Add Editore, Torino, 2010 pp. 175, € 16,00
“Quel giorno ho fatto piangere un sacco di uomini adulti. Grandi e grossi, stretti ai loro figli o alle mogli piangevano tutti per me e vi giuro che vederli è stato curioso e bellissimo. Quel giorno era il 31 maggio del 2009 e io smettevo di giocare a calcio da professionista dopo quasi vent’anni. C’erano migliaia di persone commosse intorno a me, ricordo i cori e il diluvio di flash delle macchine fotografiche, roba da mettere i brividi.
Tutti pensano che l’ultima partita sia molto simile alla morte di un giocatore, la fine di una vita e forse l’inizio di un’altra molto diversa, meno bella, meno colorata (…). Quel giorno ho fatto piangere un sacco di uomini ma non ho pianto io, perché ero felice. Credo che a questo mondo ci sia una ragione per tutto e anche se si tratta di una piccola prova, so che quel giorno è stato organizzato da qualcuno molto più grande di me, perché non poteva essere più bello, più intenso (…). Io penso che la mia vita sia stata allo stesso tempo normale e straordinaria, proprio perché ho scelto di viverla senza mai distrarmi dall’obiettivo, di non risparmi mai, di dare tutto, di correre sempre. Di non mollare. Spero che questo racconto possa essere di aiuto a qualcuno, a chi anche per un solo secondo pensa di non farcela. Io non l’ho mai fatto, non mi sono mai arreso. Non è facile ma ci si può riuscire e ve lo dice uno che alla partita di addio c’è arrivato partendo da lontano, da lontanissimo, da Cheb….”
Pavel Nedved non è uno scrittore di professione, né, tantomeno, un giornalista, un sociologo, un filosofo. Pavel Nedved è stato un calciatore che alla sua avvincente professione ha dedicato un arco temporale così intenso da realizzare il sogno di un uomo che quei calci al pallone ha iniziato a darli praticamente da bambino: un bambino dall’inconfondibile caschetto biondo, dagli occhi azzurri, dal fisico asciutto, perfetto esempio di moto perpetuo per quanto correva dalla mattina alla sera, senza mai fermarsi, divenendo una vera e propria disperazione per i propri genitori. Una storia che inizia in un lontano 30 agosto 1972: lontano ai soli effetti anagrafici, non certo per la Storia di quella parte d’Europa, che appena quattro anni prima aveva conosciuto una delle più belle e commoventi rivoluzioni per la libertà, in una terra che alla fine di quel decennio era ancora la Cecoslovacchia, ben lontana dalla divisione degli anni ‘90.
In questo contesto inizia a dipanarsi il racconto di Pavel Nedved, stella di prima grandezza del calcio mondiale non soltanto per essersi aggiudicato, nel 2003, il Pallone d’Oro -ovvero il massimo riconoscimento per un calciatore in attività- quanto per aver impersonato un modello di sportivo e di uomo destinato a rimanere indelebile nella storia di questo sport che, nonostante tutto, continua ad appassionare milioni di persone ai quattro angoli del Pianeta. Cheb è una cittadina della Repubblica Ceca che oggi conta circa 35 mila abitanti: situata sul fiume Ohře, nella regione di Karlovy Vary, vicino al confine con la Germania, è il capoluogo dell'omonimo distretto;prima dell'espulsione dei cittadini di nazionalità tedesca era una delle località dei Sudeti a maggiore densità germanofona. Una di quelle realtà che pagò un prezzo altissimo al delirio di onnipotenza di quel dittatore che nella prima metà del Novecento avrebbe voluto imprimere alla storia d’Europa un corso ben diverso. “Io sono stato un bambino felice. So che forse è difficile da credere, ma la mia infanzia a Skalnà, dove sono cresciuto, è stata bella e senza problemi, di tutto quello che succedeva intorno non mi sono mai accorto ed è stato grazie ai miei genitori e soprattutto ai miei nonni (…). Ecco, io non posso dire che gli anni del comunismo siano stati così brutti e violenti, ma vivere al confine era duro, vedere le torrette di guardia e sapere che ogni tanto qualcuno spariva senza sapere il perché era una cosa difficile da accettare per un bambino (…)”. Perche la storia, normale e straordinaria al tempo stesso, di questo giovane calciatore, arrivato in Italia nell’estate del 1996, è molto di più di un lungo elenco di partite, di trofei, di discese su rettangoli di gioco, di strenua difesa ed altrettanto attacco. Quella di Pavel Nedved è -soprattutto- la storia di un ragazzino che cresce proprio mentre il mondo intorno subisce tali e tanti cambiamenti che solo oggi, a distanza di un quarantennio, gli stessi storici iniziano a ricondurre nel giusto alveo. E il mondo di cui parla l’autore si è messo in moto proprio nel cuore di quella vecchia Europa cui pochi, in Occidente, guardavano con speranza e molti non guardavano proprio. “(…) Non eravamo lontani da Praga e anche se i mezzi di informazione erano controllati dal partito, c’erano segnali sempre più importanti che parlavano di un mondo in movimento, di forze invisibili e positive che stavano per travolgere tutti noi. Se cresci in un Paese come la mia Cecoslovacchia ti abitui a credere che il regime non possa mai sbagliare, che ogni singola scelta sia fatta per il bene comune e che il partito sia sempre in buona fede. Certo, devi fare i conti con molte restrizioni della libertà ma pensi che lo stiano facendo per proteggerti, e noi eravamo tutti così, tanto gli adulti come i ragazzini, ingenui e disposti a credere nelle decisioni del regime, come se non si potesse fare diversamente (…). Si cominciava a parlare di manifestazioni di protesta e quando arrivò il 1989, ormai tutto andava troppo veloce perché si potesse fermarlo. Il 1989 fu l’anno della nostra Sametonova revoluce, la Rivoluzione di Velluto che mise fine al regime comunista senza gi spargimenti di sangue che invece ci furono in altri Paesi. La protesta era cresciuta per tutto l’anno. A gennaio, nel corso di una commemorazione di Jan Palach (lo studente patriota che era ormai diventato il simbolo della resistenza antisovietica, e che morì nel gennaio di vent’anni prima dopo essersi dato fuoco in Piazza San Venceslao), era stato arrestato anche Vaclav Havel, che a fine dicembre sarebbe diventato presidente della Cecoslovacchia unita e il primo presidente della Repubblica Ceca (…)”. Colpisce, nelle pagine di Nedved, il costante riferimento alla vita quotidiana: d'altronde, come non guardare costantemente a quella “Rivoluzione” che non fu soltanto un accadimento politico, ma anche -e soprattutto- umano. E così, la memoria corre veloce -esattamente come avrebbe fatto questo giovane calciatore negli anni a venire- a quel periodo: dagli esordi nello Skoda Plezen -la squadra di serie B, di una città che vantava un’antica università, la celebre birra e gli altrettanto famosi stabilimenti della Skoda- al primo grande salto nel Dukla Praga - “(…)fondata da membri dell’Esercito aveva cambiato nome un po’ di volte finché nel 1956 non fu scelto il nome di Dukla, per ricordare un villaggio slovacco distrutto dai nazisti durante la seconda guerra mondiale (…)”- ed il successivo allo Sparta;il ricordo di una indimenticabile esperienza durante i Campionati Europei in Inghilterra nel 1996 -“(…) Giocammo a Wembley, in uno stadio pieno di tifosi cechi e tedeschi: (…) vinsero loro, i favoriti, e per noi restarono solo medaglie d’argento e complimenti (…)”-;poi l’arrivo in Italia, alla corte del connazionale Zeman, allenatore della Lazio, sino a quella domenica 14 maggio 2000, giorno del secondo scudetto bianco-celeste, giunto dopo l’incredibile diluvio di Perugia-Juve, partita iniziata, sospesa, ripresa…: nel futuro di Pavel Nedved inizia ad intravedersi il “colore” bianco-nero. “(…) Arrivò la Juventus, la dirigenza mi cercava da tempo e volevano chiudere il terzo grane acquisto con i soldi ricavati dalla cessione di Zidane (…) L’impatto con Torino fu strano (…) Cercammo casa in centro ma abbandonammo subito l’idea (…) così optammo per spostarci fuori città e le cose iniziarono ad andare meglio da subito. Visitammo una casa stupenda nel Parco della Mandria (…). Il dottor Umberto Agnelli viveva nello stesso parco e capì da subito che io e Ivana eravamo un po’ isolati e prese l’abitudine di venirci a trovare spesso (…)”.
Per otto lunghi anni, tra le gioie dei primi quattro e i “dolori” dei secondi, questo ragazzo venuto dall’Est lascia una traccia indelebile della sua permanenza nella solo apparente fredda e distaccata Torino, città che -invece- sa bene come accoglierti: il resto lo avrebbe fatto il calore di quella sterminata schiera di sostenitori per i quali Nedved sarebbe diventato un beniamino, uno di quegli esempi da imitare oltre che uno di quei calciatori da collocare -di diritto- in una sorta di “Hall of Fame”, di “Pantheon” della contemporanea arte calcistica. Ed ecco la gioia incontenibile provata alla fine di un altro irripetibile pomeriggio -“(…) Vincere sarebbe stato bellissimo e il 5 maggio 2002 la fortuna, la nostra determinazione e la follia dell’Inter ci regalarono lo scudetto meno atteso di sempre (…)”-, come la rabbia per una finale di Champions League sudata a suon di vittorie e mai giocata -“(…) Feci un fallo su McManamann e mi resi conto subito che mi sarebbe costato carissimo (…) Ero disperato, piangevo e non volevo darmi pace (…)”-;e come l’immediata rivincita per essere salito sino in vetta dell’Olimpo dei calciatori con quel “Pallone d’Oro”, sigillo di una stagione irripetibile. E poi ancora dolori, questa volti da condividere con tutta la squadra, con la società, con almeno 15 milioni di tifosi, disperati come non mai la sera di quel 14 luglio 2006, all’esito della velocissima sentenza di “calciopoli”: “(…) uno scudetto revocato e non assegnato, una penalizzazione enorme che ci fece retrocedere e perdere anche il secondo scudetto, assegnato all’Inter;in più, dopo un’estate complicatissima ed un ricorso, la penalizzazione pr la stagione 2006/2007, che la Juventus avrebbe giocato in serie B. Leggere bene i provvedimenti fa venire i brividi(…)”. Cosa fa, a quel punto, Nedved? Decide di non rispondere a nessuna offerta da nessun club e sceglie la via più coerente ed affettivamente più appagante: rimanere, anche nell’”inferno” della B: “(…) Dovevo rimettere le cose al loro posto, prima di abbandonare il calcio dovevo riportare la Juventus dove è giusto che stesse. In serie A, a giocarsi scudetti e trofei(…)”.
Questo libro non è solo la sintesi di uno sguardo al passato: è un auspicio per il futuro, che per Nedved “è un posto che mi piace”: “(…) Scrivere questo libro è stato divertente, bello. Ho cercato di comunicare più che altro i miei pensieri, di raccontare chi sono e come vivo (…). La mia famiglia è il centro di tutto, il mio punto di equilibrio (…). Da poco sono entrato nel Cda della Juventus, lo ha voluto Andrea e gliene sono grato (…)”.
Già, Andrea. Andrea Agnelli, figlio di Umberto il “Dottore”, è approdato alla guida della società lo scorso 28 maggio. Un “Agnelli” nuovamente sul ponte di comando della “Vecchia Signora”, fa notizia, riporta alla memoria i fasti di un tempo, dritto dritto a quei 113 anni di gloriosa storia. “(…) Pavel è proprio questo: l’ho visto correre, soffrire, gioire, piangere e ridere. Siamo diventati amici e abbiamo corso, sofferto, gioito, pianto e riso insieme. In questi giorni ha accettato di accompagnarmi in un’impresa, quella di riportare la Juventus dove le compete. Ha accettato di essere un amministratore della Juventus perché ha mantenuto viva la fiamma di una passione che anche in me non ha mai smesso di ardere. Si dedica nuovamente alla Juventus perché sa che spetta a una nuova generazione proseguire la tradizione e scrivere nuove pagine (…)”.
Nuove pagine, come quelle che escono di getto a questo recensore che considera la “sua” Juve una traccia indelebile nella propria vita. Assolutamente normale…