Bompiani Overlook, Milano 2013, € 19.50
Attualizzando il pensiero dei Greci, il grande poeta e viaggiatore Goethe era convinto della necessità di vivere nel presente, di cogliere la felicità nell'istante attuale, di non perdersi nella nostalgia del passato o nel vagheggiamento del futuro. Pierre Hadot, professore emerito nel Collège de France e internazionalmente riconosciuto come uno dei più grandi specialisti di filosofia antica, nel suo ultimo “Ricordati di vivere. Goethe e la tradizione degli esercizi spirituali”, ha ripreso idealmente il cammino della sua fonte di ispirazione, sottolineando come il maestro tedesco si inserisse perfettamente nella tradizione della filosofia greca al punto da mettere in bocca al Faust che “Solo il presente è la nostra felicità”. Sembra ieri ma è pur sempre oggi.
Avrà sicuramente pescato a mani basse nel vasto repertorio della sua antica (e mai sopita…) passione giovanile Claudio Martelli, nel dare alle stampe il suo recente “Ricordati di vivere”: studente e poi assistente di Filosofia alla Statale di Milano (allievo di Mario Dal Pra), l’ex Ministro della Giustizia di uno dei periodi più drammatici della storia repubblicana, restituisce, ora, al lettore trenta e più anni di vita politica, di passioni giovanili, di amori tumultuosi, di scontri, di passioni divoranti. Anni vissuti intensamente consegnati al lettore del tutto spogliati di quella patina di stretta cronaca politica, per entrare appieno nella storia politica del nostro Paese. Mai disgiunti dalla vita personale. “Se mi decido a scrivere non è per rivendicare meriti e riscattare torti, non sono spinto da risentimenti e neppure da nostalgia, anche perché se guardo indietro, più di quel che abbiamo compiuto vedo quel che avremmo dovuto fare. Scrivo per sottoporre la mia esistenza a un esame, anzi a una prova del fuoco, che mi consenta di distinguere il bene dal male in tutto ciò che ho fatto, pubblico o privato che sia;per raccontare alla folla dispersa e viva delle compagne e dei compagni la storia che hanno vissuto;per ricordare gli amici scoparsi, Bettino Craxi e Giovanni Falcone, che più di tutti impressero il profilo del loro coraggio su un’epoca e su di me, e per non dimenticare il destino di altri amici -Sergio Moroni, Gabriele Cagliari, Raul Gardini- che scelsero di morire perchè morire era la sola libertà che gli era rimasta”.
Cinquecentonovantaquattro pagine, suddivise in tre parti che raccolgono quarantadue capitoli: un’intensa ricostruzione personale, politica, storica, nelle quali il lettore non farà difficoltà a ritrovare l’Italia contemporanea vissuta lungo tre decenni assolutamente vitali della nostra storia: quelli della grande speranza nella ricostruzione post-bellica e nel nostro ritorno sulla scena internazionale;ma anche quelli di movimenti giovanili, culturali, politici che non raramente sfociarono in bande armate, scontri di piazza, terrorismo… E poi, soprattutto, la grande stagione del Partito Socialista: un arco temporale vissuto dal giovane Martelli con la forza irrefrenabile dei trenta e quarant’anni, lui da tutti indicato come il “delfino” del carismatico leader del “garofano rosso”, tra nuovo ordine politico, rapporti con la Democrazia Cristiana, rotture con il Pci;e poi la “Milano da bere”, il potere elettorale, l’elezione a deputato ad appena ventisei anni, l’elezione a Vicepresidente del Consiglio, la nomina a Ministro di Grazia e Giustizia tra il 1991 ed il 1993. Vale a dire, in quel biennio assolutamente drammatico per le vicende che si verificarono. Ed ancora, il rapporto con Giovanni Falcone che chiamerà a dirigere la Direzione Generale degli Affari Penali, e la drammatica estate del ’92, con le bombe di Capaci e Via D’Amelio;sino agli albori di quella “tangentopoli” che spazzerà via il suo Psi, che era stato chiamato a guidare nel momento più basso della sua storia centenaria: vicenda per la quale riporterà, certo, anche una condanna, ma nulla se rapportata alle vicende giudiziarie di altri illustri protagonisti di quel periodo. Insomma: pagine che contengono innumerevoli spunti di riflessione, di rivisitazione storica, di chiavi di lettura utili per tentare un bilancio non solo di una vita personale, intima ed oggi non più segreta, ma di una parte importante della nostra stessa storia repubblicana.
Settant’anni appena compiuti, Claudio Martelli parte da lontano, con una prima parte ambientata nei “(…) favolosi anni sessanta e in una Milano così aperta, laboriosa, cantabile da sembrare quasi Londra (…)”. Una storia che “(…) comincia in un liceo middle class senza né ricchi né poveri, con professori veri, cioè esigenti, e allievi inquieti eppure ancora disciplinati;comincia con gli amici, le ragazze, la musica e uno stare insieme che cercava le sue bandiere nell’attualità rinnovatrice, irriverente, ma anche negli esempi dei nostri grandi e in quelli internazionali, nelle tradizioni, nei libri, nei film, a teatro, dentro una società appena secolarizzata e una politica molto ideologizzata. Comincia nelle esperienze delle associazioni studentesche e delle federazioni giovanili dei partiti, prima la repubblicana poi la socialista (…)”.
Ci sono, evidentemente, tutti i segnali di una società italiana in piena evoluzione che, uscita dalla guerra appena diciotto anni prima, inizia a fare a gara per ricostruirsi, riorganizzarsi, riallinearsi alle democrazie occidentali: lasciando però del tutto incompiute le grandi fratture del passato. In questo clima maturano quelle passioni che avrebbero segnato una vita intera: passioni che Martelli scandisce in ordine secco: “(…) le idee, la politica, la storia (…)”. A questa triade, aggiunge -e non poteva essere altrimenti, visto l’ambiente molto londinese…- l’amore, come innamoramento, come afflato sessuale, come costante ricerca della donna a co-protagonista della vita. “(…) L’amore di cui parlo -sottolinea- è eros ma non solo, è amore di quel che ci manca e senza il quale non possiamo stare;è anelito a una donna, desiderio di comunione e di fusione, voluttà ma dello scambio totale, continuo, tra pari. Questo amore, simile e diverso dalla passione politica, è, anch’esso, tendere, ambire, anelare senza pace (…)”.
Politica, soprattutto, come passione irrefrenabile, come vicenda da leggere assolutamente unita a quella umana che Claudio Martelli rivendica di avere avuto già abbastanza chiara a vent’anni appena, negli anni degli studi universitari e poi, di lì a poco, in quel laboratorio che aveva un indirizzo ben noto nella Milano del tempo: Piazza Duomo, 19. “(…) In che cosa consistevano quel progetto e, prima, quel sogno giovanile? Nell’unire laici e socialisti e nell’incalzare senza tregua i comunisti italiani per separarli dai misfatti del comunismo sovietico e conquistarli all’occidente, alle regole della democrazia liberale e dell’economia di mercato, e, dunque, al socialismo democratico. Nell’impostazione era evidente tanto l’eredità azionista di Ugo La Malfa quanto la folgorante apertura di Giorgio Amendola, disposto a rinunciare persino al “nome comunista” per favorire l’unità della sinistra italiana. (…)”
Ma torniamo a quell’indirizzo milanese. “(…) Aveva trentatré anni, ma sembrava avesse già vissuto una vita intera. Lavorava sempre, infaticabile, discutendo, argomentando, intimando, sempre, ovunque si trovasse, ben oltre le sterminate e multiformi riunioni politiche. Burbero e gioviale, sospettoso e ottimista, leggeva allo stesso modo, con la stessa intelligenza lucida, acuta, pragmatica, i grandi disegni e le trame miserabili (…) Cominciammo a frequentarci e, finite le riunioni di partito, sempre più spesso mi tratteneva a pranzo, a cena (….). Con Lucio dalla, e Ornella Vanoni, con Piero Sugar e Caterina Caselli, Massimo Pini, Margherita Boniver, Andrea Cascella, Mimmo Rotella, a casa di Bettino era già “Milano da bere” (…)”.
Nella seconda parte, il tema più strettamente e marcatamente politico s’impadronisce della penna dell’autore che descrive la sua lunga amicizia, partitica e personale, con Bettino Craxi, politico di razza, mentore della prima ora, leader incontrastato del Partito socialista italiano, statista e figura di primissimo piano del socialismo internazionale. Ed i ricordi si perdono: dalla politica internazionale con le “(…) responsabilità della sinistra nel collasso della democrazia cilena che aprì la strada al golpe di Pinochet (…)”, a quella più spiccatamente nostrana, con i tanti episodi narrati. Craxi e Pertini, Craxi e la Dc, Craxi e Aldo Moro, Craxi e Marco Pannella, Craxi e Berlinguer. Per intenderci, gli anni ’70 e gli anni ’80 riletti non solo seguendo il corso storico di quegli accadimenti, spesso sospesi tra realismo e drammaticità -come nel caso del sequestro, della prigionia e dell’uccisione del leader democristiano- quanto anche iniettando episodi del tutto singolari, spesso inediti, interni alla vita di partito: “(…)” Confusione, calcoli, e aberrazioni partivano tutti dall’assunto che in pericolo, innanzitutto, fosse lo Stato e non la vita di Aldo Moro. Noi partivamo dall’assunto opposto: che in pericolo di vita fosse Aldo Moro e non lo Stato italiano. Dunque, per noi, nel conflitto tra lo Stato e i terroristi, Moro non doveva essere sacrificato -al contrario, tutto doveva essere tentato per salvarlo. Per riuscirci bisognava innanzitutto guadagnare tempo (…)”.
Non lesina riflessioni Martelli: e non si tratta certo di analisi approssimate e superficiali, soprattutto in considerazione del fatto che l’essersi trovato, in quel 1992, a svolgere la funzione di Ministro della Giustizia e di Vicepresidente del Consiglio fa di lui non solo un semplice testimone di un anno centrale della storia contemporanea italiana, quanto di un protagonista di primissimo piano di quello scenario istituzionale assolutamente instabile. Prima tangentopoli, poi l’orrenda fine dell’amico Giovanni Falcone, infine la dissoluzione del Partito socialista, caduto assieme agli illustri compagni di sventura sotto la mannaia delle inchieste giudiziarie: episodi troppo forti da poter metabolizzare in dodici mesi. Anzi, nel corso di un’estate appena, al cui interno “(…) si consuma una lunga esperienza democratica -la prima della nostra storia, si brucia la credibilità di un sistema e di un ceto, politico, crolla la fiducia degli italiani nei partiti che avevano governato il paese per quasi cinquanta’anni (…)”. Così come si consuma -perché terminata con la morte fisica… la bella e fraterna amicizia con il giudice Falcone al quale Martelli chiese “(…) di venire a Roma a lavorare al ministero come direttore degli affari penali (…) Giovanni Falcone aveva avuto la forza, la volontà, il coraggio e, soprattutto, l’intelligenza di interrompere la convivenza tra stato e mafia, una convivenza fondata sulla paura e sugli interessi di imprenditori, magistrati, politici, poliziotti, gente comune, per metà vittime, per metà collusi (…)”. Tutti sappiamo come sia andata a finire, ventuno anni e qualche mese dopo la stagione delle stragi e delle bombe…
Un Martelli nostalgico accompagna il lettore lungo il quarantaduesimo ed ultimo capitolo: gli interrogativi -molti già nel corso delle precedenti pagine- si fanno incalzanti, asfissianti, evidentemente nostalgici. Uno sguardo ad un passato lungo trent’anni, nel quale politica ed istituzioni, sentimenti ed affetti si fondono in un vortice dal quale nè l’autore né gli altri protagonisti sembrano rimanerne fuori. Come la prima di quelle domande, una sorta di domanda retorica con la quale Martelli chiede e si chiede “(…) cosa sarebbe cambiato se Craxi ed io non avessimo rotto, se avessimo lottato insieme fino alla fine. Avremmo salvato il Psi e la repubblica o non sarebbe cambiato niente? (…)”. Per i protagonisti di quegli anni, riletti oggi dopo cinquecentonovantaquattro densissime pagine che contribuiscono a disvelare una patina di ignoranza costruita anche a seguito di una lettura troppo monocorde di quel periodo, non è facile ritornare a quel passato: lo è sicuramente più per i testimoni di quel periodo, oggi più facilmente accessibile, grazie alla lettura che i primi -i protagonisti, appunto- ne danno. Solo così riemergono sentimenti ed affetti così strettamente personali, da essere rimasti per lungo tempo muti spettatori di quegli anni;solo così si possono rileggere decenni non destinati alla fredda analisi storiografica;solo così si comprende il senso di un impegno totalizzante, pagato anche a suon di indagini giudiziarie;solo così si comprende il senso di quel “primum vivere” rimasto sin troppo inascoltato. “(…) Ben prima che lo pronunciasse in pubblico, quel suo “primum vivere” risvegliò qualcosa che sonnecchiava dentro di me: risveglio quel “ricordati di vivere” che avevo letto e catturato nel mio Goethe e, che, forse, senza il nostro incontro avrebbe preso altre strade (…)”. Anche cinquant’anni dopo!