Sembrava essere stata definitivamente consegnata alla ricerca storica la stagione delle stragi, quel biennio 1992-1993 che vide vittime prescelte Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, assieme ai valorosi uomini della scorta ed ai civili uccisi negli attentati di Via dei Georgofili a Firenze, e di Via Palestro a Milano.
Ora si dovrà parlare di triennio, partendo dal 9 agosto del 1991 quando, lungo la strada che collega Campo Calabro e Villa San Giovanni, in località Piale, alle porte di Reggio Calabria, un commando intercettò l’auto su cui viaggiava Antonino Scopelliti, 56 anni, Sostituto procuratore generale della Corte di Cassazione: i due killer, a bordo di una motocicletta, esplosero numerosi proietili calibro 12 da fucili caricati a pallettoni, non lasciando scampo al giovane magistrato che finì la sua corsa nel terrapieno sottostante, morendo sul colpo. Un sinistro stradale, la prima ipotesi, poi l’ispezione cadaverica non lasciò dubbio alcuno: Antonino Scopelliti era stato ucciso, ma senza bombe o azioni plateali. Colpito mentre da solo, alla guida della sua auto, se ne tornava a casa dopo una giornata al mare, per cercare sollievo in un periodo di grande stress lavorativo, che lo vedeva impegnato a preparare il rigetto, innanzi alla Corte di Cassazione, dei ricorsi presentati dai difensori della cupola mafiosa, quegli esponenti condannati all’esito del Maxiprocesso a Cosa Nostra.
Forse non molti italiani sapevano, in quella caldissima estate, che come sostituto procuratore generale della Cassazione, Scopelliti sentiva gravare, sulle sue spalle, tutto il peso di dover concludere l’opera che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, avevano iniziato solo qualche anno addietro, scrivendo, lui, la parola fine alla lotta a Cosa Nostra, a mezzo secolo di terrore criminale mafioso. Scopelliti non sapeva che la sua vita era al centro di un accordo tra Cosa Nostra e la ‘ndrangheta: pedinato, segnalato nei suoi movimenti, indicato come un obiettivo da quando, lui magistrato integerrimo, aveva rifiutato ben cinque miliardi per far cambiare sorte alla sua requisitoria contro la Cupola siciliana, come raccontò un pentito. E così, nel marzo di quel 1991, a Trapani, durante un summit tra le più potenti famiglie calabro-sicule, alla presenza dello stesso Matteo Messina Denaro, fu decisa la sua fine: per quanto riportato dai pentiti di ‘ndrangheta Giacomo Lauro e Filippo Barreca, fu la Cupola siciliana a chiedere alla 'ndrangheta di uccidere Scopelliti: i calabresi, come contropartita, avrebbero ottenuto il diretto intervento di Cosa nostra per chiudere la guerra tra le famiglie reggine che aveva causato, all’epoca, oltre settecento morti. Di questo scellerato patto si parlava da sempre, praticamente: ora, la Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, coordinata da Giovanni Bombardieri, è arrivata ad indagare diciassette persone fra Calabria e Sicilia, grazie agli esiti dell’indagine diretta dall’Aggiunto Giuseppe Lombardo, compreso il latitante più ricercato d’Italia, Matteo Messina Denaro. A dare la svolta, il pentito catanese Maurizio Avola, reo-confesso di almeno 80 omicidi -tra cui quello del giornalista Pippo Fava, nel 1984- che mai aveva fatto cenno, dettagliatamente, ai rapporti tra le due mafie. Si riapriranno gli esiti del primo processo che aveva messo alla sbarra calibri quali Totò Riina, Bernardo Provenzano e Filippo Graviano, poi assolti in appello, mentre lo scorso anno il capo della Dda reggina aveva svelato il ritrovamento, in Sicilia, dell’arma che uccise Scopelliti. Ora, sette siciliani -Matteo Messina Denaro, Marcello D’Agata, Aldo Ercolano, Eugenio Galea, Vincenzo Salvatore Santapaola, Francesco Romeo e Maurizio Avola- e dieci calabresi -Giuseppe Piromalli, Giovanni e Pasquale Tegano, Antonino Pesce, Giorgio De Stefano, Vincenzo Zito, Pasquale e Vincenzo Bertuca, Santo Araniti e Gino Molinetti- sanno di essere indagati per la morte di Antonino Scopelliti. Come dire: il gotha delle due cupole criminali.
Egidio Lorito “Libero” / Attualità 02/04/2019