Conosco Giampiero Mughini dal febbraio del 1992. Gli scrissi una timida lettera, che conservo tra i miei più gelosi ed orgogliosi cimeli epistolari, con l’intento di avviare con lui un dialogo su alcuni temi che mi stavano appassionando in quel periodo -la politica italiana, su tutti- oltre che -come negarlo…- su quella passione epidermica che ci accomuna, ovvero quella squadra di calcio contraddistinta da una divisa a strisce verticali bianco-nere che è entrata nella vita di molti appassionati di questo Paese. Tra amore e odio. Quando si cerca di contattare un personaggio della cultura, del giornalismo, della politica -insomma, qualcuno di famoso- si può facilmente correre il rischio che la tua bella comunicazione passi inosservata, persa nel dimenticatoio se non addirittura cestinata: con Giampiero Mughini ciò non accadde.
Da quella data l’amicizia si è cementata e le conversazioni irrobustite, grazie a numerose occasioni di incontro (Lauria 2001, Maratea, 2005 e 2015, Praia a Mare 2007, Scalea e San Giovanni in Fiore 2008), a recensioni, a conversazioni che prendono spunto dalle sue pubblicazioni: occasioni di dialogo con lo scrittore e l’intellettuale, il protagonista del dibattito televisivo. Ma soprattutto, con l’amico. Conversazioni affascinanti, con l’impegno culturale a fare da sfondo alla nostra vita quotidiana -“ah la tua Calabria, metà Inferno, metà Paradiso…”- alla cronaca, alle vicende politiche, alla bellezza femminile. Senza dimenticare uno sguardo al mondo del calcio.
Immancabile la mia telefonata in questi giorni: gli anticipo che ho appena iniziato a collaborare con il nuovo quotidiano che Paolo Guzzanti (“salutami Paolo, ti raccomando!”) dirige dallo scorso ottobre proprio in Calabria, a Cosenza: come non strappargli qualche riflessione su libri e letture, visto che l’argomento è da “passione divorante” e Mughini l’aveva già affrontato ne “La collezione” (Einaudi, 2009): “in quel libro riassunsi cento anni di storia culturale partendo da una malattia da cui non si guarisce ma cui si sopravvive: la bibliofollia!”. Sette anni dopo la domanda è sempre la stessa:
Soffri ancora di bibliofollia?
“Alludi certamente a “La stanza dei libri”! Vedi, provengo da una famiglia borghese impoverita che viveva in provincia, negli anni sessanta: avevo la possibilità di mettere letteralmente in piedi una stanza in cui i libri, poco alla volta, diventavano quasi la carta da parati, quasi facevano parte dell’arredo. Era una missione sacra! Da quel momento la crescita è stata esponenziale: ricordo la nuova casa di via Archimede, a Catania, con una stanzetta tutta per me, di cinque metri per due e mezzo; avevo un letto, una scrivania siciliana e c’era una parete con un leggero incavo che era perfettamente vuota e da quella parete è iniziata la mia biblioteca. Dopo due anni -eravamo nel 1962- era già colma…-; poi i soggiorni a Parigi, ancora Catania e la partenza per Roma, quel 5 gennaio del 1970, nella nuova casa di Via Trinità dei Pellegrini, dove i libri arrivarono ad occupare due stanze e mezza per intero. Sono arrivato nel 2001 che nelle due case attigue i libri non c’entravano più. Sino alla attuale residenza, occupata -durante il trasloco- da trecentosessanta scatoloni di libri. Che ci posso fare!?”
Ma non pensi di correre il rischio di isolarti, di vivere su una sorta di isola di carta fuori dal tempo e dallo spazio?
“Ne sono convinto e mi va bene. Pensa che non risulto iscritto a Facebook e non so neanche cosa sia, nonostante sia attivo un “profilo” aperto da chissà quale mascalzone che lo gestisce come se fossi io stesso a farlo. Per non parlare dell’espressione “amici” legata a questo mondo: trovo letteralmente indecente l’utilizzo di tale termine solo perché qualcuno ha cliccato un “mi piace” su questi sistemi elettronici a proposito di un tuo articolo, di un tuo intervento pubblico, di un’intervista. Da sempre mi comporto diversamente: se leggo qualcosa che mi piace ed eventualmente conosco il cellulare o la mail dell’autore, gli mando due righe per congratularmi. Giovanni Verga -dico Giovanni Verga!- o Italo Svevo, avranno venduto qualche centinaio di copie dei loro romanzi, tutte e due insieme. Oggi il primo minchione o la prima sciacquetta che passano e ripassano in televisione, vantano ciascuno centinaia di migliaia di followers. Pazzesco!”
Colpiscono, ancora, le “Pagine che grondano di sangue”, come le hai definite…
“Dici <<ancora>> perché riprendo, in un certo senso, il tema già affrontato ne “Il grande disordine. I nostri indimenticabili anni settanta” (Mondadori, 1998, nda): beh, quell’argomento ritorna. Quel libro, dedicato alla memoria di Giuseppe Pinelli e Luigi Calabresi -morti innocenti-, contribuiva a ricostruire la storia di un Paese spaccato a metà e in guerra. Così vicini e così lontani da quel che siamo oggi, gli anni Settanta sono stati, in Italia, anni drammatici ma anche di grande trasformazione della società e del costume. Dalla bomba di Piazza Fontana al rapimento e all’agonia di Aldo Moro, mai una società occidentale aveva sopportato un tale stillicidio quotidiano di attentati, di agguati a uomo, di omicidi dettati dall’odio politico. L’Italia si spaccò in due: se avevi addosso un eskimo rischiavi ti arrivassero addosso quelli di destra, se portavi le scarpe a punta potevano spararti quelli di sinistra. L’Italia si spaccò veramente in due! Ma una cosa sento di dirla: tutto quello che siamo oggi ha preso forma nei Settanta. Assolutamente. Assolutamente!”
Questo ultimo libro mantiene intatta la tua capacità di farceli vedere, più che immaginare quegli anni! “Oggi li ricordo da un versante più spiccatamente “editoriale”: ho ricostruito la stessa genesi di fogli, ciclostilati, riviste, libri che nacquero nei nostri Settanta. Simboli e sigle come “Brigate Rosse”: datato febbraio 1971, è il primo documento ufficiale di quel gruppo, pochi mesi dopo che Renato Curcio, Margherita Cagol e Alberto Franceschini avevano scelto quell’insegna. Un’insegna che giungeva il sostantivo “Brigata” -proprio dei reparti combattenti della guerra partigiana del 1943/‘45- con l’aggettivo “rossa” proprio della Volante Rossa, la gang che nell’immediato dopoguerra andava ad ammazzare uno ad uno gli ex fascisti sopravvissuti alla guerra civile. Per continuare con tutto quanto la storia del nostro Paese avrebbe fatto registrare nei successivi 40 e passa anni…”.
E poi leggiamo l’immancabile omaggio al Futurismo e ai suoi maestri, una citazione di alcune note biblioteche private italiane -le case-museo di Federico Zeri, Vittorio Sgarbi, Umberto Eco, Cesare De Michelis, Luigi Firpo, Giuseppe Pontiggia- sino al ricordo di un’epica prova di forza sportiva, quella che laureò il giovanissimo Igor Cassina, campione olimpico alla sbarra, in una notte dell’agosto del 2004, ad Atene.
Allora, Giampiero, si può vivere felici senza Facebook, Instagram e followers?
“Assolutamente si, con tutti questi amici-libri!!!” Bella sfida.
Per saperne di più: Giampiero Mughini, La stanza dei libri. Come vivere felici senza Facebook, Instagram e followers, Bompiani, 2016, € 14.00,
Cronache delle Calabrie, p.30 Egidio Lorito, 14/12/2016