Carlo Fusaro, costituzionalista, commenta la discussa rielezione del Presidente della Repubblica e rinnova la sua idea di rivoluzione costituzionale.
All’indomani della rielezione di Sergio Mattarella, il costituzionalista ritorna sul suo vecchio progetto di riforma istituzionale che trasformazione rivoluzionaria della costituzione, ma trasformazione rivoluzionaria nel rispetto della Costituzione».
E sottolinea Carlo Fusaro che «se non si fanno le riforme e i cittadini perdono il potere di determinare col voto da chi farsi governare, tutto finisce in mano ai partiti: non solo la selezione dei candidati e la proposta delle politiche, ma la stessa vita e morte dei governi. Questo è quel che non va».
Carlo Fusaro, nato nel 1950 in Svizzera da madre svizzera tedesca e padre italiano (Algimiro Fusaro, Procuratore generale onorario della Corte di cassazione), è stato professore ordinario di Diritto elettorale e parlamentare nella Scuola di scienze politiche “Cesare Alfieri” dell’Università degli Studi di Firenze, dove ha anche diretto il Dipartimento di diritto pubblico “A. Orsi Battaglini”. Visiting professor a Brema, Hiroshima e all’University College di Londra, è stato nel Comitato di direzione dei “Quaderni costituzionali”, la più importante rivista italiana di diritto costituzionale. In Guida alle riforme istituzionali (Rubbettino 1991) e La rivoluzione costituzionale, (Rubbettino 1993), evidenziò l’irrinunciabilità delle riforme costituzionali quale passaggio propedeutico all’evoluzione istituzionale dello Stato. Parlamentare del Partito repubblicano tra il 1983 ed il 1984, è autore con Augusto Barbera di uno dei manuali classici di diritto costituzionale.
Accoglie di buon grado le domande di Panorama.it, evidenziando come «la malattia delle nostre istituzioni politiche è seria e non so se la rielezione di Mattarella basterà: certo fa guadagnare un po’ di tempo».
Professore, un ricordo della sua esperienza di parlamentare: studi sul campo?
«A dire il vero sono stato deputato così giovane (trentadue anni) che non sapevo che avrei dedicato la mia vita professionale allo studio delle istituzioni politiche. E’ stata proprio l’esperienza in Parlamento (da deputato e da assistente dei capigruppo Adolfo Battaglia e Antonio Del Pennino, per nove anni) che mi ha indotto a quel campo di studio: allo scopo preciso di concorrere a migliorare un sistema che zoppicava molto».
La riconferma di Sergio Mattarella può sortire un effetto placebo per le nostre istituzioni politiche?
«Chissà, si può sempre sperare. Ma la malattia è seria e non so se basterà. Certo fa guadagnare un po’ di tempo».
Nello specifico, la maratona elettorale presidenziale ha riportato in superficie una trentennale crisi di sistema.
«La crisi del sistema è ultraquarantennale! Il decalogo di innovazioni costituzionali sulla base del quale si fondò il secondo Governo Spadolini è del 1982, ne nacquero i primi Comitati di studio in ciascuna delle due Camere (prima della stessa Commissione Bozzi, che è della legislatura successiva). Esattamente 40 anni fa».
A proposito: al tema delle riforme lei ha dedicato la sua vita di studioso.
«E’ così. Non sono mai stato attratto dalla dogmatica giuridica, dalle grandi astrazioni teoriche e neppure dalle raffinate spaccature del capello in quattro su aspetti marginali cui si dedicano in tanti: a me è sempre interessato il diritto costituzionale come tecnica per far funzionare le istituzioni politiche nel contesto dato. E a questo mi sono dedicato dal 1983 in avanti».
Una materia che lei definì “tanto incandescente da far temere un precoce invecchiamento”.
«Non ricordo quando ho scritto così. Il vero è che sono invecchiato io occupandomene: ho scritto le prime cose negli anni Ottanta; nel 2015 ho pubblicato un saggio sulla storia delle riforme istituzionale sperando che le riforme Napolitano-Renzi andassero in porto. Sappiamo come è andata».
Da allora, invece, siamo nel bel mezzo di una “rivoluzione costituzionale” mai giunta al capolinea.
«In realtà quel titolo era ambiguo: non voleva dire trasformazione rivoluzionaria della costituzione, ma trasformazione rivoluzionaria nel rispetto della Costituzione. Era l’epoca dei grandi referendum elettorali intesi come strumento, appunto previsto dalla Costituzione, per cambiare le cose».
Lei ha definito questa rivoluzione come “un cambio di regime imposto a dispetto della classe politica, avvalendosi dei mezzi della Costituzione”.
«Esatto, lei è appunto fra i pochi ad aver colto questo punto essenziale. Io però ne parlavo negli anni Novanta. Il guaio è che il cambio di regime andava consolidato con coerenti ed appropriate revisioni costituzionali. Il Parlamento ci ha messo troppo (un ventennio) e quando sono arrivate (così così nel 2006 col centro-destra, bene nel 2016 con Renzi) gli oppositori del momento sono riusciti a convincere gli elettori a buttarle nel cestino, per ragioni brutalmente partigiane».
Il clima è da perenne campagna elettorale…
«Gli elettori non si son resi conto che stavano rinunciando per chissà quanto a decidere in prima persona da chi farsi governare con una certa stabilità, come nei comuni e nelle regioni».
Professore, proprio l’elezione del Presidente della Repubblica continua a segnare come i partiti continuino a trascinarsi per inerzia.
«I partiti politici di un tempo non esistono più. L’unico che vi somiglia, il PD, lo è solo in parte: e con le sue mediazioni fra gruppi interni risulta così estraneo ai tempi attuali che una parte dei cittadini se ne fa beffe (chi è nato dal 1980 in avanti non ricorda cosa furono le correnti nella Dc e nel PSI, altro che PD!). I partiti sono oggi cosa diversa, e in gran parte si identificano nei leader che scelgono. Ma attenzione: sono i cittadini elettori che danno le carte».
Eppure si è dovuto fare ricorso da un “cavaliere bianco”…
«Se in questa XVIII legislatura c’è stato bisogno del governo Draghi di dichiarata ispirazione presidenziale, dipende dalle scelte fatte dagli elettori nel marzo 2018. Sono loro che han dato un seggio su tre a una forza come il M5S e un altro 20% ai sovranisti populisti di destra. Non è “colpa dei partiti”, rectius dei loro leader. Questi han fatto quel che hanno potuto. E saputo naturalmente: io consiglio di non fare di tutt’erba un fascio e distinguere fra i vari protagonisti».
Trent’anni addietro si pensava che una soluzione potesse essere il superamento del governo multipartitico...
«Veramente si è pensato seriamente al superamento del governo multipartitico frammentato soprattutto negli anni 2014-2016: l’Italicum, l’ottima legge elettorale approvata nel 2015, a questo puntava (non c’erano coalizioni per il premio). Ma i cittadini con l’aiuto della Corte costituzionale se la sono giocata».
…e si guardava nella direzione di un ordinamento post-partitocratico!
«Beh, la partitocrazia quale definita negli anni Settanta e Ottanta, effettivamente non c’è più. La presa dei partiti sulla società – per ragioni che non possiamo qui esaminare – è oggi infinitamente minore rispetto ai tempi della partitocrazia trionfante. Certo se non si fanno le riforme e i cittadini perdono il potere di determinare col voto da chi farsi governare, tutto finisce in mano ai partiti: non solo la selezione dei candidati e la proposta delle politiche, ma la stessa vita e morte dei governi. Questo è quel che non va».
Non è che la “rivoluzione” sia stata sin troppo indolore? I partiti sono ancora al loro posto e la crisi…anche.
«Non concordo: i partiti di oggi sono cosa del tutto diversa da quelli di allora, e pure i gruppi dirigenti. Ripeto: unica parzialissima eccezione il PD, nel quale e vicino al quale sopravvivono pezzi della classe dirigente di un tempo (dei DS e degli eredi della DC e di altre forze). La crisi non è certo superata perché il processo riformatore è stato bloccato e perfino invertito».
Intanto c’è chi guarda a un ritorno al sistema proporzionale.
«C’è sempre stato e sempre ci sarà. In effetti la legge elettorale vigente (solo dal 2017) è per due terzi proporzionale, con piccolo sbarramento al 3%. Certo: resta la possibilità di apparentarsi per conquistare i seggi uninominali (150 alla Camera, 75 al Senato). Si tratta di usarla bene: è possibile. O di correggerla, per esempio abolendo gli apparentamenti. Ma la proporzionale integrale produrrebbe solo altra frammentazione (non è già sufficiente?). Soprattutto io sostengo che qualsiasi riforma elettorale è inopportuna finché non si pone mano anche a una omogenea revisione costituzionale (minimo con la fiducia in una Camera sola)».
Le elezioni politiche, salvo imprevisti, cadranno fra un anno.
«Direi proprio di sì. Il punto è usare bene quest’anno dando il dovuto (e promesso) sostegno al Governo Draghi: questo è stato il senso della rielezione di Mattarella. Assicurare continuità di governo per un anno e garanzia di certi valori e certe scelte fino al 2029. Ma il tempo va usato bene, non per una campagna elettorale lunga quindici mesi».
Professore, cosa rimane della sua “rivoluzione”?
«Non mia ma di un intero Paese, mobilitato da minoranze presenti in quasi tutti i partiti e nella società (si pensi alla Fuci e alle Acli), guidate dal Comitato referendario di Mario Segni e Augusto Barbera. Resta molto: resta aver ottenuto la governabilità a livello comunale e regionale. E resta una cultura della stabilità e della qualità istituzionale che ha reso i cittadini più esigenti (anche se ahimé incoerenti nel voto, spesso)».
La situazione non è più di partitocrazia dominante, se mai l’opposto!
«Resta da fare il più a livello nazionale: ma gli esempi del 2006 e del 2016 mostrano che si può fare. Prima ci riproveremo con la determinazione del caso meglio sarà. Resto convinto che gli uomini (e i partiti) vadano aiutati da istituzioni (Costituzione, legge elettorale) adeguate. Darsele è la precondizione per rilanciare un Paese che ha potenzialità enormi ma che non ha ancora invertito, forse al più fermato, il suo declino».
Panorama.it Egidio Lorito, 14/02/2022