A quasi trent’anni da uno dei più efferati omicidi avvenuti nel nostro Paese, al centro di clamore mediatico e battaglie giudiziarie, capace di influenzare perfino ragazze che inondarono l’autore di lettere d’amore, Pietro Maso torna a parlare e a far parlare di sé. Una vita apparentemente normale, con il piccolo Pietro chierichetto che frequenta la prima media in seminario, poi l’abbandono della scuola ed il cambio radicale di abitudini: bella vita, abiti firmati, ragazze a non finire, vestiti firmati. Il giovane Maso diventa il coccolato di casa, tra genitori adoranti e due sorelle che ne fanno il belloccio di casa. Arriva il successo, di quelli che per chi è nato e vissuto in realtà piccole come San Bonifacio e Montecchia di Crosara, nel veronese, come -del resto- nella provincia di qualunque parte d’Italia, possono dare alla testa: narcisista, preferisce passare da una ragazza all’altra come quando si sfogliavano i petali dalle margherite e circondarsi di amici deboli ed influenzabili come perfetti alter ego.
Come Giorgio Carbognin, 18 anni, che passa dai giochi d’infanzia all’omicidio come se nulla fosse: un ragazzino, raccontano le cronache dell’epoca, che non metterà molto a dichiarare che “da quando ho incontrato Pietro Maso la mia vita è cambiata totalmente, è diventata entusiasmante”.O come Paolo Cavazza, 18 anni, e Damiano Burato, 17 anni, letteralmente rapiti dal fascino di Maso e dalla sua capacità di fare soldi facili. Già, i soldi: le indagini appureranno che fu proprio la ricerca ossessiva di denaro, di quello familiare, ad aver spinto Maso ad ideare l’omicidio dei suoi genitori, Antonio Maso e Mariarosa Tessari quel 17 aprile 1991, al fine di conquistare subito la sua quota di eredità. Non passano neanche due giorni che Maso passa dall’euforia dell’aver realizzato il sogno di una vita agiata all’arresto con l’accusa del reato più terribile ed ignobile per un figlio: trent’anni di carcere, mitigati soltanto da una seminfermità mentale al momento del fatto. Ne ha passati ventidue dietro le sbarre, poi la libertà nel 2012 ed il tunnel della cocaina. Da tre e mezzo è in clinica psichiatrica: di quel gruppo criminale, giovane ma spietato come nella peggior tradizione cinematografica, Giorgio Carbognin e Paolo Cavazza, raccolsero ventisei anni, tredici al più piccolo, il minorenne Damiano Burato. Oggi torna a parlare e, ne siamo convinti, a far parlare di sé: “Don Johnson (il protagonista di Miami Vice) era il mio guru: così bello, così giovane e così pieno di vita. Il telefilm proponeva una visione aperta della realtà, il fascino di una Ferrari bianca. Nella mia testa ero uguale a lui. Volevo stupire e per avere gli occhi addosso mi mettevo le cose più vistose, la punta è stata quando mi sono presentato in discoteca con la tuta da sub”. La ricostruzione dell’omicidio è agghiacciante: “Ci siamo caricati con la canzone di Phil Collins per Miami Vice. Avevamo indossato delle maschere da diavolo. Tutti tranne me, io la maschera ce l’avevo già”. Ricorda la violenza delle spranghe sui corpi dei suoi genitori, le urla strazianti, l’odore de sangue, poi il silenzio dopo gli ultimi gemiti. Lo abbiamo rivisto in televisione, giusto ieri sera, rivelare di un colloquio telefonico con Papa Francesco: “gli aveva chiesto perdono: non ci credevo. Mi ha anche chiesto di pregare per lui. Il Papa che chiede a me, l’ultimo, il maledetto, l'assassino, il mostro, di pregare per lui”. Pietro Maso quasi trent’anni dopo.
Egidio Lorito “Libero” / Attualità 10/10/2019