AGOSTINO-CORDOVA

Venticinque anni dopo l’inchiesta della Procura di Palmi, Agostino Cordova ripercorre le indagini sulla massoneria.
Per Buscetta “aggiustava” processi di Cosa Nostra

Ho conosciuto Agostino Cordova il 21 agosto del 2006: una calda serata dava il benvenuto al libro di un giovanissimo Roberto Saviano che con il suo “Gomorra” avrebbe contribuito a fare luce su un drammatico spaccato sul fenomeno camorristico tra ricerca socio-antropologica, analisi storica, cronaca giudiziaria: successo planetario, certo, ma anche forzata limitazione della liberta personale, visto che due mesi dopo Saviano sarebbe entrato nel programma di protezione a causa delle minacce e delle intimidazioni subite. Coordinai la presentazione di quel saggio, a Maratea, con un trasporto emotivo doppio, proprio per la presenza di Cordova, cioè di un magistrato che non si era certo risparmiato in fatto di lotta alle consorterie criminali, a Napoli come nella sua Calabria. Esattamente quattro anni dopo, a Praia a Mare, in occasione della presentazione del libro della ricercatrice calabrese Antonella Colonna Vilasi dedicato al  terrorismo, mi ritrovo nuovamente al suo fianco: aveva aderito al mio invito di averlo ospite e ripercorremmo anche la sua carriera giudiziaria iniziata nel 1963 come pretore, poi giudice a latere della sezione penale del Tribunale e giudice istruttore.

La vicenda professionale di questo magistrato dall’aspetto apparentemente burbero ed accigliato, sigaro-munito  -“ho un brutto carattere e non sono un diplomatico. Ma certa diplomazia è come una bellissima dama che suole avere intimi rapporti con il compromesso e generare brutti figli che si chiamano condizionamenti, <<apparamenti>>, come si dice in dialetto napoletano, o ricatti”, mi ripete ancora…-  fa parte, ormai, della storia italiana dell’ultimo  cinquantennio. A partire da Reggio, dove diede vita, nel 1978, al primo vero maxiprocesso contro la ‘ndrangheta; per proseguire a Palmi, da Procuratore capo della Repubblica, indagando, dal 1987, sui legami tra politica e criminalità organizzata, denunciando di operare con disarmante scarsità di mezzi e subendo anche un procedimento innanzi al Consiglio superiore della magistratura  per “incompatibilità ambientale”, poi archiviato. Proseguendo con le inchieste sui legami della criminalità organizzata con la massoneria deviata e la stessa Loggia P2, e sino alle vicende partenopee, al momento del suo insediamento nel 1993 come Procuratore capo, con una conduzione netta e senza sconti della Procura napoletana.
Ci risentiamo, non a caso, proprio nei giorni in cui si torna a parlare di massoneria, di logge deviate, di elenchi degli iscritti, di proteste e rifiuti. Il resto è cronaca degli ultimi giorni. Ma forse è già storia! 
Dottor Cordova, il Suo nome è ritornato prepotentemente alla ribalta lo scorso 1 marzo quando nel corso dell’audizione in Commissione parlamentare antimafia,  lo storico Enzo Ciconte ha rievocato la Sua celebre inchiesta di venticinque anni addietro e la Presidente Rosy Bindi ha inteso valutare la proposta di mettere mano al Suo lavoro!
“Dopo ben 25 anni, a parte  qualche rarissimo caso di cui ignoro l’esito, sono tornate di attualità le indagini sulla Massoneria deviata: ignoro da quali elementi siano scaturite tali iniziative, ma auspico che abbiano effetto positivo, per evitare che poi avvenga quanto a me ripetutamente addebitato, cioè di avere instaurato un procedimento finito nel nulla, in quanto privo ab origine di fondamento. Ebbene, visto che, nell’assoluto silenzio generale, tali censure mi vengono ancora rivolte, ritengo necessario chiarire all’opinione pubblica come dette indagini siano iniziate e quale parte io abbia avuto nel loro svolgimento. Esse ebbero origine dalle dichiarazioni di alcuni pentiti, poi aumentati nel corso del procedimento, nonché da quelle di più numerose persone informate sui fatti, oltre che dalla collaborazione di numerose Procure: a titolo esemplificativo cito i pentiti Buscetta, Calderone, Messina, Mutolo che le resero proprio nel 1992 alla Commissione parlamentare antimafia, i cui verbali sono pubblici e reperibili anche su Internet; essi riferirono, fra l’altro,  sui rapporti tra Massoneria e Cosa Nostra, su diversi procedimenti aggiustati tramite la Massoneria, sul procacciamento di voti mafiosi, sull’interesse comune di Cosa Nostra, politica e Massoneria per gli appalti, su una Loggia che aveva chiesto che due mafiosi per ogni provincia entrassero a far parte della Massoneria per influenzare pubblici personaggi. Anche nell’inchiesta Mani Pulite, 39 indagati erano massoni e 7 ex piduisti.
Orbene, il procedimento fu iscritto a Palmi nell’ottobre 1992 contro ignoti e nel successivo marzo contro noti: lasciai quella Procura perché trasferito a Napoli nell’ottobre 1993, quindi me ne occupai formalmente solo per un anno, ma di fatto anche meno, in quanto le indagini subirono oltre tre mesi di ritardo per la mancata autorizzazione a custodire a Roma l’enorme numero di atti acquisiti, non essendovi a nella procura palmese locali sufficienti in cui custodirli: senza dimenticare la trattazione di altri importanti procedimenti, la riduzione dell’altrui attività nel periodo feriale, le mie audizioni nel 1993 al Consiglio Superiore della Magistratura con relativa relazione integrativa ed alla Commissione Parlamentare Antimafia, la predisposizione materiale del mio trasloco!  Non va dimenticato che la stessa Procura di Palmi doveva occuparsi anche del gran numero dei procedimenti  pretorili, per cui era stata istituita la Procura presso la  Pretura circondariale ed erano stati nominati i magistrati ed il personale: ma proprio nel dicembre 1992, cioè due mesi dopo l’inizio del procedimento, questa Procura  -non entrata ancora in funzione- fu soppressa, con l’effetto di un enorme aggravio di lavoro, tant’è vero che dei sei sostituti applicati per l’indagine sulla Massoneria, tre dovettero occuparsi degli altri procedimenti. Si sostenne, in quel periodo, che a causa delle indagini su di essa stavo trascurando un gran numero di altri procedimenti: non è vero! I successivi  sei applicati erano diversi dai primi, per cui dovettero esaminare ex novo gli atti. Questa è la verità”.
Un paio d’anni dopo tutto l’incartamento investigativo fu inviato a Roma…
“Esatto: il procedimento fu trasmesso a Roma nel giugno 1994, dove venne  archiviato nel 2000 su richiesta -nel dicembre 1997- dei pubblici ministeri della capitale: ignoro ancora i motivi di tale trasmissione, che comunque non mi riguardano, ma posso solo rilevare che sia il Riesame che la Cassazione avevano confermato la competenza di Palmi in base all’art. 9 del Codice di procedura penale, e che sia i due pubblici ministeri romani che il Giudice per le indagini preliminari si chiesero il perché  di tale trasmissione non essedo sopravvenuto alcun elemento nuovo. Lo ripeto: si tratta di argomento che non mi riguarda, così come quello relativo alle indagini svolte a Palmi dopo il mio trasferimento e poi a Roma. Il nuovo Procuratore si insediò a Palmi 12 giorni dopo l’anzidetta trasmissione. Nel provvedimento di archiviazione,  la motivazione per 48 dei 63 indagati fu che <<per tutti gli altri indagati, alcuni dei quali iscritti nel registro, per la consistenza del materiale loro sequestrato o per la loro dichiarata appartenenza massonica, non sono emersi elementi significativi e concludenti in merito ai reati ipotizzati>>”.
Dottor Cordova, all’epoca si scrisse che la Sua inchiesta sulla Massoneria si fosse risolta in una bolla di sapone!
“Glielo ripeto ancora: da quanto esposto si desume in maniera  inconfutabile che avevo doverosamente, cioè obbligatoriamente, instaurato quel procedimento sulla base di concrete notizie di reato e non per mia mera invenzione ed avversione verso la Massoneria, e che potei occuparmene concretamente per meno di un anno, quando le indagini erano ancora quasi tutte nella fase ricognitiva: quel che accadde dopo non avrebbe dovuto riguardarmi, pur nel generale silenzio calato sulla vicenda. Pertanto le continue ed assai singolari asserzioni di avere inconsistentemente instaurato un procedimento finito nel nulla sono completamente infondate: e l’avere fatto il proprio dovere, come talvolta accade, è stato per me controproducente. Forse, chissà perché, in quell’inchiesta avrei dovuto comportarmi come nella raffigurazione delle classiche tre scimmiette: non vedere, non sentire e non parlare? Aggiungo che proprio per quell’indagine, nel marzo del 1993 il Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, Giuliano Di Bernardo, si dimise da tale Obbedienza fondando la Gran Loggia Regolare  d’Italia”. 
Venne ascoltato in Commissione parlamentare antimafia…
“Illustrai i fatti accaduti fino all’epoca nel corso della mia audizione del 9 luglio del 1993, facendo rilevare che la Legge Anselmi aveva solo in parte colmato il vuoto legislativo dovuto al fatto che l’articolo 18 della Costituzione vietasse sic et simpliciter le associazioni segrete, per cui dovevano configurarsi due reati: l’associazione segreta di per sé e quello, più grave, previsto da detta legge per le attività illecite di interferenza nelle funzioni e nei servizi pubblici. Resta comunque il fatto che le associazioni segrete diverse da quelle classificate dalla Legge Anselmi siano vietate, ma non costituiscano reato: quindi, ad esempio, le logge coperte e mascherate come circoli culturali, pur essendo vietate dalla Costituzione, non lo sono dalla legislazione ordinaria, e si ignora, tutt’ora, come applicare tale divieto!”
Dottor Cordova, torniamo indietro di quarant’anni, nella Sua Reggio degli anni Settanta…
“Quale Giudice istruttore, nel 1978 trattai il procedimento penale n. 60/‘78 nei confronti di Paolo De Stefano e cinquantanove affiliati, il primo del genere in Italia in materia di associazione mafiosa,  basato su elementi esclusivamente documentali e deduttivi, quando ancora non era stato introdotto il reato di associazione di tipo mafioso -il  416 bis del codice penale- cosa che sarebbe avvenuta solo nel 1982. Quel  procedimento aveva riunito tutti quelli riguardanti inquisiti  cui veniva contestato di appartenere alla ‘ndrangheta operante nel circondario, sotto il profilo del comune reato di associazione per delinquere di cui all’art 416 del codice penale, ma connotandolo con le tipiche modalità mafiose.  Tale inquadramento fu poi mutuato dal legislatore nel formulare, quattro anni dopo, il reato associativo!”
Le cronache narrano di un riconoscimento giudiziario di spessore.   
“Nella lettera di commiato e di elogio del Procuratore Generale di Catanzaro, dott. Chiliberti, del 16 novembre del 1978, si dava atto fra l’altro che <<a tacere di ogni altra benemerenza del dottore Cordova  -che pure può vantare per la serietà ed il senso di responsabilità con cui si dedica al proprio compito- basterà citare, a titolo di merito non comune, l'avere istruito e portato a termine il ponderoso processo a carico di sessanta presunti mafiosi- [ omissis] - che costituisce elaborato pregevole sia nella parte espositiva che in quella più propriamente motiva, nella quale viene puntualizzato, con ammirevole scrupolo, la configurazione esposta in linea tematica. La sua opera, schiva di clamore, animata da grande forza morale, è da considerare esemplare servizio reso alla causa della giustizia>>”.
Addirittura nel 1976 Lei si fece promotore della costituzione di uno schedario balistico…
“Fu il primo del genere in Italia ed aveva lo scopo di repertare e catalogare, secondo gli elementi identificativi -tracce lasciate dal percussore, dall’estrattore-, i bossoli rinvenuti in occasione di omicidi o di altri reati commessi con l’uso di armi da fuoco, nonché quelli esplosi probatoriamente per tale catalogazione dalle armi sequestrate in diverse occasioni: e ciò per poter risalire -mediante la comparazione e con i supporti probatori del caso- agli autori di altri reati ove fosse identificato quello di uno di essi che avesse usato la stessa arma. Pensi che tale schedario precorse di ben 27 anni il “Sistema automatizzato per le comparazioni e le identificazioni balistiche”, avviato dal Ministero dell’Interno in via sperimentale nel 2003 nei Reparti di Investigazione Scientifica dei Carabinieri di Parma, Roma, Cagliari e Messina!”
Dirigendo, in seguito, la Procura di Palmi non si è certo risparmiato nella lotta alla ‘ndrangheta. Per tutti divenne “il mastino”…
“Definizioni giornalistiche a parte,  non posso dimenticare che il 30 gennaio del 1989 il Procuratore Generale di Catanzaro dava atto che nella mia attività a Palmi avevo <<dato un impulso veramente eccezionale all’ufficio nella lotta alla criminalità organizzata>>. Tra i principali processi definiti, ricordo quello riguardante la cosca Pesce:  135 imputati di associazione mafiosa, traffico di armi e stupefacenti, voto di scambio, rapporti mafia-politica, sotto il profilo della mera violazione delle norme elettorali. Durante quel procedimento, poco prima di una delle elezioni politiche,  disposi 180 perquisizioni nei confronti di persone indicate come affiliate o collegate alla ‘ndrangheta (ovviamente, non a candidati), informando anche la Procura di Locri che si associò disponendone contestualmente altre 120, che portarono al sequestro di imponenti quantitativi di materiale elettorale riguardante numerosi candidati di svariati partiti politici dell’arco costituzionale ed extracostituzionale. Proprio per effetto di tali indagini, e nonostante le immediate reazioni di rito, dopo pochi mesi, con il decreto legge 366/‘92 convertito in  legge 3356/‘92, sarebbe stato introdotto l’art. 416 ter codice penale -scambio elettorale politico-mafioso-  ed integrato lo stesso art. 416 bis, nel senso che costituiva attività mafiosa il procacciamento di voti. Su iniziativa del Ministro Martelli, il reato fu limitato alla promessa di voti contro erogazione di somme di denaro e non contro scambio di contributi, concessioni, appalti, ecc., come prevedeva il disegno di legge: ebbene, fin da allora rilevai che era sufficiente riferirsi a <<qualsiasi altra utilità>> termine che fu aggiunto solo nel 2014, cioè dopo 22 anni!”
Bella soddisfazione, direi. Ce lo confessi: si sente ancora il mastino di un tempo?
“Guardi, quel termine venne coniato a Palmi: altri tempi, altro ambiente lavorativo, altre motivazioni. Certo, non lo sono più nel fisico, ma lo spirito indomito che guarda al valore-Giustizia è quello di sempre, di chi ha fatto il proprio dovere istituzionale, sino in fondo, pagandone spesso conseguenze sul piano professionale e personale. E’ difficile trattenere le emozioni di quei ricordi…”.   
 
Cronache delle Calabrie, pp. 1, 2, 3                          Egidio Lorito, 27/03/2017

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