Questa conversazione ha una genesi estiva. Lo scorso 7 agosto, Francesco Alberoni, all’interno della consueta rubrica “L’articolo della domenica” tenuta sulle pagine de “Il Giornale”, aveva affrontato una tematica tanto attuale quanto di pregio sociologico, con un titolo diretto, senza giri di parole: “Ogni fotina su Facebook, un pensiero che scompare”. L’illustre sociologo si era interrogato sul reale portato culturale dei c.d. social media e di come questi puntino sul chiasso emotivo pur di raggiungere i loro obiettivi: con una piccola speranza lasciata, comunque, a quanti, spesso coraggiosamente, continuino a non arrendersi alla superficialità che occupa ancora molta parte della nostra vita quotidiana. Sottolineava Alberoni, in quel suo fondo domenicale, che “la nostra, lo ripetono tutti, è la civiltà dell’immagine. Quella che ha perso di importanza è la parola scritta e il ragionamento per concetti. Facebook è uno straordinario canale di comunicazione che i privati usano per inviare messaggi emotivi (…). Il risultato è la scomparsa del pensiero complesso, della grande riflessione politica, la dissoluzione dei partiti con i loro programmi organici (…)”.Insomma, saremmo passati dalla società complessa a quella semplice se non addirittura, semplicistica.
Professore, ben ritrovato! Dopo la nostra conversazione estiva, non è che la situazione si sia ulteriormente aggravata?
“Lo ripeto ancora il titolo di quel mio articolo agostano! E’ così, purtroppo, perché è molto più facile scattare una foto ed inviarla che elaborare un pensiero compiuto e discuterne. Guardi: una della cose che più mi annoiano -e mi riferisco ai miei stessi numerosi amici con cui mi sento quotidianamente- è ricevere una quantità industriale di foto “emotive”: tramonti, cani, gatti, l’orsacchiotto, il pesciolino; e mi sono ormai fatto l’idea che la comunicazione sociale inizi e termini con quel fotogramma, senza che ne segua un dibattito, una riflessione, un discorso fondato. Per carità, ringrazio i miei cari amici, perché proprio l’ossessività dei loro invii telematici, ripetitivi quanto all’oggetto, mi ha fatto scattare l’idea di riflettere sul tema ed affrontare l’argomento che dal punto di vista sociologico credo sia piuttosto interessante, tra comunicazione e cultura”.
Un bell’esempio di osservazione partecipante, per dirla con voi sociologi…
“Ho provato personalmente che è molto più facile inviare una foto o un c.d. emoticon che intrattenere un dialogo: è come se la gente, oggi, stesse perdendo la propensione al ragionamento, alla conversazione, all’esprimere concetti in forma elaborata. Questa osservazione, alla base di quella mia riflessione estiva, rappresenta -sicuramente- una delle ultime frontiere dell’analisi sul dialogo, sui media, sulla socialità: è piuttosto evidente che tutti noi continuiamo a parlare attraverso le foto; che continuiamo a legare ogni nostro pensiero -spero non tutto il nostro pensiero…!- ad un’immagine, al punto da avvertire l’irrefrenabile bisogno della “condivisione”, secondo il linguaggio oggi in uso; capita esattamente con le notizie, ormai, ridotte a foto-notizie. Manca la fase dell’elaborazione, dell’analisi, della spiegazione: tutto ciò è sintomo di impoverimento del pensiero autonomo e riflessivo: non vorrei apparire radicale o fuori dal mondo, ma così facendo la nostra società contemporanea, quella che ci circonda mentre io e lei stiamo conversando, si sta impoverendo ancora di più. Oggi viviamo per immagini, di immagini, con tanti saluti alla nostra stessa qualità dialogica. Parliamo poco, male e scriviamo anche meno…”.
La conversazione con Francesco Alberoni si trasforma, presto, in una sorta di grimaldello sui grandi temi della cultura contemporanea: medico psichiatra, psicoanalista, sociologo, allievo di Agostino Gemelli alla Cattolica di Milano, è stato tra i primi a studiare ed insegnare, in Italia, tematiche legate alla comunicazione di massa, in stretto rapporto con eccellenze del pensiero come Edgar Morin, Roland Barthes, Alain Touraine, Serge Moscovici, Michel Maffesoli, David Rieseman, Neil Smelser: docente a Milano -dagli inizi alla Cattolica sino alla guida dello Iulm- quanto nell’effervescente Trento del Sessantotto, come nella sorprendente Catania. Francesco Alberoni rimane, ad oggi, una delle personalità di maggior caratura culturale del nostro Paese, teorico ante-litteram di innovativi campi del sapere socio-antropologico e politico-comunicativo. Anche grazie ad una poderosa attività editoriale su La Repubblica, sul Corriere della Sera ed ora su Il Giornale.
Partiamo dai suoi studi innovativi sui media!
“Non mi attribuisca meriti che non ho! Diciamo che negli anni Sessanta, considerato che eravamo in pochissimi in Italia ad affrontare il dibattito massmediologico -e capitava di confrontarci con gli studi americani di sociologia della comunicazione e della cultura che dettavano legge…- ho iniziato pubblicando nel 1963 “L’ élite senza potere. Ricerca sociologica sul divismo”: in quel saggio sostenevo che il divismo, appunto, fosse null’altro che una forma di pettegolezzo collettivo che si manifestava all’interno di una società di massa, amplificato dai mezzi di comunicazione. Da qui il passo -breve- ad occuparmi del fenomeno della comunità che leggevo in rapporto con il tema dei consumi, filtrando le teorie in voga tra i principali economisti del tempo: analizzavo i consumi come agire dotato di senso, partendo dagli atteggiamenti provenienti dalla vita quotidiana, con l’attenzione puntata sugli elettrodomestici come la cucina a gas piuttosto che il frigorifero, all’epoca veri status symbol. Ebbene, questi argomenti, rappresentavano un banco di prova per diverse categorie di pensatori che si concentravano ad analizzare il gradimento nel loro utilizzo da parte delle casalinghe italiane in pieno boom economico. Tutto è iniziato da semplici osservazioni!”.
Professore, quest’anno ricorrerà il quarantesimo di Movimento e Istituzione…
“Eh, bel salto! Mi permetta di tornare un attimo in pieno 1968: in quell’anno avevo pubblicato “Statu nascenti. Studi sui processi collettivi”: l’avevo scritto di getto, utilizzando un argomento del tutto innovativo, con un linguaggio quasi irreale per quell’anno simbolico: l’argomento era forte in quanto identificava un periodo entro il quale un gruppo di persone, accomunate da speranze comuni, si univano per creare una forza nuova (il movimento) che si contrapponesse all’Istituzione, intesa come complesso di organi politico-giuridici e consuetudini sociali. Ebbene, emergevano delle caratteristiche comuni a tutti i movimenti succedutisi nel corso della storia, come quelli religiosi, filosofici e politici. Studiavamo, in pratica, l’avvento della nostra società…”.
Professore, anche lessicalmente, il termine è affascinante: ci ricorda un’alba…
“Si tratta di un’immagine forte, è vero. Lo stato nascente germina solo nel seno di istituzioni mature, in cui condizioni economiche, sociali e culturali determinano un’ambivalenza, una frattura tra gli individui e l’ordine vigente. Lo stato nascente è un’ispirazione, una rivelazione, una conversione, ma non è uno stato di beatitudine che si raggiunge, per esempio, con la meditazione o le pratiche ascetiche: nasce da un disagio e dalla voglia di elaborare una nuova solidarietà. Può essere un’esperienza solo collettiva: da essa può svilupparsi il movimento, inteso come processo storico, che porta all’istituzione e termina quando si riproduce una quotidianità”.
Appena due anni dopo esce “Innamoramento e amore”: successo replicato…
“Affermai che l’innamoramento fosse un processo della stessa natura della conversione religiosa o politica, con le persone che si innamorano solo quando sono pronte ad iniziare una nuova vita, a mutare l’orizzonte fino a quel momento presente: si tratta, anche in questo caso, di un rapido processo di destrutturazione-ristrutturazione da stato nascente, per effetto del quale l’individuo diventa capace di fondersi con un’altra persona e creare una nuova collettività ad altissima solidarietà. Di qui la mia definizione: l’innamoramento è lo stato nascente di un movimento collettivo formato -in questo caso- da due sole persone”.
Professore, ma come facciamo a capire se siamo realmente innamorati?
“Eh, bella prova! Il soggetto è praticamente obbligato a sottoporsi a vere prove di verità, e per scoprire se è ricambiato sottopone la persona amata alle prove di reciprocità, attraverso le quali il processo incandescente dello stato nascente dà luogo a delle certezze e produce un amore stabile e, speriamo, il più duraturo possibile”.
Torniamo all’agosto scorso. Quel domenicale era un inno in difesa della cultura!
“Sinceramente non ho fatto altro che evidenziare il mio assoluto riconoscimento per chi continua a credere nella forza della cultura, libraria in particolare: dico grazie a coloro che leggono e scrivono in questo nostro Paese, a docenti, ricercatori studenti, casalinghe, riconoscendo merito a moltissimi Comuni italiani che proprio durante l’estate invitano filosofi, scrittori, giornalisti ad incontrare il pubblico in dibattiti sulle questioni aperte. Come non riconoscere che è proprio la dedizione di queste persone, colte, molte delle quali assolutamente lontane dal chiasso dei grandi media, che tiene viva la nostra lingua e la nostra cultura! Persone che non si esprimono tramite “fotine” ma che tengono vivo il dibattito culturale nella nostra Italia contemporanea. Quell’articolo di piena estate, con quel suo carico di verità culturalmente provocatorie, è valido più che mai. E quel titolo lo riproporrei mille volte…”
Cronache delle Calabrie Egidio Lorito, 13/02/2017