La Ripa di Meana racconta una stagione indimenticabile
Tutte le volte che mi capita di conversare con lei, i minuti scorrono veloci come il suo carattere: esplosivo, diretto, coinvolgente da donna volitiva che crede strenuamente nell’amicizia ed alla quale, mi confessa, ha dedicato l’ultima uscita editoriale, Colazione al Grand Hotel. Moravia, Parise e la mia Roma perduta (Mondadori, 2016). E così, complici alcune storiche amicizie comuni -dall’indimenticato Rolly Marchi sino a Giampiero Mughini che di Marina e Carlo Ripa di Meana fu testimone di nozze, nel 2002, vent’anni dopo il rito civile del 1982 -all’epoca, Antonio Giolitti e Bettino Craxi per lui, Alberto Moravia e Goffredo Parise per lei- e due conversazioni di piazza tra Maratea e Praia, torniamo a scavare nella cassetta dei ricordi e delle emozioni, tra aneddoti e sorprese. “Non perdere tempo, inventati ogni minuto della vita” è il suo motto preferito: lo seguo alla lettera…
Alberto Moravia e Goffredo Parise, due giganti della cultura italiana del ventesimo secolo troneggiano tra le righe…
“Questo libro è dedicato all’amicizia, è un inno all’amicizia! Alberto Moravia e Goffredo Parise hanno avuto un ruolo fondamentale nella mia vita: quasi dimenticati o non sempre ricordati come avrebbero meritato, si tratta non soltanto di due grandi della letteratura italiana quanto di due splendidi amici che ho voluto ricordare per la loro statura culturale e quel profilo più intimamente umano che ci ha legato. Pensa che avevamo una sorta di accordo tacito: mai parlare di letteratura, di cultura, di poesia, ma soltanto di amicizia, del nostro rapporto, del nostro mondo, del nostro modo di parlare, tra pettegolezzi, leggerezze e pesantezze varie. Insomma, per fartela breve, tutta la nostra vita filtrata sotto la lente d’ingrandimento della nostra amicizia. Questo libro di racconti va a riscoprire una parabola vitale che sbocciò a metà degli anni ’70 quando il celebre Grand Hotel di Roma divenne luogo di assoluta mondanità e, per me, di nascita di forti relazioni umane: Billy Wilder, Ava Gardner, Kirk Douglas, Aristotile Onassis, Liz Taylor, Jack Lemmon, Burt Lancaster, Maria Callas, oppure Gianni Agnelli e Henry Kissinger erano praticamente di casa”.
Una bella storia, con Roma sullo sfondo.
“Quella Roma fa fondale magico -oserei dire- ad un cambio di rotta della stessa società italiana: quella città -e sottolineo, quella!- era qualcosa di magico, un ponte tra la liberazione sessuale e culturale, pronta ad accogliere tutti. Era un privilegio farne parte e vivere a contatto con i grandi della cultura: pittori, poeti, scrittori, giornalisti -intellettuali della più svariata provenienza- con i quali era semplicemente magico rapportarsi, a cominciare da Franco Angeli, all’epoca mio compagno, Tano Festa, Mario Schifano, Pier Paolo Pasolini, Elsa Morante, Dacia Maraini, Dario Bellezza, Sandro Penna, che vivevano “a tutto tondo” la bellezza della città; ci si incontrava nelle piazze come nella case, trasformate in veri cenacoli culturali -in musei!- pronti ad accoglierti. Oggi, di quelle vicende, rimane solo la malinconia, perché Roma, oggi, è lontana mille miglia: non esistono più i rapporti umani che vivevamo al tempo, le infinite discussioni che avevamo al Caffè Rosati di Piazza del Popolo, in Piazza di Spagna, sui Giardini del Pincio…”
Aspetta, Marina: i Giardini del Pincio mi ricordano qualcosa!
“Che battaglia! Nell’autunno del 2007 e poi nell’estate del 2008 -giorno di Ferragosto- con mio marito Carlo sono stata protagonista di un’accesa difesa per salvare questa meraviglia di Roma: scritte con bombolette spray sulla recinzione dei lavori, picchettaggi, volantinaggi, scioperi della fame, appelli al Papa in Piazza San Pietro perché, come Vescovo di Roma, pregasse per bloccare lo scempio di sventrare la terrazza del Valadier e infilarci dentro una mega parcheggio di sette piani! Pensa, arrivammo anche a far officiare una messa a Santa Maria del Popolo in suffragio dell’anima di Giuseppe Valadier, architetto, orafo e argentiere italiano, uno dei più importanti del periodo neoclassico. Ci rivediamo ancora, io e Carlo, con quei cartelli appesi addosso -“sventrare il Pincio è un crimine culturale”- con tanto di ombrellino rosso, soli, avvolti dall’insostenibile afa del 15 agosto”.
Torniamo a Moravia e Parise, i tuoi Diòscuri.
“Dopo “Invecchierò ma con calma” del 2012, proseguo sulla scia delle autobiografie, anche se nessuna avrà mai l’impatto de “I miei primi quarant’anni”: quel libro, pubblicato nel 1984, ha segnato un’epoca grazie anche al film diretto da Carlo Vanzina con Carol Alt, nel 1987; come pure “La più bella del reame”. Detto sinceramente, tra il serio ed il sognante, noi protagonisti della vita romana di quel decennio non ci rendevamo neanche conto di godere di questo privilegio: le nostre colazioni, che guidano il ricordo delle pagine, erano animate da tre amici che chiacchieravano di tutto, senza mai parlare di letteratura. Ad Alberto e Goffredo piaceva sentirmi raccontare delle mie avventure, dei miei amori, dei segreti piccanti delle signore che frequentavano il mio atelier d’alta moda: si divertivano come due ragazzini che avevano marinato la scuola e non erano certo teneri nei miei confronti. Non avevano difficoltà a mettermi con le spalle al muro tutte le volte in cui ero stata insopportabile per i miei eccessi, le mie baruffe: Alberto con quel suo fare asciutto e burbero, Goffredo con paterno sarcasmo”.
E Carlo Ripa di Meana quando appare?
“Dopo un’esistenza movimentata e quasi un po’ dissennata, Carlo mi appare ai miei trentacinque anni: colto, politicamente impegnato, lo incontrai praticamente per caso nell’autunno del 1976 a Venezia dove mi ero recata con Memè Perlini e Antonello Aglioti che presentavano un loro lavoro ai Cantieri Navali, alla Giudecca. Ricordo ancora l’incontro nella bella casina di Wally Toscanini, a Dorsoduro, in Rio Terà dei Catecumeni: lo conobbi in scarpe da tennis, pigiama di flanella e un cappottone militare appoggiato sulle spalle, con i suoi incredibili occhi chiari e trasparenti. Tornata a Roma, raccontai l’episodio a Goffredo con tale passione e trasporto da suscitargli un vero moto di rabbia, lui che sosteneva che i politici fossero tutti dei meschini, prime donne, ignoranti, ometti qualsiasi, dei primi della classe che, come quando hai un compito a classe, non ti permettono di scopiazzare neanche un rigo. Mi aggredì quasi, pensavo di aver perso la sua amicizia, ma il destino mi avrebbe riservato un’altra sorte, visto che lui ed Alberto sarebbero stati testimoni delle mie nozze con Carlo!”.
L’anno dopo, “Biennale del Dissenso”…
“Che atmosfera, con quei nouveaux philosophes capeggiati dalla star del gruppo, Bernard-Henry Lévy! Pallido, riccioluto e fascinoso, con quella sua eterna camicia bianca aperta sul collo e le maniche rimboccate, accompagnato da un altro intellettuale del calibro di André Glucksmann, scomparso nel novembre del 2015: i due giovani intellettuali erano stati tra i maggiori sostenitori di quella iniziativa che Carlo Ripa di Meana, in qualità di presidente della Biennale di Venezia, aveva deciso di dedicare, nell’ambito della mostra di quell’anno, al tema del “dissenso” nei paesi dell’Est: c’era stato l’ordine perentorio di Mosca di fermare tutto, il resto è storia. Per la Biennale e per me…”. E così la mia conversazione con Marina scivola via dolce e affettuosa: come quando i ricordi risalgono sino agli inizi dell’amore con Franco Angeli e di quella “generazione perduta”, come di tutte quelle vicende che Alberto Moravia e Goffredo Parise avevano quasi elevato a cifra della propria vita, sospesa tra realtà e poesia. Senza per questo glissare sull’inaugurazione dell’atelier di moda in Piazza di Spagna quando ancora Alberto e Goffredo gironzolavano tra ospiti e modelle, con i giornalisti a chiedergli cosa ci facessero due grandi scrittori in quell’ambiente e Moravia a rispondere che “non c’era nulla di strano e che anzi si stava divertendo in mezzo a tutte quelle belle signore”; o sulle interminabili sciate in quel di Cortina, con un Parise che proprio in quell’ambiente avrebbe reso immortale la propria passione per la neve.
Riavvolgiamo ancora il nastro dei ricordi: chi era Marina Punturieri?
“Era la normalissima figlia di un avvocato, Lionello, nato a Roma ma figlio di un calabrese doc di Melito Porto Salvo: mio nonno, infatti, era un proprietario terriero che coltivava il famoso bergamotto. Dunque, ho sangue calabrese nelle vene! Era una ragazza del quartiere Parioli di Roma che inizia a sognare da un atelier di alta moda di Piazza di Spagna, che sposa il duca Alessandro Lante Della Rovere ed ha una figlia, Lucrezia, Ma questa è un’altra storia! Ci rivediamo nella tua Praia, quest’estate…”.
Cronache delle Calabrie, pag. 29 Egidio Lorito, 19/03/2017