“Difendo il paradiso Occidente perché così posso ancora pensare, scrivere, insegnare un’idea di bellezza che si riscatti da quel mondo effimero in cui la modernità l’ha confinata e dove tanti improvvisati suoi cantori degli ultimi tempi continuano, inconsapevolmente e loro malgrado, a relegarla. Bellezza che dia senso alla vita; impegno nel fare cose belle perché in esse è custodito il valore di una civiltà; decidersi a essere responsabili politicamente della bellezza del mondo. Il desiderio di bellezza e l’esigenza di conoscerne i segreti sono una testimonianza della nostra umanità”. Dilatare il più possibile lo spazio a disposizione con uno degli intellettuali più fini del nostro panorama culturale: non nego sia questo lo scopo della conversazione con Stefano Zecchi che incontro nuovamente in occasione della sua ultima uscita editoriale (“Paradiso Occidente. La nostra decadenza e la seduzione della notte”, Mondadori, 2016) per analizzare i temi portanti della ricerca che ha come oggetto ed obiettivo dichiarato la società occidentale, apparentemente sospesa tra un passato aulico e di grande fascino culturale ed un presente tutt’altro che roseo.
“Intanto c’è da premettere che l’insegnamento che svolgo, quello di estetica, è legato ad una forte connotazione filosofica e -quindi- a temi inerenti alla filosofia dell’arte, alla musica, alla letteratura, alla pittura; in secondo luogo esiste un forte discorso legato all’attualità, con la conseguenza che tutto il mondo della comunicazione può essere -anzi è- coinvolto in questo tipo di ricerca, tant’è vero che ho lavorato anche ad un libro sulla televisione, pubblicato nel 2005, dal titolo emblematico di “L’uomo è ciò che guarda” (Mondadori), e questo consente di allargare il discorso anche sull’attualità, sulla contemporaneità, che gioca un ruolo non secondario sui fattori estetici”. Va subito al cuore del problema Stefano Zecchi, veneziano, classe 1945, allievo in Filosofia Teoretica di Enzo Paci, uno dei più autorevoli rappresentanti dell’esistenzialismo italiano, con cui si laureò discutendo una tesi sul pensiero di Edmund Husserl: dopo un periodo di specializzazione presso l’Archivio Husserl di Lovanio ed in alcune università tedesche, ha insegnato a Verona e Padova e dal 1984 al 2013 è stato professore ordinario di Estetica alla Statale di Milano.
Ha insegnato anche in diverse università straniere e, tra esse, quella che ricorda con maggiore interesse e che più l'ha coinvolto, è l’Università Tagore di Calcutta, in India: è stato consigliere d'amministrazione del Piccolo Teatro di Milano, presidente dell'Accademia di belle arti di Brera, rappresentante del Ministero della Pubblica Istruzione presso l'Unesco per la tutela dei Beni immateriali, consigliere comunale a Venezia e assessore alla cultura a Milano, consigliere d'amministrazione del MAXXI (Museo dell’arte del XXI secolo), consigliere d'amministrazione della Fondazione Verdi di Milano, consigliere d'amministrazione del Teatro Parenti di Milano e, dallo scorso anno, Direttore dell'Istituto Internazionale di Scienza della Bellezza, sempre del capoluogo meneghino. Un unico obiettivo, dunque: incentivare attività culturali, artistiche e scientifiche incentrate sul tema della bellezza con un taglio interdisciplinare, dalla medicina alla filosofia, dalla teologia alle scienze dell’ambiente, dalle arti visive e dall’architettura alla moda, all’economia. Vita e opere come perfetta sintesi tra la ricerca scientifica e la sua applicazione “politica”, che oggi approda in un testo carico di suggestioni ed interrogativi di non facile risposta.
Professore, Lei parla di “tramonto umanistico”: l’Occidente è in pericolo?
“Forse. La questione è seria ed ha origini antiche. Noi occidentali, della nostra Europa, amiamo l’arte, la letteratura, la musica, la bellezza. Chi si è formato attraverso la cultura umanistica, quella della nostra grande tradizione occidentale, pur ritenendo straordinari i risultati raggiunti da scienza e tecnica, rimane di fronte ai progressi più indifferente rispetto al complesso della bellezza delle arti. C’è una differenza di fondo nello stesso mondo occidentale: la realtà scientifica contemporanea ha il proprio impulso nella parte più estrema dell’occidente, ovvero negli Stati Uniti d’America, mentre quella che comunemente definiamo come “vecchia Europa” affonda il suo cuore nella civiltà umanistica propriamente detta, culla di una civiltà millenaria nata tutt’attorno al concetto di uomo. Solo successivamente, dal suo grembo, è nato un figlio tecnico-scientifico che appare ora ingrato, ora ostile. Ripeto: l’analisi dovrebbe partire da lontano…”.
Torniamo, allora, al 1918 quando vide la luce “Il tramonto dell’Occidente”, un saggio di assoluto pregio per questo filone ricostruttivo?
“Quel saggio di Oswald Spengler ebbe una fortuna notevole, nonostante le aspre critiche da parte di molti storici di professione ed accademici: il successo editoriale e commerciale -diremmo oggi…- era dovuto al fatto che esso interpretava, già nel titolo, il sentimento diffuso della perdita di centralità politico-economica del mondo occidentale, proprio a causa di una lenta ed inarrestabile decadenza culturale. Ebbene, nonostante l’Europa degli anni ‘20 del Novecento fosse un motore insostituibile per lo sviluppo dell’intera economia mondiale, i segni della crisi erano talmente evidenti a quanti non si fermavano a celebrarne soltanto le conquiste della scienza, della tecnologia e del potere economico, miliare e politico. Insomma, si viveva una sorta di contraddizione in termini: da un lato, mai la ricerca scientifica aveva raggiunto vertici di così alto livello, tali da modificare -in meglio- le stesse condizioni di vita degli europei in maniera del tutto impensabile solo qualche anno prima; dall’altro, un’intera generazione di intellettuali (Guardini, Guénon, Scheler, Ziegler, Junger, Jaspers, Evola, Huizinga, Heidegger, Husserl) insisteva come fossero proprio le grandi conquiste scientifiche ad evidenziare il disgregarsi dell’idea stessa di uomo e di civiltà occidentale per come si era originata dalla grande cultura classica. Insomma: la lettura delle trasformazioni della cultura umanistica provocate dal sapere-progresso scientifico stava generando un senso di crisi e smarrimento!”
Professore, Lei si occupa di estetica. Proviamo a discutere anche di etica!
“Il nichilismo imperante che mette in serio pericolo la nostra civiltà, ci obbliga quasi a dare risposte a problemi senza precedenti che sfidano la nostra tradizione culturale e religiosa, derivandone un disorientamento che non può che essere controllato da una nuova riflessione sull’etica che oggi -tengo a precisarlo- non è più procrastinabile, soprattutto alla luce dei risultati che emergono dai laboratori di ricerca medica, dalle imprese commerciali e industriali, dalle holding della comunicazione informatica. Problematiche che rimbalzano sui media facendo emergere la necessità di individuare un comune orizzonte etico in grado di orientare i comportamenti individuali e collettivi. Forse, mai come oggi, in una fase di profondi interrogativi, s’impone un nuovo ragionamento complessivo sul destino della nostra società che poggi su basi etiche e morali”.
E quest’analisi vale anche in materia di bellezza? Di eticità della bellezza?
“Ha centrato il senso della mia riflessione. Mai come da questo versante si coglie, chiaramente, come l’etica si fondi sull’estetica, come la bellezza rappresenti la più alta forma di moralità da difendere e da preservare. L’educazione estetica ha assunto il compito, nella millenaria storia della nostra civiltà, di formare l’uomo: la bellezza dell’arte insegnava a comprendere il senso della vita, il valore delle relazioni pubbliche e personali. La tradizione classica ha rappresentato la testimonianza vivente dell’appena evocata eticità della bellezza come significato di verità che anima le azioni delle divinità nel destino degli uomini. La devozione alla bellezza ha avuto una lunga vita nel nostro Occidente moderno, risalendo a Goethe, a Schiller ed al Romanticismo la celebrazione del principio dell’educazione estetica”.
Colpiscono due assiomi che Lei pone a fondamento della rinascita dell’Occidente.
“Da un lato pongo il principio della responsabilità: parlo di etica della responsabilità, di nuova responsabilità come una guida sempre più necessaria per orientarsi nelle nuove questioni emergenti che sono tali soprattutto perché esigono valutazioni e giudizi in passato non richiesti. Dall’altro versante, non può mancare il principio della speranza: quest’ultima è un sentimento, una passione che spinge verso l’avanti, che sollecita ed esorta l’uomo ad agire. Pensare di poter cancellare la speranza dalle passioni umane è pura illusione, un inganno. Sintetizzo: è fondamentale una responsabilità dello sperare: si tratta di imparare a sperare e la speranza si può insegnare”.
Già, ma cosa può insegnarci a sperare?
“La cultura, l’esperienza, la sensibilità, la scelta politica”. La cultura umanistica. Bella responsabilità!
Cronache delle Calabrie, p. 30 Egidio Lorito, 09/03/2017