Sommario: 1. Informazione ed opinione pubblica. – 2. Informazione e decisioni politiche – 3. Informazione e potere politico.
1. È noto a tutti come il regime politico su cui la democrazia si fonda sia stato fortemente sviluppato dall’espressione del pensiero nelle sue varie manifestazioni, prima la libertà di stampa, oggi le varie tecniche comunicative che si esprimono attraverso mass-media sempre più sofisticati e globali.
Ma vi è anche chi addita proprio a questi strumenti comunicativi una sorta di crisi, se non addirittura di “morte della democrazia”.
E tale paradosso venne denunciato già trent’anni fa da Jurgen Habermas che «in una ricerca particolarmente lucida, dimostra come la libertà si sia affermata con il controllo borghese della politica tramite l’informazione, ma come tutto sia entrato in crisi quando i governanti o i gruppi di potere si sono impossessati di questi strumenti per persuadere i cittadini sulla validità delle proprie scelte».
Non si sbagliava il filosofo della Scuola di Francoforte, quando sosteneva a chiare lettere che «la sfera politica diventa la corte al cui pubblico si dispiega il prestigio e non è più, invece, il luogo in cui si manifesta la critica».
Ecco lo scenario di oggi: viviamo in un regime democratico e questo va mantenuto anche con l’aiuto dei mezzi di comunicazione, o se ne può fare tranquillamente a meno?
Insomma «la democrazia va perseguita “con” oppure “nonostante” i mass-media?».
Sono lontani i tempi delle c.d. “democrazie popolari”, della “teoria del capo”, quando l’uomo-simbolo era l’espressione del potere costituito e tutto il sistema ruotava intorno a quella figura carismatica: oggi partecipazione popolare e forme di rappresentanza sono la vera essenza di ogni sistema democraticamente fondato.
Ma occorre anche un sistema di «informazione quotidiana sugli avvenimenti importanti e decisivi (tramite cui) il popolo può partecipare, dibattere i problemi, esprimere il proprio parere e assumere responsabilità dopo eventuali scelte politiche».
Questo tipo di approccio al problema della rappresentanza e al suo rapporto con l’informazione è visto dal punto di vista dinamico: da questo versante, compito della rappresentanza politica è dar corpo alle continue espressioni della società civile tramite la partecipazione pubblica.
Se non si vuole incorrere nel pericolo dell’indifferenza e della strumentalizzazione del consenso, assistendo al pericoloso agire di vere e proprie lobbies dell’informazione che tendono ad escludere i cittadini dalla vita reale di una comunità, si deve imboccare la via «di una informazione intesa come “servizio pubblico”, anche se svolto da privati, capace di suscitare dibattiti collettivi sui veri problemi e di canalizzare la diversità di opinioni in un confronto democratico, favorendo il formarsi di autentiche correnti di “opinione pubblica”».
Su quest’ultimo termine, da sempre il dibattito è acceso, soprattutto in considerazione del fatto che «non si è ancora pervenuti ad una definizione generalmente accettata, anche perché questo concetto viene usato da diverse discipline, come la storia istituzionale, la storia del pensiero politico, la storia politica, le scienze sociali».
Comunque, almeno dal versante che stiamo analizzando, accettiamo il concetto di opinione pubblica come «risultanza di una serie di credenze e di impatti di fronte all’attualità, vissuti in forma dinamica da un gruppo di persone, come processo psico-sociale.»
Il concetto, come noto, si basa sulla giustapposizione del sostantivo “opinione”, che in tutta la storia della filosofia «resta una semplice credenza o un convincimento soggettivo che non ha alcuna prova della propria validità e quindi non è vincolante».
Quasi «una contrapposizione netta fra opinione e verità», all’aggettivo “pubblica”.
Anzi, proprio quest’aggettivo la caratterizza in maniera chiara sia nel momento della formazione, «nel senso che è un’opinione non individuale, ma che nasce attraverso un processo di comunicazione intersoggettiva, e cioè un dibattito che porta a un comune convincimento», sia dal versante del suo oggetto che è la vita politica, quella pubblica, e non la sfera privata.
Un altro aspetto non marginale da ricordare risiede nel fatto che questo concetto si indirizza ad esprimere meri giudizi di valore, di stampo morale o politico, facilmente influenzabili da ideali di pari tenore ma soprattutto «dalle emozioni e dalle passioni» (Matteucci).
Ecco il motivo per cui l’opinione pubblica anche se sviluppata all’interno di una dinamica discorsiva, «conserva sempre la sua opinabilità: ciò significa che è sempre possibile dissentire (da essa), che essa può cangiare, che vi possono essere opinioni pubbliche diverse, in ambiti diversi o in contrasto nello stesso ambito».
È chiaro, infatti, che il concetto che qui stiamo analizzando è il prodotto di una soggettività comune che mai è l’espressione della verità, mai è dotata di quella rilevanza ed autorevolezza di cui si connota invece l’opinione degli esperti, la celebre “communis opinio doctorum” che invece ha storicamente rappresentato per secoli, dal versante giuridico, il parere dei dotti, dei “giuresprudentes” che -con la loro autorità- imprimevano ai propri pareri il ruolo di valore scientifico autorevole.
Ben diverso è il quadro del dibattito che oggi ci troviamo ad affrontare: «nel Novecento» - (ed a maggior ragione in questi anni di inizio di terzo millennio!) - «l’opinione pubblica da valore politico, capace di garantire un governo basato sul consenso, è divenuta oggetto di analisi e di concrete ricerche empiriche con la demossologia (…), il sondaggio statistico (…), il campione che rappresenta, appunto, il microcosmo dell’opinione pubblica».
Da questa nuova prospettiva è possibile cogliere perfettamente il senso di un profondo cambiamento che è in atto non solo nelle democrazie occidentali, come fenomeno geopolitico, ma soprattutto nell’ambito della stessa nozione di democrazia,
come fenomeno istituzionale, semiotico, sociologico: così anche «il problema della democrazia ritorna allora al tipo di informazione esistente in un paese e, in senso più ampio, alla cultura che in esso viene promossa;alla libertà dentro la quale si maturano i processi di opinione pubblica;alla disponibilità delle rappresentanze politiche di sentirsi incaricate di un servizio pubblico, rinunciando alla tentazione di esercitare un potere personale o di gruppo».
2. Entriamo, a questo punto, in un delicato ambito discorsivo, nel quale si sviluppa la relazione -spesso pericolosa- fra la genesi formativa dell’opinione pubblica e quella delle decisioni politiche: l’ambito che ci occorre per osservare non soltanto «chi esprime un’opinione, a chi, attraverso quali canali e con quali effetti».
Ma soprattutto per «vedere quanto i sondaggi dell’opinione pubblica servano per essere informati e quanto servano per la propaganda».
È tutto qui il nocciolo del problema, il centro focale del dibattito che, espresso in chiari termini di politica della comunicazione, abbraccia tutti i versanti che sono oggetto di questa riflessione: se partiamo dall’idea che nei sistemi democratici, l’opinione pubblica svolga il compito di influenzare la compagine governativa, chi ci assicura che non si verifichi il contrario: cioè «non è detto che la classe politica non cerchi, a sua volta, di influenzare l’opinione pubblica, proprio svolgendo un compito che le è specifico, quello di organizzare il consenso».
Questo tipo di pericolosa influenza è resa possibile con abili manipolazioni delle immagini, dei concetti, dei simboli, della pubblicità: insomma, una sorta di “guerra psicologica”.
Non è allora difficile assistere, oggi nella società, ad un degrado del sistema informativo, sia per la prevalenza egemone della televisione, e in genere della comunicazione mass-mediale, sia per un’inadeguata crescita di altre forme comunicative essenziali alla vita umana.
Questo passaggio è diretto a sottolineare come il processo comunicativo coinvolga l’uomo in tutte le sue dimensioni, ponendolo in relazione con altri simili attraverso una capillare e pressoché illimitata serie di comunicazioni: i processi comunicativi seguono canali istituzionalizzati, cioè la “cultura organizzata” e il progresso tecnologico avvia una nuova stagione di comunicazioni diffuse, definite ampiamente “comunicazioni di massa”.
In questo tempo non è difficile così constatare non solo il rischio di fenomeni manipolativi dell’informazione, con tutti i rischi che ne conseguono: assistiamo, soprattutto, ad una crisi dell’opinione pubblica che «rischia di scomparire fra un pubblico composto da una massa informe e indifferente, semplice oggetto di pubblicità e gruppi primari ed organizzazioni formali, i quali soltanto sono in grado di trasmettere i loro messaggi».
E come già in parte anticipato, Jurgen Habermas, autore tra i più rigorosi e creativi della celebre “Scuola di Francoforte”, aveva individuato nella scomparsa dell’elemento di critica -che invece ne aveva favorito la genesi- il segno rivelatore della crisi dell’opinione pubblica;crisi dovuta a due fattori chiave, e cioè il passaggio da una società borghese costituita di colti (i doctores!) ad una società di massa, unitamente all’estinzione di quello spazio autonomo -quasi privato- al cui interno i cittadini creavano l’opinione pubblica;estinzione provocata dal sempre maggior ingresso dello Stato nella vita della società civile.
Così, «l’ambito statalizzato della società e quello socializzato dello Stato si compenetrano senza la mediazione dei privati impegnati nel dibattito politico e il pubblico è largamente esonerato da questo compito per mezzo di altre istituzioni».
Ma i cittadini di una moderna democrazia non possono correre il rischio di perdere uno strumento di tale forza espressiva, perché se ciò accadesse significherebbe perdere parte di se stessi: allora, «l’unica possibilità di ristabilire l’opinione pubblica è non più la vecchia e liberale astensione dello Stato nei confronti della società civile, il suo non impedire ai cittadini la concreta attuazione dei loro diritti di associazione, di riunione, di espressione del proprio pensiero tramite i mass-media, ma un nuovo intervento attivo dello Stato nell’organizzare attivamente la partecipazione dei cittadini a questa sfera pubblica e nel creare una possibilità di pubblicità critica all’interno delle organizzazioni».
Il rischio è forte, e se ad esso aggiungiamo lo squilibrio del sistema comunicativo, che si è trasformato nettamente con il passaggio da un’informazione-comunicazione intersoggettiva ad una mass-mediale dai potenti apparati globalizzanti, allora non sarà difficile rendersi conto il rischio che ogni singola persona corre all’interno del contemporaneo sistema dell’informazione.
Sembrerà strano, ma «nel vuoto comunicativo, i mass-media così diventano i nuovi strumenti di potere che orientano, in campo economico e politico, le scelte dei cittadini, divenuti ormai un popolo che ascolta anziché un popolo che partecipa».
Il rischio è duplice e per i destinatari e per coloro che producono informazione, visto che «siamo oggi arrivati all’assurdo di una informazione non coerente, che può orientare i cittadini in tempi successivi relativamente brevi verso giudizi divergenti fra loro: ritorna così, il problema di una democrazia senza partecipazione, o con una partecipazione manipolata». Anzi, è la stessa informazione ad essere manipolata, con il rischio seguente di una distorsione evidente del ruolo e della funzione dei mass-media all’interno di una democrazia moderna.
Quello che spesso viene a mancare è proprio il costante scambio dialogico tra i soggetti attori della società pluralistica, al cui interno difetta un’osmosi che sarebbe di sicuro giovamento per entrambe le parti.
La conseguenza è che la cultura come fenomeno di scambio sociale non esprime più la direzione storica di un popolo, quanto piuttosto «il prevalere di una soggettività che ingigantisce la libertà individuale e insieme è vittima dell’emotività».
Il rischio è rappresentato dal c. d. “soggettivismo culturale”, che si manifesta con fenomeni descritti come “cultura dei frammenti”, espressione delle «molte appartenenze dell’incoerenza», diretta a manifestare quasi esclusivamente il pensiero e la comunicazione del singolo attore, del suo mondo, della sua personale esperienza di vita.
Anzi molti ricercatori si muovono, in tal senso, alla scoperta di una comunicazione ed informazione planetaria che, al meglio, esprima l’idea del c. d. “villaggio globale”, nel quale «il senso della nostra epoca va verso la parte dell’uomo nomade, che va di terra in terra, piuttosto che verso la parte del custode e difensore geloso dei confini territoriali e culturali della propria nazionalità».
3. Ecco il richiamo per noi fondamentale: “potere della comunicazione!”
Possiamo definirlo come il risultato di una vicenda figlia del nostro tempo, allorquando noi tutti siamo diventati consapevoli del fatto che comunicare ed informare significa comunque esercitare un potere sottile e al tempo stesso insostituibile: una vicenda allora «che nasce dal conflitto per il diritto o la libertà di comunicare e prende corpo nella lotta contro il monopolio autocratico della comunicazione, da qualsiasi agenzia o élite fosse detenuto».
Lo scenario che abbiamo innanzi è quanto mai stimolante: la comunicazione, come diritto e libertà, si afferma in un’ottica che giustamente definita “antipaternalistica” (Veca), trova nell’età contemporanea il sicuro terreno per crescere e svilupparsi;antipaternalistica, proprio perché questo diritto/libertà si è storicamente sviluppato laddove le condizioni di libertà lo hanno permesso, laddove si sia verificata una riprova «tanto nota quanto elementare: non c’è (stata) élite autocratica che non (abbia investito) investa risorse in primo luogo per monopolizzare l’esercizio del “comunicare in pubblico”».
Nulla di strano, allora, se oggi, a torto o a ragione, questa “libertà” di comunicare pienamente intesa come un’ “irrinunciabile” prospettiva vitale, (quasi bisogno irrefrenabile) si sia convertita in un “potere”, con la conseguenza, tanto cara agli studiosi del pensiero liberale, che, come ogni altro potere, questa a maggior ragione, necessita di limiti e controlli, «per dare piena e coerente giustificazione del fatto che i diritti dei cittadini non possono essere mai violati dal potere politico, il quale ha da essere un potere limitato, fondato sul consenso e sulla fiducia dei cittadini medesimi».
Passiamo, insomma, da un diritto, da una libertà, ad un potere dotato di tutte le caratteristiche per imporsi nel vasto scenario pubblico del settore che stiamo analizzando in queste pagine, con la conseguenza gravida di effetti molteplici che «il diritto d’informare altri in pubblico diviene, così, potere di informare e di comunicare, rendendo inevitabile la questione degli usi del potere mediatico rispondenti al diritto di essere informati per cittadini nell’era del “villaggio globale”».
Come ogni potere anche quello mediatico reca con sé pericoli non sempre facilmente evidenziabili con la conseguenza che «le enormi possibilità sociali e culturali dei mass-media rimangono, anche se si ingigantiscono insieme pericoli possibili, nel caso essi siano abbandonati all’uso indiscriminato dei vari potentati».
È il classico rischio del potere senza freni, senza controlli, che lasciato in balia di astuti ed avidi titolari, possa facilmente deviare dai binari lungo cui dovrebbe essere obbligato a muoversi.
In una parola, per dirla con Montesquieu, “occorre che il potere freni il potere”.
Nella storia del pensiero liberale chi ha dato vigore al problema appena evidenziato è stato sicuramente Von Hayek: nella sua lunga parabola di scienziato della politica, di autore incontrastato nello scenario liberale; il filosofo viennese ha inteso parlare di libertà «sia nel senso spirituale, intellettuale e culturale, (libertà di pensiero, di parola, di stampa), sia nel senso socio economico (libertà di azione) », evidentemente considerando la prima forza come l’espressione tipica dello spirito di ogni uomo della sua formazione interiore, personale e particolare.
E proprio su questo versante oggi siamo in grado di analizzare gli aspetti più tecnici, dal punto di vista della teoria generale, dell’annosa questione della libertà di manifestazione del pensiero: libertà che sempre più si incardina nei processi formativi nel tipo di sistema presente in una data realtà geografica.
Come non aderire alla tesi che vede l’informazione come una sorta di arma a doppio taglio ora a favore, ora contro i potenti di turno: in questo costante rapporto tra potere politico, informazione e mass-media, questi ultimi «non solo possono manipolare e orientare a breve termine le scelte democratiche;possono anche costruire a medio e lungo termine un tipo di uomo su propria misura, attraverso l’azione incisiva sulla cultura e sulle relazioni».
Ma allora è il potere politico che crea l’informazione oppure è quest’ultima che possiede la forza -non dico proprio per creare- per plasmare il primo a proprio piacimento?
Oggi tutto ruota intorno alla comunicazione, «(…)intendendo genericamente per “comunicazione” tanto un trasferimento di informazioni codificate (…) da un soggetto ad un altro, mediante processi bilaterali di emissione, trasmissione, ricezione, interpretazione; quando una relazione sociale nel corso della quale due o più soggetti arrivano a condividere particolari significati (…)».
E pur non volendo addentrarsi nel cuore dell’articolato problema, non possiamo non aderire alla tesi di chi «(…) vede il sistema sociale comunicativo caratterizzato dall’interazione di vari flussi comunicativi presenti in una società quali la comunicazione intersoggettiva (…), la comunicazione istituzionalizzata (…), la comunicazione mass-mediale (…)», tesi questa che sostiene come il processo comunicativo invada la vita umana in modo capillare, istituzionalizzando i processi culturali sino a quelli politici, ed in genere quelli detentori di ogni forma di potere organizzato.
Alla fine, si tratta sempre di un ricorrersi sul un campo minato rappresentato dall’agone politico, nel quale l’informazione ed il potere politico, senza mai superarsi, appaiono -oggi come non mai- attori di un gioco senza fine, del quale i cittadini appaiono -ancor’oggi più che mai- tristi e silenti spettatori…