Introduzione di Michele Ainis, Bompiani, Milano 2013, pp.465, € 22.00 (Published by arrangement with Marco Vigevani Agenzia Letteraria 2013)
Un ennesimo esaltante regalo per gli occhi. E per il cuore. Così potremmo apostrofare l’ultimo traguardo editoriale di Vittorio Sgarbi che grazie a 465 pagine che trasudano di immagini in presa diretta dall’arte italiana, regala ai propri lettori un nuovo tassello della sua infinita produzione letteraria. Partendo, soprattutto, da una Regione e proseguendo alla ricerca di quelle peculiarità che fanno della penisola italiana il centro nodale dell’arte e della cultura mondiale.
“E’ probabile che il tesoro d’Italia sia, più che altrove, in una regione: le Marche. Noi naturalmente lo inseguiremo ovunque e ne troveremo le tracce nei luoghi più conosciuti e consacrati: Firenze, Venezia, Roma, Napoli. Ma nelle Marche la scoperta si accompagna alla sorpresa. Le Marche sono plurali, misteriose, sfuggenti (…)”. Una lunga carrellata di luoghi, artisti, opere che fanno di questa terra un piccolo scrigno culturale unito ad eccellenze contemporanee nell’industria e nel terziario, alla quale Sgarbi è legato per essere stato prima consigliere comunale (1990) e poi Sindaco (1992) di Sanseverino Marche.
Ad introdurre l’opera, una figura professionale che a prima vista sembrerebbe avere poco in comune con il vulcanico professore: Michele Ainis, giurista messinese allievo di Temistocle Martines, attualmente Ordinario di Istituzioni di Diritto Pubblico all'Università degli Studi di Roma III. Un centinaio di saggi scientifici di diritto costituzionale, vari testi di cui è stato curatore, un codice, una ventina di libri su temi politici e costituzionali, come L’Assedio, pubblicato nel 2011 -un pamphlet in difesa della Costituzione della Repubblica Italiana che fa risalire la genesi dell’illegalità in Italia al rapporto che la politica ha con la Carta costituzionale- ed il romanzo Doppio riflesso, fanno del giurista non solo uno dei più apprezzati costituzionalisti, ma anche uno dei più seguiti opinionisti nello scenario contemporaneo italiano, complesso ed indecifrabile come non mai. Un giurista ed un esperto d’arte mondiale: qualcosa non torna? E no, tutto è al suo posto: perché proprio per attualizzare e rendere di stampo comune il difficile, delicato e mai chiarito rapporto che i cittadini italiani hanno con il “tesoro” di sgarbiana interpretazione, proprio Ainis mira al cuore della questione, che è -in fondo- il fine ultimo della stessa opera dell’autorevole critico d’arte: “(…) Le pagine di Sgarbi ci accompagnano perciò in un viaggio, in un’esplorazione. Ci raccontano una ricchezza della quale non sospettavamo l’esistenza (…). Sappiamo che l’Italia, con 49 siti riconosciuti dall’Unesco, alla data del 2013, è in testa alla classifica che misura il patrimonio culturale mondiale. Ma in realtà tutto il nostro territorio è punteggiato da tesori storici, artistici, paesistici. E noi ci camminiamo ogni giorno, per lo più senza sapere dove posiamo i piedi (…)”. Il giurista apre la strada ad una dovuta osservazione iniziale, tecnico-giuridica certamente, ma assolutamente imprescindibile per cogliere il perché dell’ennesimo impressionante ritardo -non sappiamo ancora se più gravemente “doloso” o più semplicemente “colposo”- con cui lo Stato italiano -il nostro Stato…- affronta la tematica della tutela, conservazione e valorizzazione del più importante giacimento culturale del mondo. E qui la domanda nasce spontanea, non solo ad Ainis, ovviamente: “(…) e lo Stato italiano, quanto ne sa delle bellezze italiane? Ha la capacità di riconoscerle, e quindi di farle conoscere? E qui si apre il primo fronte: la catalogazione dei beni culturali (…)”. Il costituzionalista ripercorre, per sommi capi, la storia della catalogazione dei beni culturali italiani, che dalla Venezia del 1773 arriva dritta al “codice Urbani”, dal nome del Ministro Giuliano Urbani che nel 2004 riassunse le linee-guida di una normativa ancor oggi del tutto incompiuta. In questo strumento giuridico, nota Ainis, “(…) la catalogazione precede ogni altra attività spesa per tutelare il patrimonio artistico. E a sua volta la tutela esprime il primo obbligo che la Costituzione assegna al nostro Stato;gli altri due si chiamano valorizzazione e promozione. Però se manca la tutela, se i cornicioni di Pompei ti cadono sulla testa, avrai ben poco da valorizzare. Dopo il crollo della Schola Armatorum, nel novembre del 2010, è divenuta l’emblema d’un fallimento nazionale. Tanto che tre anni dopo (29 giugno 2013) l’Unesco ci ha dato un ultimatum: o provvedete a un minimo di manutenzione, o la togliamo dai patrimoni dell’umanità (…)”. E a seguire una drammatica sequela di cifre, dati, anni di riferimento, comparazioni che danno il senso di una discesa inarrestabile che il nostro Paese sembra aver intrapreso, senza -all’apparenza- nessuna possibilità di risalita. Come nel caso della valorizzazione, il secondo pilastro evidenziato da Ainis, che significa, rispetto ai beni culturali, “(…) assicurarne la fruizione collettiva, renderli accessibili, lustrarli, esporli, raccontarli. Per quale ragione? Perché la cultura è strumento di riscatto, di emancipazione. Senza cultura siamo sudditi, non cittadini. E’ questo il mandato che i costituenti affidarono alle nostre istituzioni, scrivendo l’art. 9 della Carta. Ed è questa la ragione che rende ogni bene culturale -come diceva Massimo Severo Giannini- per definizione pubblico, ancorchè di proprietà privata (…)”. Ma qui siamo nell’alveo dei principi costituzionali, “il paradiso”: il problema nasce quando lo sguardo si sposta nei luoghi dove i beni culturali sono allocati, in quell’ “inferno del nostro vissuto quotidiano” come immaginificamente descrive ancora Ainis lo stato della materia. Ed anche qui la perenne emergenza, il ritardo accumulato rispetto agli altri partner mondiali, le cifre che parlano anche di un crollo verticale di interesse nazionale per lo stesso patrimonio: roba da non crederci! Nonostante gli sforzi di una legge, la c.d. “Ronchey” che tanta speranza ed aspettativa aveva suscitato al momento della sua entrata in vigore: proprio perché diretta alla promozione dei siti cultuali, musei in particolare. Terzo aspetto: “(…)” E sappiamo promuovere l’arte contemporanea, sappiamo offrire una vetrina agli artisti che s’affacciano alla ribalta nazionale? Sa farlo lo Stato? Anzi: deve occuparsene lo Stato? Qui si apre il terzo fronte delle nostre guerre perse: la promozione della cultura e dell’arte (…)”. E qui emerge tutta la forza del giurista di rango, nel prefigurare quasi lo scontro tra gli articoli 33 e 9 della stessa Carta costituzionale, con il primo -erede della miglior tradizione illuministica- a sancire la libertà di arte e scienza, anche se poi vittima di un dazio fortissimo per i retaggi del fascismo e di successive forme repressive in tema di censure, ed il secondo a prefigurare -al contrario- l’intervento dello Stato che, seppure in funzione di promozione dello sviluppo della cultura, alla fine sembra negare gli stessi principi liberali della prima norma citata. Insomma: tecnicismi giuridico-costituzionali che danno il senso di una difficoltà operativa che si riscontra sin dentro le norme costituzionali che proiettano una sin troppo lunga ombra sulla successiva fase. E non può sorprenderci Ainis quando chiosa affermando che “(…) la politica culturale, cacciata via dalla porta dell’art. 33, rientra dalla finestra dell’art. 9 (…)”.
Per non parlare del quadro normativo statale e regionale: qui, s’inverte tutto con l’approdo quasi scandaloso al “(…) primato della politica sull’arte (…)”. Amenità italiane che Ainis consegna alla sua introduzione, quasi a voler avvertire l’Autore delle successive pagine, per fortuna dense di arte e cultura, dei pericoli derivanti dalla nostra stessa macchina statale. C’è da rimanere sbalorditi! Ma preferiamo che a sbalordirci sia la collezione che Vittorio Sgarbi ci consegna a piene mani, con l’esempio che proviene dalle Marche: “(…)” Non è il solo modello, ma è il più integrale e rispettoso. Altri si propongono, con preziosi risultati. Penso a Montegridolfo, a Gargonza, a Figline, a Solomeo, a Montecalvoli con il Castello di Gallico, ad Altomonte, all’Amorosa, a Marsiliana. E sempre dietro c’è un uomo, una persona che incarna lo Stato meglio dello Stato: Daniele Kihlgren, Alberta Ferretti, Tommaso Corsi Guicciardini, Melissa Ulfane, Brunello Cucinelli, Simonpietro Salini, Costantino Belluscio, Carlo Citterio, Giorgiana Corsini. Uomini e luoghi, ma anche luoghi senza uomini e che la povertà ha preservato sottraendoli al progresso obbligatorio, allo sviluppo sostenibile, a rinnovamenti e ristrutturazioni (…)”.
Da questo momento in poi, l’opera è il trionfo dell’arte visiva, con spettacolari istantanee che riassumono, in fondo, il senso del titolo dell’opera, ovvero narrare la lunga avventura dell’arte italiana, a partire dalla scultura, se è vero che “L’uomo, sulla scena dell’arte moderna, riappare prima nella scultura che nella pittura. Cimabue e Giotto aprono una nuova strada nella pittura;ma molto tempo prima, nel duomo di Modena di Lanfranco, tra il 1099 ed il 1106, con un anticipo impressionante, Wiligelmo, nelle lastre sulla facciata che raccontano le storie di Adamo ed Eva, anziché parlare per concetti, per astrazioni, racconta la prima storia vera degli uomini, nei loro corpi, nella loro carne, nella felicità, nel dolore, nella sofferenza (…)”. E’ l’apparizione dell’uomo, simbolo e senso ultimo dell’umanità, che caratterizza le successive analisi esegetiche, le successive folgoranti immagini che queste pagine ci restituiscono, con Benedetto Antelami, con Nicola e Giovanni Pisano, con Marco Romano, con Tino di Camaino. L’uomo acquista forma.
La prima, vera esplosione di colori, Vittorio Sgarbi la rappresenta con le “tessere siciliane”, argomentando dal dato tecnico secondo cui “non sarebbe completo un discorso sull’arte medievale senza un riferimento al mosaico, soprattutto nei grandi esempi siciliani e romani. Si parte dal più antico, tra i moderni: il Cristo Pantocratore nell’abside del duomo di Cefalù (…)”. Per risalire l’Italia, passando per Anagni con il suoi “tre maestri” e giungendo a Roma, la cui “centralità” passa per Jacopo Torriti, Pietro Cavallini, per Sigilgaida Rufolo “(…) una delle donne più fascinose di tutti i tempi, in uno dei luoghi più belli del mondo: Ravello (…)”. Luoghi dell’arte: come Sant’Angelo in Formis, dalle parti di Capua, o Napoli dove Pietro Cavallini “pictor de Roma” si guadagnerà fama ed onori o la salernitana Eboli ad accogliere le creazioni spirituali di Roberto Oderisio. Si risale a Padova, in quell’incunabolo della pittura dove il maestro Giotto “(…) non procede per luoghi comuni, stabiliti da una lunga tradizione figurativa, quella bizantina, ma sembra osservare, immaginare, quello che la realtà dimostra (…)”: come riprenderanno Maso di Banco, il Maestro di Santa Cecilia, Bernardo Daddi: tutti attivi nell’ordinare e riadattare il linguaggio del grande maestro patavino. L’avventura, intanto, continua: siamo a Siena, dove Duccio di Buoninsegna si prefigge di essere il primo e il più grande, non l’ultimo, dei pittori bizantini;dove Simone Martini esegue la celebre Annunciazione;dove Pietro e Ambrogio Lorenzetti -quest’ultimo con i suoi “Effetti del buon governo”- sono i “(…) pittori della nuova generazione che devono cercare altre strade e uscire dalle mura di Siena per trovare nuovi stimoli a Firenze (…)”. O, nel caso dello sconosciuto Maestro di Badia isola, per Colle di Val D’Elsa. “Sarebbe più ingiusto che irriguardoso ignorare Cimabue, sul quale pesa il perfetto giudizio storico di Dante (…)”. Siamo ora a Bologna ad ammirare la sua “Maestà”, o “San Giorgio e la principessa” di Vitale da Bologna, o Jacopino di Francesco ed il suo “Polittico con la presentazione al Tempio e la Pietà”;per spingerci sino a Treviso con le “Storie di Sant’Orsola” di Tommaso da Modena. “Giovanni da Milano è un altro dei grandi artisti padani che correggono e trasformano la travolgente lezione giottesca (…)”: il suo “Polittico di ognissanti”, che si trova però agli Uffizi di Firenze, brilla perché interpreta le “(…) astratte forme in viva carne (…)”. Immagini celestiali e di trionfo religioso: come quelle che ci offre Giusto De’ Menabuoi tra Firenze, Milano e Padova;come le “Schiere di Angeli” di Guariento di Arpo, “pittore delle gerarchie”;come l’ ”Incoronazione della Vergine” del Maestro del Lignum Vitae di Sesto al Reghena. E nella repubblica marinara, cuore di uno dei più longevi potentati marinari? “A Venezia non accade niente, ma la pittura c’è e avanza impercettibilmente, rinunciando a quell’invenzione del nuovo di cui giunge l’eco dalla vicina Padova (…)”. Qui Paolo e Lorenzo veneziano, Nicoletto Semitecolo, Altichiero di Zevio, eccellono per grandi rappresentazioni, molte delle quali non alloggiano più nella città lagunare. Come qualche decina di chilometri più a sud, nella Romagna, Giovanni da Rimini ed il suo “San Giovanni a Patmos” o il “Crocifisso”, o Pietro da Rimini e la sua “Deposizione dalla Croce”, riprendono ed esaltano temi cari alla storia religiosa più importante per l’occidente cristiano.
“Firenze ritorna. Dopo tante esperienze osservate in ogni parte d’Italia, la geografia dell’arte ci riporta a in Toscana. Agnolo Gaddi assume Giotto come sole di un sistema che si diffonde in tutti i luoghi di culto (…)”. Nuovi protagonisti si affacciano sulla scena, con i temi cari a quella lunga tradizione di natività, adorazione dei magi, che impreziosiscono sino al parossismo i centri di culto della Toscana. Sarà così con Lorenzo Monaco e con Gentile da Fabriano. Ma la storia non cambia neanche a Venezia con Michele di Matteo, in Lombardia con il “gotico internazionale” di Michelino da Besozzo, le cui opere brillano nei più importanti centri museali di New York;o ancora con Giovannino de’ Grassi e Belbello da Pavia. Senza dimenticare la Ferrara tanto cara al nostro Autore, con il Maestro di Casa Minerbi. Firenze sembra capeggiare questa lunga avventura, all’alba di un nuovo secolo, con Filippo Brunelleschi, Lorenzo Ghiberti, Jacopo della Quercia, Francesco di Valdambrino, Simone da Colle, Nicolò di Luca Spinelli da Arezzo, Nicolò di Pietro Lamberti a guidare una pattuglia indirizzata ad un monumento topico della “capitale” toscana: “(…) Il battistero è luogo simbolico a Firenze e nelle sue porte si documentano tre importanti momenti dell’arte italiana nel’arco di più di un secolo (…)”. Sino alla rivoluzione che Donatello compie, mostrando un carattere realistico, differenziandosi in questo anche dal suo amico più anziano: “(…) il Cristo di Donatello è un uomo che soffre, il Cristo di Brunelleschi è Dio sulla Croce (…)”. Evoluzione e ricerca, ancora, nella Siena di Taddeo di Bartolo e -soprattutto- nella Firenze quattrocentesca che “(…) ha il volto di Masolino e di Masaccio (…)”. Sino a Paolo Uccello “(…) il più sperimentale tra gli artisti del suo tempo (…) che come osserva Vasari “non ebbe altro diletto che l’investigare cose di prospettiva difficili e impossibili” (…)”; sino a Domenico Veneziano, fiorentino di scuola, con la ricerca di un’ ”(…) armonia fra spazio e figure (…)”.
Storie di campanili -nel senso di strenua competizione cittadina…- come quella che si verificò “(…) nel Quattrocento tra gli innovatori fiorentini e gli originali conservatori senesi (…)”, tra cui spiccava Sassetta;o il Maestro dell’Osservanza, “(…) non un nome di comodo per individuare un’artista in una fase felice e non ancora ben definita, bensì un pittore autonomo (…)”, o ancora Giovanni di Paolo, “(…) certo il più prolifico degli artisti senesi del Quattrocento (…)”.
E poi i “riflessi veneti”, quelli di cui si ammantò la pittura italiana alla metà del 1400, con Andrea del Castagno che porta la rivoluzione fiorentina nel cuore di Venezia;come Stefano di Zevio e la sua celebre “Adorazione dei Magi” custodita nella Pinacoteca di Brera a Milano;come il Pisanello che, per Vittorio Sgarbi, è niente più niente meno che “la perfezione”, soprattutto con quel “San Giorgio e la principessa” “(…) straordinario affresco (…) che segna l’armistizio e la conciliazione tra mondo gotico e mondo rinascimentale (…)”. Riflessi che continuano con Michele Giambono, Antonio da Negroponte, Antonio Vivarini, Carlo Crivelli.
Una lunga cavalcata nel cuore del Rinascimento italiano che porta gioia, colore, speranza al centro esatto dei sensi umani, cui non rimane altro che rimanere incantati da tanto splendore: rimane pur sempre latente -e questo Sgarbi lo sa bene…- un’Italia distinta e distante da tanto splendore per ragioni ataviche che noi tutti conosciamo e che magistralmente Michele Ainis ha evidenziato nella sua introduzione. Ma non c’è da scoraggiarsi, perchè -come ricorda ancora il critico- “(…) c’è un’Italia protetta e remota a Morano Calabro, a Vairano, a Rocca Cilento, a Vatolla, a Giungano, a Torchiara, a Perdifumo, vicino a Santa Maria di Castellabate e all’isola di Licosa, incontaminati presidi del Cilento (…)” . In quel Mezzogiorno, cioè, calabro-campano che, pur lontano dai fasti geopolitici del Rinascimento italiano, merita l’attenzione, l’amore, la cura di tutti. Soprattutto!