Chiarelettere Editore, Milano 2012, € 18,00

“(…) Ho iniziato a occuparmi dei delitti della Uno Bianca (allora questa definizione non era ancora stata coniata) nell’aprile del 1988; ero un giovane sostituto procuratore a Bologna e durante il mio turno vennero assassinati, a Castel Maggiore, i carabinieri Stasi ed Erriu. Dopo di allora, mi è capitato spesso di fare indagini su delitti riconducibili alla Uno Bianca… (…)”

Giovanni Spinosa, Presidente del Tribunale di Teramo, è in Magistratura dal 1981: ha all’attivo vent’anni di servizio negli uffici giudiziari bolognesi, diciassette dei quali da pm, legando indissolubilmente il suo nome a quello di una maledetta ondata criminale che la vulgata giornalistico-giudiziaria conosce con il nome di “banda della Uno bianca”.
Ma altrettanto simbolica è stata l’esperienza alla guida della Sezione Penale del Tribunale di Paola, in Provincia di Cosenza, in Calabria: ebbene, il “nostro” ha firmato la prima sentenza con cui una cosca di mafia (il clan che fa capo al boss Franco Muto) è stata condannata al risarcimento del danno in favore dello Stato per la lesione della sovranità statale sul territorio oggetto dell’occupazione mafiosa. Ma questa è un’altra storia, non meno grave, drammatica ed asfissiante di quella che segue. Poi, ancora inchieste sulle associazioni mafiose siciliane in trasferta nel nord Italia, su stidda, ‘ndrangheta, doping nel ciclismo, sulla revoca della scorta a Marco Biagi, morto assassinato il 19 marzo del 2002. Come sostiene Marco Travaglio nella Prefazione, “Chi si inoltra nella lettura di questo libro deve sapere che non riuscirà più a smettere. E forse passerà qualche notte in bianco per vedere subito come va a finire. Questo almeno è quel che è accaduto a me, dal giorno in cui il Giudice Giovanni Spinosa mi consegnò la prima stesura de L’Italia della Uno bianca. Che non è purtroppo un romanzo (…)”. O meglio: è un nuovo, drammatico “romanzo criminale”, di quelli che il nostro Paese conosce sin troppo bene, a voler semplicemente seguire il lento fluire della sua breve storia repubblicana. Misteri, misteri ed ancora misteri. Come quelli che segnano l’arco temporale compreso tra il 1987 ed il 1994, quando furono ben 82 i “colpi” messi a segno in Emilia Romagna: 23 persone vi trovarono la morte, i feriti si contarono a decine. Si pensò ad un’ “impresa criminale a natura familiare”, semplicemente perché a comporre quella famigerata banda erano tre fratelli originari di Forlì: Roberto, conosciuto come il “ragioniere”, che nella vita di tutti i giorni era un capopattuglia del 113 della Questura di Bologna; Fabio, camionista a Rimini, che si sarebbe guadagnato l’appellativo di “fantasista” ed Alberto, altro poliziotto in servizio presso il Commissariato di Rimini, che le cronache del tempo definirono il “rintronato”. Su questa lunga scia di sangue, su un bottino che all’epoca raggiunse i due miliardi di lire, su armi, droga, donne belle e dannate (Eva Mikula…) sembrò essere calato definitivamente il silenzio nel 1994, quando i Savi vennero rocambolescamente arrestati: confessarono rapine, omicidi, attentati. Tutto troppo facile, come già scritto. Apparvero agli occhi dell’opinione pubblica come gli unici colpevoli,  ma qualcosa -o forse molto più- non tornava. E quel qualcosa ci viene restituito, diciotto anni dopo, da quel coraggioso Magistrato del Pubblico Ministero che mai e poi mai aveva creduto alla “vulgata” della consorteria familiare che rubava, uccideva e seminava terrore solo per “fare soldi”. “(…) Come la pensi Spinosa” -continua Travaglio- “lo si intuisce chiaramente nel libro: i delitti della Uno bianca sono uno dei primi atti della strategia terroristica e destabilizzante che la mafia scatena contro lo Stato, da cui -dopo decenni di pacifica convivenza- si sente tradita a causa del maxiprocesso a Cosa Nostra, quello istruito a Palermo dal 1984 dal pool di Falcone e Borsellino, iniziato in aula bunker il 10 febbraio 1986 e concluso in primo grado il 16 dicembre 1987 sulla scorta delle rivelazioni dei primi pentiti: Tommaso Buscetta, Totuccio Contorno e Antonio Calderone (…)”.                              

E così, a leggere le oltre 400 pagine, si rimane a dir poco sbalorditi tra una Prima parte che Spinosa dedica alla sua missione di attribuire una senso ad “una storia senza senso”; una Seconda nella quale la “lunga scia di sangue” viene ricostruita con dovizia di particolari -le rapine ai caselli, gli assalti alle Coop, il drammatico eccidio del Pilastro, le rapine in banca- ed una Terza in cui “L’Italia della Uno bianca” viene rappresentata in tutta la sua drammaticità: irrisolta.
Giovanni Spinosa lo afferma a chiare lettere: “(…) la Uno bianca, dunque, non fu una banda di rapinatori che ogni tanto ( a dire il vero, quasi sempre) deviava dalla sua essenza. Non fu neanche un gruppo terroristico in senso classico. Innanzitutto, perché i terroristi non fanno anonime rapine ai caselli autostradali per pochi spiccioli. E poi, perché il terrorista depista, ma non preordina le prove a carico di sé stesso. La Uno bianca fu un fenomeno complesso nel quale sono entrate a far parte varie componenti, con un tema di fondo: la sfida allo Stato. In tal senso, l’efferatezza dei delitti si coniugava con l’ostentazione della matrice criminale. L’inafferrabilità degli assassini aveva il sapore della beffa. I processi in corso non erano in grado di fermare la scia di sangue. Non erano in grado di vincere la sfida. Tutto ciò ha creato incertezza, destabilizzazione e discredito delle istituzioni. Un senso di disagio permanente in un’intera comunità (…)”. E’ non è un caso che Spinosa parli di vera e propria “sfida allo Stato”  perché “(…) la Uno bianca è un atto di guerra contro la credibilità dello Stato e delle sue istituzioni e non contro le singole persone (“Ti devo sparare…”) che però vengono sacrificate come inutili pedine. Il momento finale di questa guerra è stato la disarticolazione dei processi in corso e la bufera sulle istituzioni che quei processi avevano istruito. La Uno bianca, a questo punto, esce di scena. Ha seminato morte, terrore, discredito, un senso d’impotenza circa le istituzioni giudiziarie. Per tutto questo pagano un “ragioniere”, un “fantasista” e un “rintronato”, con il saltuario apporto di qualche “poliziotto di complemento” (…)”.
Sta tutto in queste amare constatazioni il dubbio che assale Spinosa che ora, a venticinque anni dal primo efferato omicidio, affida ad un corposo e drammatico volume non la convinzione personale, non il credo interiore, ma una realtà oggettiva su cui è tempo che venga fatta piena luce. Un sussulto della coscienza? Un moto d’animo di un Magistrato conosciuto per doti umane ed acuta preparazione giuridica? Forse questo e molto altro ancora, compresa la delusione dello smembramento di “(…)tutti i fascicoli, direttamente o indirettamente connessi con la Uno bianca, (…) assegnati ad altri sostituti. Andai a casa, ordinai le fotocopie di migliaia di atti su cui avevo studiato per anni e le misi in un ripostiglio nel quale sarebbero rimasti per i successivi 15 anni. Non mi sono più interessato della Uno bianca e ho anche evitato  di leggere libri o articoli e di vedere film o documentari sull’argomento (…)”.
Amava ripetere Fabio Savi che “dietro la Uno bianca c’è solo la targa”. Per Giovanni Spinosa, evidentemente, dietro quella targa non c’è stata solo una popolare utilitaria…            

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