Mondadori, Milano 2013, pp.292, € 19.00 (Published by arrangement with Delia Agenzia Letteraria 2013)
Non poteva essere pubblicato in un periodo più felice della contemporanea storia d’Italia. E così, il lungo saggio storico, politico, economico –forse anche sentimentale…- di Vittorio Feltri e Gennaro Sangiuliano sta risentendo della congiuntura politica più che favorevole per il successo editoriale che sta riscuotendo. Ma non solo, evidentemente. I due autori hanno colto nel segno, sfruttando al meglio le rispettive e più congeniali qualità professionali per dare alle stampe 292 pagine fitte fitte di storia, aneddoti, colpi di scena, rivisitazioni, alchimie politiche: quelle che, tutte insieme hanno scandito i suoi ultimi settant’anni di storia. Di storia repubblicana, soprattutto.
Sostiene Feltri, nell’introduzione, che “L’Italia ha un peccato originale, un peccato al quale è facile attribuire un nome. Si chiama estremismo. Non abbiamo dimenticato il fascismo. Se ancora oggi è viva la sensazione che il Paese non abbia una destra presentabile, compiuta, europea, per usare una parola abusata e vuota, una destra che non susciti paure e sospetti, è perché da noi la parola “destra” evoca tutt’ora il fascismo autoritario, il fascismo dei manganelli, degli stivaloni e dell’olio di ricino. Dunque, la violenza della parola conserva un forte connotato negativo. Se vai in giro e dici che sei di destra, inevitabilmente susciti l’idea di essere un fascista. Ti va un po’ meglio se vai in giro e dici che sei di sinistra, almeno passi per antifascista, e questo un po’ di assolve (…)”.
Vittorio Feltri è un giornalista di lungo corso, un cavallo di razza, di quelli in via d’estinzione: dagli esordi a “L’Eco di Bergamo” alle direzioni salvifiche del settimanale “L’Europeo” e del quotidiano “L’Indipendente”, dalla direzione de “Il Giornale” -con tanto di collezione di trentacinque querele dall’allora magistrato Antonio Di Pietro- alla fondazione e direzione, per nove anni, di “Libero”, al ritorno al quotidiano di Paolo Berlusconi ed ancora a “Libero”, sino all’attuale ruolo di editorialista ancora a “Il Giornale”, la parabola professionale e personale di questo bergamasco -che intreccia la sua vita proprio all’anno ( il 1943, dunque) da cui si dipanano le vicende del libro- rivela un’eccezionale tempra giornalistica, una forza d’urto con pochi termini di paragone nello scenario nazionale contemporaneo, una capacità di reggere gli urti non solo degli avversari quant’anche di molti compagni d’avventura. Alla sua ricostruzione è affidata la seconda parte del saggio, che Feltri compone a partire dal 1960, anno in cui l’Italia democristiana si divide tra i “cattocomunisti” di Dossetti ed i “cattolici liberali” di Fanfani. E da quella data, nel libro non sarà difficile incontrare il centro-sinistra al governo, gli anni delle stragi ed il golpe borghese, la parabola delle Brigate Rosse (per l’autore poco “rosse”), il mistero del caso-Calabresi, la convivenza all’interno di redazioni giornalistiche, la divisione tra il Nord moderno e avanzato ed il Sud, vecchio ed arcaico, Antonio Di Pietro e la sua rivoluzione giudiziaria, sino a quel “demonio” di Berlusconi.
Di diciannove anni più giovane, il partenopeo Gennaro Sangiuliano è un intellettuale a tutto tondo: da giornalista ha collaborato alle pagine di “Nord e Sud”, storica rivista fondata da Francesco Compagna, ha scritto per il “Giornale di Napoli” all’epoca della direzione di Lino Jannuzzi, è stato direttore del quotidiano napoletano “Roma”, ha scritto per “Il Foglio” di Giuliano Ferrara ed “Il Giornale”, fino all’incarico di vicedirettore di “Libero” proprio sotto la direzione di Feltri; attualmente ricopre la carica di vicedirettore del “Tg1”. Corposa anche l’attività accademica: studi di diritto a Napoli ed incarichi di docenza in economia alla Sapienza e di diritto alla Lumsa di Roma.
Dalla fase centrale della seconda guerra mondiale -il 1943- agli anni Sessanta, Sangiuliano è andato alla ricerca di trame ed intrighi politici mai sopiti che l’autore vuole far risalire direttamente al XIII secolo, rievocando addirittura il sesto canto del Purgatorio, l’incontro di Dante con Sordello da Goito, poeta in voga in quel secolo: risalirebbe così, secondo Sangiuliano, a quell’epoca “(…) il lamento sulle condizioni di un’Italia divisa, lacerata al suo interno da accese rivalità e particolarismi molto locali. Un’espressione di lucida attualità che riassumeva la condizione di un Italia “serva”, debole nel consesso geopolitico del tempo, per l’assenza di una tensione morale unitaria. Non si esagera nell’affermare che dopo sette secoli c’è ancora molta verità nel verso di Dante. L’Italia è una Repubblica senza patria. Molti secolo dopo, Giuseppe Prezzolini scriverà: “patria di tutti, non potè nel passato l’Italia, e non può oggi, essere la patria degli italiani”. L’affermazione, apparentemente perentoria, è purtroppo l’amara constatazione che nasce dalla realtà di vita quotidiana e da una storia dolente, segnata da quasi mezzo secolo di lacerazioni che hanno impedito di realizzare, secondo una formula assai abusata, un “Paese normale” “(…)”.
I tredici capitoli attraverso cui si dipana l’analisi di Sangiuliano, dopo un primo dedicato sostanzialmente all’analisi storica dei motivi per cui l’Italia pare abbia sempre subito divisioni, spaccature, contrasti interni -una sorta di guerra fratricida mai terminata, potremmo dire- trovano, in un susseguirsi di retorica, un luogo comune ancora difficile da scrollarsi di dosso, se è vero che la nostra Nazione “(…) per un lungo tempo era passata proprio di retorica in retorica: prima quella risorgimentale di marca crispina, che condusse al disastro di Adua, poi la marcata retorica fascista che condusse alla dittatura e a una rovinosa guerra, quindi quella della Resistenza, infine, una certa retorica della Costituzione, che hanno impedito spesso riforme e modernizzazione (…)”. Sino all’apice di questo rincorrersi di retorica, quell’ 8 settembre del 1943: data-simbolo, con una Nazione lasciata letteralmente allo sbando, incapace di provvedere a sé stessa, perché senza governo, senza istituzioni, senza l’idea stessa di patria raccolta in Stato. Le 182 pagine lasciate alla cura di Sangiuliano prendono spunto proprio da quella data, da quella “fuga e dissoluzione dello Stato” per proseguire attraverso un itinerario storico dettagliato che vede protagonisti il “compagno Ercoli” -al secolo Palmiro Togliatti- la città di Napoli come centro della riorganizzazione post-bellica, Roma come obiettivo successivo al termine del conflitto mondiale, la nascita dello Stato costituzionale, con quella Carta che, secondo i desiderata di Palmiro Togliatti, doveva riprendere addirittura “(…) il modello della Costituzione sovietica del 1936 nella parte concernente i rapporti economico-sociali. La prova è nelle carte (…)”. Si passa attraverso il boom economico, attraverso le posizioni di una nuova generazione di intellettuali liberali -Missiroli, Prezzolini, Longanesi, Pannunzio, Benedetti, Flaiano, Alvaro- uniti a criticare le “(…) insufficienze della nuova Italia repubblicana, soprattutto nel suo deficit liberale (…)”; si passa per l’analisi di Palmiro Togliati, il Migliore, all’indomani della morte di Stalin; si passa per la nascita del primo governo di centro-sinistra e per lo sguardo rivolto ad Oriente, Cina, in particolare; sino alla stagione della violenta contestazione del ’68 ed alla nascita del fenomeno terroristico.
Il taglio giornalistico di un autorevole direttore di lungo corso si coglie tutto nelle pagine che Vittorio Feltri dedica all’ultimo cinquantennio della storia repubblicana, nella quale l’assenza del concetto di patria emerge, come se non bastasse, ancora più drammaticamente: anche il titolo della parte affidata alla sua cura, “Dal 1960 ad oggi. L’Italia che ho visto”, rende l’idea di una partecipazione diretta, di una testimonianza di prima mano, a voler usare un termine caro ai processual-penalisti: dopo due capitoli di stampo storiografico (“Dossetti e Fanfani: cattocomunismi e cattolici liberali” e “Dal centrismo al centrosinistra: socialisti al governo”) Feltri si cala, nel terzo (“Le stragi e il golpe: fu vera strategia?”), in prima persona nell’arena dei ricordi: “La stagione delle stragi italiane si apre ufficialmente con piazza Fontana. All’epoca lavoravo alla “Notte” e ricordo nitidamente, di quel 12 dicembre, l’istante in cui arrivò in redazione la notizia, che fece un’enorme impressione. Direi anche qualcosa più che impressione, perché il terrorismo andava a colpire sanguinosamente un luogo pubblico e di alto impatto simbolico (…)”.
La nascita del fenomeno terroristico (“Le brigate poco “rosse”) e lo spartiacque rappresentato dall’omicidio del commissario Calabresi (“Il conformismo intellettuale: il caso Calabresi”), segnano momenti di una tensione crescente e montante non solo nei grandi centri urbani ed industriali, culla del fenomeno eversivo, quanto -a detta di Feltri- nella stessa opinione pubblica nazionale. Di questa brutta aria, il “nostro” se ne renderà conto ben presto, professionalmente e personalmente, soprattutto al momento di iniziare a scrivere per il più importante quotidiano nazionale: “la mia storia da giornalista del “Corriere della Sera” comincia nel 1974. Ci arrivo passando dal “Corriere d’Informazione”, allora diretto da Gino Palumbo, nei confronti del quale spenderò un solo aggettivo: un grande. Devo dire che al “Corriere della Sera” si respirava un’aria rossa, che già a quei tempi era piuttosto pesante. Per non usare mezze parole, dirò che il comitato di redazione era tenuto da comunisti (…)”. In quel clima politicizzato, secondo Feltri, maturò anche l’omicidio di Walter Tobagi che, senza mezzi termini, Feltri sosteneva che stesse “(…) sulle scatole a tanti. Era un socialista cattolico, e stava antipatico sia perché era bravo, sia perchè riusciva a spostare un po’ il tiro degli equilibri politici che si erano creati nel comitato (…)”.
Non manca il richiamo al fenomeno “Lega” (“Il Nord moderno, lo Stato vecchio: la risposta di Bossi”), del tutto sconosciuta alla vigilia del 1987, per divenire, già dalle elezioni del 1992, una macchina elettorale forte nel nord del Paese, della cui area impersonava bisogni, aspettative, problemi: e Feltri, da buon bergamasco, sapeva bene cosa significasse il malessere dei valligiani… Sempre Bergamo è il luogo d’incontro con un altro protagonista della vita pubblica italiana, prima dal versante della magistratura, poi da quello più squisitamente politico: “(…) C’e un primo incontro che lego alla sua figura, Di Pietro era tutt’altro che amato dai suoi colleghi in procura. Sinceramente, non ho mai capito bene perché. Probabilmente alcuni lo consideravano un po’ rozzo nella maniera di presentarsi e nei comportamenti, ma questa è soltanto una mia supposizione (…)”. E, ciliegina sulla torta, ci sono le pagine dedicate al “demonio Berlusconi”, che risalgono, come racconto storico, addirittura al 1973: “(…) Berlusconi mi stava antipatico ( …)”, esordisce netto Feltri a proposito della realizzazione del centro edilizio di Milano 2; “(…) E’ evidente che io considerassi questo Berlusconi un prepotente, pronto ogni volta a prendersi tutto e subito, con qualsiasi mezzo (…)”. Sino al faccia a faccia nel giorno di Ferragosto del 1994: “(…) Lui mi parla, stavolta in maniera decisamente più pratica. Dice di volermi contrattualizzare, di volermi come suo dipendente (…). Si continua a parlare, ma pian piano io comincio ad avvertire uno strano senso di caldo. Mentre lui mi offre contratti di qua e di là, io penso che qualcosa deve avermi fatto male. Quel senso di caldo presto diventa dolore, ho delle fitte al ventre laceranti, come se dei cani mi stessero mordendo lo stomaco (…). A un certo punto, preso dalla disperazione più cupa, mi decido a chiedere dov’è il bagno (…)”.
Tra cronaca politica, racconti personali, risvolti anche curiosi che riescono a scavare sin dentro le pieghe di una lotta politica che sembra essersi impadronita del nostro Paese, Vittorio Feltri e Gennaro Sangiuliano ci consegnano, così, un interessatissimo spaccato -nel senso più vero…- della storia contemporanea dell’Italia la cui “(…) immagine -chiosa Sangiuliano- è quella di un popolo a metà del guado del fiume, che ha abbandonato la vecchia sponda ma a cui le correnti impediscono di raggiungere la nuova. Resta sottotraccia, come un fiume carsico, la nostra patria (…)”.