Non sappiamo ancora se ci troviamo di fronte ad un vero e proprio cambio di rotta della comunicazione giudiziaria, ma un dato è chiaro: in Calabria, un magistrato da sempre impegnato nella lotta al fenomeno ‘ndranghetistico si rivolge direttamente alla ‘ndrina su cui ha indagato e rispedisce al mittente una minaccia ricevuta durante un’udienza. Una vera e propria intimidazione alla quale si risponde dalle pagine di un libro. Il magistrato è Marisa Manzini, piemontese di Novara e lombarda di origini, oggi Procuratore aggiunto di Cosenza dopo essersi occupata, in qualità di Sostituto procuratore della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, del territorio di Vibo Valentia: quest’ultimo, una sorta di enorme promontorio pronto a tuffarsi nel mare blu cobalto -qui, a Capo Vaticano, lo scrittore veneto Giuseppe Berto decise di farsi seppellire- convive con alcune tra le più agguerrite famiglie di ‘ndrangheta, come quella dei Mancuso di Limbadi, piccolo centro dell’entroterra. Da queste parti, dicono, le famiglie controllano persino il respiro del territorio, il suo battito cardiaco, per non parlare della flebile economia che, dati alla mano, risulterebbe tra le più ristagnanti d’Italia.
E così capita che durante un’udienza di un importante processo contro la ‘ndrina dei Mancuso, uno dei capi della cosca dia letteralmente in escandescenza, forse per aver capito che il suo tempo fosse finito; o forse, addirittura, per dare al pubblico ministero una prova di forza, proprio da dietro le sbarre, tanto per far capire chi continuasse a comandare, nonostante il carcere duro.
“I mafiosi temono chi ha il coraggio di parlare, vogliono e urlano il silenzio, anzi lo pretendono, perché l’omertà rappresenta uno dei cardini su cui si fonda la forza della ‘ndranghtea”, ci confida Marisa Manzini che ricorda quel drammatico confronto con il boss, da cui è nata l’idea di un libro e lo stesso titolo, da leggere come un vero affronto, una minaccia, un’intimidazione. “Nel corso dell’udienza del 10 ottobre 2016 del processo denominato Balck Money contro la cosca, uno degli apici del gruppo, Pantaleone Mancuso, detto “Scarpuni”, per dimostrare il proprio potere, seppur ristretto in carcere e sottoposto al regime duro, non si asteneva dal lanciare un messaggio chiaro alla comunità, rivolgendosi al pubblico ministero del processo con le seguenti parole;<<Fai silenzio, fai silenzio, fai silenzio ca parrasti assai, hai capito ca parrasti assai? Fai silenzio ca parrasti assai>>. Frasi che denotano il terrore che le cosche nutrono nei confronti delle parole, di chi parla”. Due anni esatti dopo il drammatico affronto subito in corso di udienza, Marisa Manzini dà alle stampe un testo che fa leva proprio sulla forza delle parole, per imprimere alla lotta contro la criminalità organizzata una vera e propria accelerazione culturale e sociale: non solo si restituisce al mittente l’affronto subito, ma lo si carica di una forte connotazione culturale, proprio laddove la paura, l’indifferenza, l’omertà rappresentano i tasselli sui quali il fenomeno criminale calabrese ha costruito un impero praticamente mondiale. Un fatto senza precedenti l’affronto al magistrato: di pari forza reattiva la risposta del magistrato, capace di aver intuito il terreno su cui la mafia calabrese debba essere combattuta. “A differenza delle altre mafie, la struttura interna a ogni cosca poggia sui membri di un nucleo familiare legati tra loro da vincoli di sangue, le ‘ndrine”, evidenzia Otello Lupacchini, Procuratore generale di Catanzaro -celebri le sue inchieste sul caso Moro, Banda della Magliana, omicidi Calvi e D’Antona- che del testo ha curato la prefazione.
“Stai zitta perché hai parlato assai” rappresenta l’ennesimo attacco che una cosca sferra allo Stato nel compimento della sua funzione giurisdizionale: Stato che, rappresentato a dovere, nulla ha da temere, soprattutto durante la celebrazione di un processo.
Egidio Lorito, “Libero” / Attualità 02/12/2018