Ayala ricorda i processi e l’amicizia con Falcone e Borsellino
“Ricordo con particolare simpatia due serate a Praia a Mare in occasione della presentazione dei miei ultimi saggi: ho conosciuto una parte della nostra Italia in cui mai avevo messo piede e, soprattutto, il calore della gente -e non mi riferisco solo al dato climatico, trattandosi di due serate di piena estate…- che mi accolse in una piazza gremita da stadio di calcio. Evidentemente, a distanza di anni dai tragici fatti del maggio-luglio del 1992, la gente comune sente ancora il bisogno di ricordare Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Nella tua Calabria come nel resto d’Italia che continuo a visitare in occasioni editoriali (…)”
Mi accoglie così, al telefono, Giuseppe Ayala: pochi formalismi -anzi, nessuno…- con un “tu” colloquiale che ci eravamo imposti sin dal 25 agosto del 2008, ripetuto poi il 21 luglio del 2012, date che hanno avuto il merito di cristallizzare un’esegesi libraria nata tutt’attorno a due pubblicazioni che hanno ricostruito, con dovizia di particolari mai disgiunta da sentimenti umani, il senso di un’esperienza personale e professionale vissuta al fianco di due protagonisti della storia contemporanea italiana, caduti come eroi nell’adempimento di un dovere istituzionale. Che per Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, siciliani, divenne anche un dovere morale nei confronti della loro terra.
Allora, caro Peppino, partiamo da quel titolo del 2008, tratto da una celebre locuzione di Borsellino!
“Mi venne voglia di scrivere per me innanzitutto, ma anche per chi avrebbe letto la storia di una grande amicizia nata per caso e vissuta tra successi e drammi. Con “Chi ha paura muore ogni giorno. I miei anni con Falcone e Borsellino” (Mondadori, nda) credo di aver compiuto un viaggio a ritroso nel tempo, carico di ricordi, di affetti, di vicende che ancor oggi mi capita di dover collocare nella loro giusta dimensione: la storia con Giovanni e Paolo fa parte della mia vita non solo pubblica, istituzionale, da circostanza, ma soprattutto della sfera più intima e personale; una storia che si ostina a non morire, a non essere scomparsa con loro e che -drammaticamente- continua a farmi piangere, ma anche ridere. Come se Giovanni e Paolo, anche in questo preciso momento che dialogo con te, fossero presenti, stessero ascoltando la nostra conversazione e, quasi, mi aiutassero a riordinare gli ultimi trent’anni della mia vita. Della vita pubblica e civile di questo nostro Paese”.
In realtà, la Tua strada iniziale fu l’avvocatura. Poi una scelta di campo…
“E pensare che ero stato accolto all’interno di uno degli studi legali più prestigiosi di Palermo, quello del professor Girolamo Bellavista, che era ordinario di procedura penale in quella città! Scattò qualcosa, in me, difficilmente arginabile che sembrò aiutarmi a risolvere il disagio che ogni giorno provavo nel rapportarmi con delinquenti che mi mostravano, in diretta, la barbarie mafiosa. A ventotto anni, con una gran voglia di schierarmi, la parte giusta mi sembrava quella Sicilia che combatteva la mafia, non quella che la ignorava, la tollerava, la difendeva. E così ricordo che alle quattro di un mattino, nella più assoluta solitudine e nel silenzio pieno, presi la decisione di intraprendere la via della magistratura, tramite la quale avrei potuto dare il mio contributo a quella battaglia che stava insanguinando proprio la mia terra e che lo avrebbe fatto ancora per molto tempo: quel tempo che -quella notte- volevo contribuire anche a fermare. Certo, una cosa sarebbe stato l’incarico di Pretore a Mussomeli, la mia prima sede, altro il lavoro che mi avrebbe atteso a Palermo, in Procura, dal settembre del 1981: tra la fine degli anni Settanta ed i primissimi Ottanta, a cadere sotto i colpi della mafia erano stati Gaetano Costa, il procuratore capo, Piersanti Mattarella, il Presidente della Regione, Giuseppe Russo il capitano dei Carabinieri, Boris Giuliano, il capo della Squadra mobile, Giuseppe Terranova, il Giudice dello stesso Tribunale del capoluogo. Insomma, la mafia aveva ormai ampiamente svelato la sua strategia sanguinaria, quella di contrapporsi allo Stato sul piano militare…”.
Il 3 settembre del 1982 fu eliminata la speranza dei palermitani onesti, come si scrisse!
“Quando a cadere sotto i colpi dei kalashnikov di ben dieci uomini furono il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa , sua moglie Emanuela Setti Carraro e Domenico Russo, capimmo, forse per la prima volta, che in Sicilia ed a Palermo eravamo in guerra, non solo per l’alto profilo della nuova vittima -che nel decennio precedente aveva inferto un colpo durissimo nella lotta contro il terrorismo- ma anche per la platealità della stessa azione, un vero raid militare, per potenza di fuoco e spietatezza. Ricordo le lacrime del Presidente Pertini che cercava di consolare Nando, Rita e Simona, i figli del Generale: e, soprattutto, la dura omelia del cardinale Pappalardo, con quel suo <<Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur>> (mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata, nda). Pur nell’assoluta gravità del momento, capii che occorreva cambiare la stessa strategia dello Stato, da difensiva ad offensiva…”.
Intanto avevi appena conosciuto Giovanni Falcone…
“ Capitò a casa del collega Alfredo Morvillo che mi invitò per una cena durante la quale avrei conosciuto sua sorella Francesca, giovane e brillante magistrato che dopo essersi separata, aveva iniziato a frequentare il giudice Giovanni Falcone, del quale avevo sentito parlare, senza averlo ancora conosciuto: soltanto alla fine della serata realizzai che avevo conosciuto il giudice di cui più si parlava a Palermo. Al primo impatto lo avevo trovato di una semplicità e di una genuinità disarmanti: supponenza zero, simpatia mille, ironia di più, ma assolutamente demenziale. Del tutto spontaneamente gli confidai che mi avrebbe fatto piacere apprendere qualcosa in più sul suo metodo di indagine. Non si fece pregare, mi fissò un appuntamento nel suo ufficio. Da quell’incontro la mia vita sarebbe cambiata per sempre”.
Tra il febbraio del 1986 ed il dicembre del 1987 vivesti blindato per il “maxiprocesso”
“A quarant’anni vissi da protagonista una delle esperienze più importanti della recente storia contemporanea italiana: già nei numeri, partendo dalle ottomila pagine dell’ordinanza di rinvio a giudizio, sino al milione del processo vero e proprio, con 475 imputati! Un autentico spaccato del nostro Stato coinvolto e costretto a vivere insieme per ventidue mesi, tutti accomunati dalla più eterogenea delle convivenze, quella tra imputati, difensori, giudici, pubblici ministeri, giornalisti, cancellieri, carabinieri, responsabili della sicurezza, addetti al bar ed alle pulizie. La celebre aula bunker di Palermo si trasformò in una città nella città. Sostenni, nel mio ufficio di magistrato del Pubblico Ministero, per la prima volta che erano stati i pentiti a fornire un riscontro alla massa di elementi probatori già acquisiti. Richiesi diciannove ergastoli, tra cui quelli a carico di Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, e, per gli altri imputati, alcune migliaia di anni di carcere. Avevo quarantadue anni ed ero schierato dalla parte giusta!”
Hai perso due colleghi -due amici- in modo tragico…
“Rividi per l’ultima volta Giovanni nella tarda serata del 23 maggio di quel 1992, dopo essermi precipitato da Roma su un volo in maniera del tutto fortunosa: lo rividi in una camera fredda e molto spoglia: eravamo soli, ma non parlammo. Lui dormiva. Un sonno senza risveglio. Con lui avevo perso l’amicizia della giovane moglie Francesca e dei tre agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro che conoscevo benissimo! Con Paolo, se vogliamo, vista la mia presenza a Palermo, quell’esplosione fu, per me, ancora più devastante: quel 19 luglio ero appena tornato dal mare quando, verso le 18.00 mi accorsi, nitidamente, di un boato impressionante: mi affacciai senza notare niente, all’istante. Solo qualche minuto dopo vidi una nube nera che s’innalzava a superare addirittura i dieci piani del palazzo di fronte al mio. Scesi in strada seguito dalla scorta e ci trovammo innanzi ad una di quelle scene tipiche da attacco terroristico: inciampai in un tronco di uomo bruciato. Era quello che restava di Paolo Borsellino. Mi è toccato il tragico destino di essere stato il primo a vederlo in quelle condizioni. E sarò anche l’ultima persona che potrà dimenticarlo! E con lui altri cinque valorosi uomini della sua scorta, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina”.
Nel 2012 pubblichi un nuovo saggio il cui titolo -“Troppe coincidenze”- non lascia spazio a molte interpretazioni.
“Le stragi del 23 maggio e del 19 luglio sono state volute dalla mafia , su questo non ci piove. Ma è ragionevolmente possibile escludere a priori che vi siano stati coinvolti anche <<pezzi deviati>>, come si suol dire, dello Stato? Ho sempre pensato che la risposta non possa che essere positiva, e non per ragioni di pierinismo, né per furia dietrologica, ma perché condivido ciò di cui Giovanni Falcone era arciconvinto. E ne parlo nel libro…”.
Una domanda che ti avranno posto migliaia di volte: hai pagato il torto di essere rimasto vivo?
“Lo hanno scritto! Me la ritrovo, questa espressione, come stampata a caratteri cubitali nella mia memoria. Io sono vivo fisicamente, ma ho perso due amici. Ho perso, per sempre, una parte della mia memoria, della mia storia. Della mia vita…”.
Cronache delle Calabrie, p. 29 Egidio Lorito, 29/03/2017