Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (CZ) 2011, € 14,00
“Nel bel mezzo di Tangentopoli, ossia quel rovinio della classe politica della prima Repubblica, accade che uno dei magistrati di accusa di Milano dicesse che loro -i pm- stavano per cambiare il racconto e l’interpretazione della recente storia d’Italia. Che dopo i processi da loro intentati, ma soprattutto le sentenze che sarebbero scaturite da quei processi, la recente storia d’Italia sarebbe stata tutt’altra da quella che eravamo abituati a credere e pronunciare. E’ stato davvero così e fermo restando che quella classe politica messa sotto la mannaia giudiziaria era fatta da tutto fuorchè da francescani scalzi? A me non pare affatto (…)”.
Una delle penne più intelligenti, colte e raffinate del giornalismo contemporaneo italiano, Giampiero Mughini, apre la Prefazione ad un recentissimo libro destinato sicuramente a lasciare traccia non solo tra gli addetti ai lavori, in Calabria come in Italia, quanto tra una composita folla di lettori ed elettori che hanno conosciuto, seguito l’attività, appoggiato e contrastato anche la vita politica di uno dei più conosciuti cavalli di razza della scena italiana: Giacomo Mancini.
Enzo Paolini, apprezzato penalista del Foro di Cosenza, l’ha scritto rispondendo alle domande di un giornalista di lungo corso, Francesco Kostner che, oltre a curare la pagina culturale de la “Gazzetta del Sud”, alimenta la sua passione per la politica.
Continua Mughini: “(…) Da un punto di vista giudiziario, il <<caso Mancini>>, esploso nel 1993, era dei più traboccanti. Il primo caso in cui si configurasse <<il concorso esterno>> di un leader politico di gran peso a un’associazione criminale, ‘ndrangheta o mafia che fosse. E anche se a un certo punto le accuse dei pentiti sarebbero divenute talmente insistenti e sistematiche, da far apparire Mancini uno che faceva parte toto corde della ‘ndrangheta, che aveva dedicato la sua vita e la sua carriera politica alle fortune di un ramo della ‘ndrangheta calabrese. Stavo per dire come uno che la criminalità ce l’aveva nel sangue, altro che il figlio di uno dei padri fondatori del socialismo meridionale (…)”.
Si fa prendere la mano Giampiero Mughini, uno che affronta la storia recente d’Italia con quella dovizia di particolari mai disgiunta da uno sguardo complessivo, come solo gli storici più acuti riuscirebbero a fare. Lui che storico nel senso tecnico non è: le sue dissertazioni sull’Italia degli anni ’70, ad esempio, affascinano quanto quelle sulla bellezza femminile alla Brigitte Bardot, musa ispiratrice di più di una generazione, o quanto la conoscenza della letteratura italiana ed i suoi gioielli culturali, da farlo considerare un vero “bibliofolle”. Ma cosa aveva fatto di talmente grave quel pilastro del socialismo italiano, quali erano le responsabilità alle quali lo richiamavano i pubblici ministeri di Reggo Calabria Boemi e Verzera. E perchè proprio a Reggio era radicata la competenza territoriale?
Giacomo Mancini era accusato “(…)di aver ottenuto vantaggi elettorali in cambio di appoggi politici volti a risolvere problemi di natura giudiziaria che gravavano sulla cosca Iamonte. In particolare, secondo i pentiti, Mancini avrebbe incontrato il boss Natale Iamonte, quando era latitante, promettendogli il suo interessamento per un processo che si svolgeva a Bari e che vedeva un figlio del mammasantissima, Giuseppe, imputato d’omicidio (…)”. Enzo Paolini, co-autore del libro, è una figura ben nota negli ambienti cosentini: apprezzato penalista, può vantare con i Mancini un’antica amicizia familiare che nelle città del Sud conta forse più di una parentela diretta. Da giovane, era stato testimone di buona parte della fortunata storia politica del protagonista della vicenda giudiziaria e anni -ironia della sorte- sarebbe stato impegnato proprio nel collegio difensivo di Manicini, insieme al collega Tommaso Sorrentino, altro penalista bruzio e docente universitario deceduto qualche anno addietro per una male incurabile ed al professor Marcello Gallo, fine accademico torinese e penalista di razza nel panorama italiano. Il racconto della singolare vicenda giudiziaria ha un inizio simbolico, ovvero il 6 ottobre del 1993, quando dalla stampa locale si lesse la notizia che Mancini, ad un’età non più propriamente indicata, avesse intenzione di guidare un’alleanza di rinnovamento e progresso e concorrere alle elezioni del 21 novembre per il rinnovo del Consiglio comunale di Cosenza, la città di tutti i protagonisti del libro, città caduta in una crisi quasi irreversibile.
Ma i quotidiani, ora anche quelli nazionali, in prima pagina pubblicarono anche un’altra notizia, quella ” (...) di un’operazione delle forze dell’ordine, resa possibile grazie alle rivelazioni di due pentiti, Filippo Barreca e Giacomo Lauro, coperti all’inizio con i nomi di “Alfa” e Beta”, grazie alle cui rivelazioni era stata decapitata la cosca del boss Natale Iamonte. Nell’inchiesta (…) era finito anche Giacomo Mancini, accusato di voto di scambio (…) e si apprese che il pubblico ministero addirittura aveva richiesto il suo arresto (…)”.
E’ questo l’atto di accusa intorno al quale si dipanano le oltre trecento pagine del libro, attraversate con estrema competenza dal giornalista Francesco Kostner, abile nel suo intento di ricostruire uno dei casi giudiziari più eclatanti della recente storia repubblicana, grazie alle risposte che l’avvocato Paolini gli rende su un caso che, evidentemente, non poteva non lasciarlo perplesso ed interdetto. Non solo sul piano processuale –“(…) si ipotizzavano reati comunque non perseguibili, in quanto eventualmente, prescritti o amnistiati. E io aggiungo inverosimili (…)”- ma soprattutto su quello umano, in quanto riguardavano un uomo ormai vicino agli ottant’anni, pronto, nonostante tutto, a concorrere alla carica di Sindaco di una importante città del Sud Italia, dopo aver percorso l’intero cursus honorum politico nazionale. Non era poco, neanche per il “vecchio leone” socialista. L’intento del libro è chiaro: spiegare ad un pubblico di lettori, che ci si augura più ampio possibile, come sia accaduto che un cittadino della Repubblica italiana -prima ancora che un potente esponente della classe politica, sia chiaro- fosse stato tirato in ballo da feroci esponenti di cosche della ‘ndrangheta per aver, a loro dire, prestato il fianco a quegli stessi gruppi criminali che Mancini stesso aveva combattuto per una vita intera. Il passaggio giuridico-giudiziario è delicatissimo, perché tutto avvitato attorno a quella figura di reato che non esiste nel nostro ordinamento penale come figura autonoma: il “concorso esterno in associazione mafiosa”, invece, si configura come una creazione giurisprudenziale, una sorta di "concorso nel concorso necessario", ossia come la condotta di un soggetto esterno all'associazione a delinquere (e quindi di un soggetto a cui non è richiesta l'adesione al vincolo associativo) che apporti un contributo effettivo al perseguimento degli scopi illeciti dell'associazione. Tale contributo integrerà la fattispecie del reato in questione qualora sussistano una serie di requisiti, delineati, tra le altre, da una celebre sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, la n° 22327 del 21 maggio 2003, che richiede l’occasionalità e l’autonomia del contributo prestato, la funzionalità del contributo al perseguimento degli scopi associativi, l’efficienza causale del contributo al rafforzamento e al consolidamento dell'associazione e la sussistenza, in capo al soggetto agente, di quell’elemento soggettivo che i giuristi definiscono “dolo generico”, consistente nella consapevolezza di favorire il conseguimento degli scopi illeciti. Insomma: una figura criminale per la cui sola esistenza si richiedono elementi precisi ed altamente concordanti.
Roba da far impazzire accusa e difesa, soprattutto. Ecco la complessità della figura di reato; ecco la complessità se rapportata in capo ad un celebre leader politico nazionale; ecco la delicatezza della posizione processuale di Giacomo Mancini, accusato “(..) di tutto: aggiustamenti di processi, custodia di latitanti, favori di ogni tipo. Il tutto, naturalmente, in cambio di voti, necessari all’ex parlamentare per mantenere inalterati nel tempo il suo consenso elettorale e la sua influenza politica. Usarono parole durissime per descrivere il sodalizio criminale che legava Mancini ai boss, parlando addirittura di una manipolazione mafiosa dei suffragi locali, piegati a vantaggio di un uomo spregiudicato che vendeva il mandato al crimine organizzato (…)”.
Dai primi interrogatori all’udienza preliminare; dal rinvio a giudizio -con la lunga sfilata dei testi delle parti processuali- sino alla condanna emessa dal Tribunale di Palmi a tre anni e sei mesi per “concorso esterno in associazione mafiosa”. Sino alla deliberazione della Corte di Appello di Reggio Calabria che annullava la decisione di I° grado per “incompetenza territoriale”, con invio degli atti alla sede naturale di Catanzaro, fissata presso la Procura Distrettuale del capoluogo calabrese. Qui, nuovi mesi di drammatica istruttoria con una nuova richiesta a giudizio e nuova richiesta di condanna a 2 anni e 4 mesi. Infine la sentenza: 3 ore e 50 minuti di camera di consiglio ed il 19 novembre del 1999 Giacomo Mancini venne assolto, all’esito del rito abbreviato, con la formula più ampiamente liberatoria -per quella parte del capo d’imputazione più allarmante- che un imputato possa auspicarsi: “perché il fatto non sussiste”, ovvero quando il fatto storico, attribuito all’imputato nel capo d’imputazione, non sussiste nella sua materialità, mancando di uno degli elementi oggetti del reato, ovvero l’azione/omissione, l’evento, il nesso di causalità’.
Il lettore, al di là del dato puramente giudiziario, non mancherà di cogliere un afflato più nettamente umano, legato alle vicende di un politico che, nel frattempo, si era candidato Sindaco di Cosenza, era stato eletto, aveva dovuto dimettersi, si era ricandidato, rivincendo. Un’ottantenne che se non dotato di una fibra resistentissima non avrebbe potuto certamente affrontare tutti questi episodi sotto la classica spada di un processo di tali dimensioni. Una vicenda che si è annodata anche intorno al classico rapporto “Giustizia-Politica”, come ha ricordato nella Post-fazione l’avvocato cosentino Franco Sammarco.
Un libro che, ora, come invita Giampiero Mughini, ci permette di rileggere “(…) una storia complessa, ricca, affascinante (…). Una tragedia italiana. E comunque leggetelo questo libro che avete in mano. In nome della verità”.