazioni a sezioni: una scritta dall’autorevole e compianto critico letterario Antonio Piromalli, che definisce le poesie di Galiano come tra le più belle mai scritte in Calabria, l'altra ad opera dell'illustre antropologo Paolo Apolito che parla di Galiano come di un poeta della memoria che diviene presente e dal presente si apre, come scommessa, al futuro
Allora, Galiano, come nasce l’interesse per la società rurale e per il suo recupero nella memoria letteraria?
“Sono un figlio della società contadina ed artigiana, che ha trascorso la sua infanzia in un piccolo centro collinare della Calabria tirrenica settentrionale, con vista sul mare. Ricordo una natura profumata ed ammaliante intorno a me, con gli orti pieni di cedri e i prati in cui pascolavano capre ed asini pacifici contro cui, da bambini, lanciavamo sassi innocui e piccole bacche con cerbottane di sambuco: un eden da cui un falso e distorto sviluppo ci ha cacciati via, purtroppo”.
L’opera presenta tutta una varietà di temi e problematiche… “C’è tutta la società rurale ed artigiana, che non è quella di un Sud arcaico e primitivo, condizione esistenziale collocata nel mito e in uno spazio rassicurante, ma è semmai società dialettica “in fieri”, progressiva, inquieta, insoddisfatta: un microcosmo sociale che soffre e gioisce, che subisce ingiustizie e soprusi, che si ripiega su sé stessa e che nello stesso tempo non vuole rinunciare alla speranza del riscatto. Una società che, nel contempo, sente acuta la nostalgia e la guida degli antichi valori: esalto la solarità e l’estetica del paesaggio di questa Calabria, dove, per molti ritardi e tante derive, è spesso difficile e fortemente problematico vivere”.
Sei anche scrittore e saggista: meglio poeta o scrittore?
“Entrambe le cose. Non sempre c'è distinzione. Si può essere anche poeti in prosa: ciò che unifica e fa la differenza è sempre lo stile, la forza espressiva, la disposizione fantastica e sentimentale con cui si scrive”.
In quest’opera hai voluto privilegiare il dialetto come testo primo ed affiancare ad esso la traduzione italiana.
“Perché ancora nella nostra memoria risiedono le radici di una antica concezione del lavoro, della festa, dei rumori e della musica che spesso rappresentano una dimensione del vissuto da non cancellare se non si vuole smarrire l'identità, la sensibilità, il senso del passato con i suoi vecchi miti, i ritmi contadini, i riferimenti simbolici e i valori lungamente interiorizzati. Era necessario ricorrere all'uso del dialetto, cercando -sulla scia della migliore tradizione letteraria, da Padula ai più recenti, per il tramite di Pasolini- di sottrarre la parlata vernacolare al ruolo di espressione ingenua e folklorica del mondo popolare, per farne un linguaggio autentico, insieme storico e senza tempo, contro l'italiano anonimo e banalizzato, capace di opporsi alla violenza della modernità, del consumismo e della omologazione selvaggia. La scelta insomma del dialetto come lingua contestativa e memoriale, nell'arte e nella poesia”.
Ma in modo più specifico di quale lingua dialettale si tratta?
“E' un dialetto calabro-lucano, comprendente una zona mista (Lausberg) che si colloca tra l'antico Bruzio settentrionale, il monte Pollino, il fiume Lao, la vasta area del Golfo di Policastro e le comunità lucane del basso golfo di Taranto. Un dialetto di ascendenza osca e magnogreca con morfologia e lessico conservativo latino, purtroppo oggi annacquato o assorbito dai livellanti linguaggi mediatici”.
E le altre novità ed originalità in questo lavoro letterario?
“Una sezione è dedicata alle traduzioni in vernacolo calabrese ( è la prima volta che succede) di autori quali Orazio, Catullo e d’Annunzio, con la famosissima Pioggia nel Pineto. Se la traduzione è ascolto e confronto tra spiritualità differenti, ho voluto accogliere tali autori, che sono perenni, reinterpretandoli, ripensandoli, rivisitandoli nella lingua e nella cultura calabrese che, a sua volta, cerca un confronto con un mondo spirituale globale, in fieri, protagonista e non periferico. Naturalmente, la sonorità linguistica del dialetto è diversa da quella dei testi originali, in quanto finisce per produrre un utile estraniamento che fa percepire, nella scelta dell'esattezza delle parole, in modo nuovo, il testo originale senza tuttavia tradirne il senso profondo ed universale. Altra parte notevole del volume contiene poesie della raccolta tradotte in romeno e fotografie di recital e performance varie di incontri culturali a Bucarest”.
Oggi si parla, tanto di ricerca della felicità: la società rurale è stata una società felice ed immune da scandali e corruzione come invece si presenta questa nostra attuale?
“Nessun consorzio umano è stato mai un eden o un isolato paradiso terrestre. Immerse nella corrente delle storie localistiche, anche le comunità più periferiche non erano immuni da contraddizioni o da conflittualità o da mali e restrizioni antropologiche in genere. Ma si viveva a misura d’uomo: facilmente si riusciva a risalire alla fonte della violenza o al torto subito e gli scandali divenivano presto rintracciabili e di diretto dominio pubblico. Tuttavia si nutrivano ancora speranze ed illusioni per l'uomo. Al contrario di oggi, dove la longa manus del potere, nascondendoci la reale portata delle cose e dei fatti, finisce per farci presagire un non rassicurante ma ansioso futuro”.
La poesia in dialetto può recare un messaggio all'uomo post-modemo?
“La poesia come sapere disinteressato, a mio avviso, è assolutamente in grado di formare l'uomo libero secondo la sfida di una cultura meridiana e vernacolare autoctona, in quanto la coscienza civica si forma là dove le radici etniche non sono del tutto inaridite e in quanto tutti siamo figli della società contadina per via di alcune generazioni, verso le quali l'arte si deve porre come una specie di compensazione magica per tutto quello che non abbiamo riconosciuto e non vogliamo ancora riconoscere. La mia poesia, pur non essendo organica ad alcuna ideologia o, peggio ancora, a nessuna formazione politica, la ritengo poesia genuinamente impegnata e non di evasione: comunicare emozioni, curare lo stile della scrittura, ricercare i suoni sono operazioni volte ad ampliare il pensiero e la riflessione di chi legge o del fruitore dell'arte in genere: realizzare il fatto estetico è compiere un fatto morale, che si pone alternativo alla droga, alla delinquenza, al malaffare, allo scandalo politico. Insomma, la poesia per dirla con Camus, è rivoluzione e rivolta ('a poesìje, fratè, jè nu rimate 'nsunnate...) Non mi ritengo, perciò, né un poeta attardato né retrivo né lacrimoso né falsamente populista, ma un periferico rapsodo della provincia emarginata e voce progressiva di quella Calabria generosa e scommettitrice -la partita non è mai chiusa…- che vuole trasformare il dolore in forza, le arretratezze in protesta, in riscatto, in opportunità di uomini liberi e creatori di una nuova socialità. La mia è una poetica progressiva e critica, una poesia narrativa e lirica, cognitiva e liberatoria che non cede all'idillio, al patetico, al bozzettismo folcloristico o all'impressionismo naturalistico e decadente”.
Franco Galiano, La terra del Mazzuco. Poesia in vernacolo calabrese con traduzione a fronte, con saggio critico introduttivo di Leonardo R. Alario, Accademia del Peperoncino Editore, Diamante, 2014 (n.e.)