Il politologo non crede nell’esplosione di un conflitto nei prossimi giorni. Ma osserva: «anche se la crisi verrà superata, non si assisterà alla risoluzione totale della vicenda, perchè coinvolge la vocazione imperiale della Russia».

Angelo Panebianco, bolognese, classe 1948, è professore emerito di scienza politica all’Università di Bologna, dove ha insegnato Sistemi internazionali comparati nella facoltà di Scienze politiche, contribuendo anche alla nascita della sede di Forlì. Già   docente di Teoria politica e Geopolitica alla facoltà di filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, negli anni Settanta ha insegnato alla John Hopkins University di Bologna, svolgendo attività di docenza e ricerca in prestigiosi atenei quali la Harward University, l’University of California-Berkely e la London school of economics and political science. Già membro di comitato di redazione e di direzione della rivista di cultura politica Il Mulino, è editorialista del Corriere della Sera.   

Alle domande di Panorama.it, il politologo risponde con un’analisi ora interna -«l’idea dell’accerchiamento, della minaccia esterna, come elemento strutturale nelle relazioni internazionali del popolo russo», ora comparata - «con Ucraina e Taiwan  siamo di fronte ad una vera e propria rivendicazione imperiale».   

Professore, lungo i 1.576 chilometri che separano Russia e Ucraina ha ripreso a disputarsi una querelle secolare.

«Per almeno due ragioni. La prima è di ordine puramente simbolico, considerato che proprio dall’Ucraina, dalla terra di Kiev, vide origine la madre Russia: si tratta di un legame ancestrale verso un Paese considerato parte della sua stessa identità. La seconda, di ordine geopolitico, chiama in causa i rapporti con l’Occidente, l’Europa e gli Stati Uniti, sul piano dell’ampio ventaglio di problematiche della sicurezza internazionale».

C’è da preoccuparsi per quest’escalation di avvenimenti?

«La preoccupazione di fondo esiste, anche se non è detto che ci troveremo nell’immediato a commentare una guerra in corso. Anche se questa crisi verrà superata, non è detto che si assisterà alla risoluzione totale della secolare vicenda, perchè il problema coinvolge la stessa vocazione imperiale della Russia. Riprendersi questo territorio, o almeno parte di esso, per Putin è questione essenziale, fisiologica, direi».

Un equilibrio del terrore tutto interno all’impero russo?

«Sono molteplici i modi per mettere in ginocchio un Paese, non c’è solo l’opzione militare, e Putin conosce bene tutte le variabili percorribili. La fornitura di gas russo da cui Kiev dipende, il sistema delle telecomunicazioni facilmente hackerabile sono modalità non convenzionali per mettere all’angolo un vicino scomodo, e una grande potenza come la Russia conosce perfettamente modalità e strategie per piegare l’Ucraina, pur senza arrivare ad un’invasione militare».

Intanto la Russia ha ammassato migliaia di uomini e schierato strumenti bellici al confine. Kiev è a un tiro di schioppo…

«La capitale ucraina dista circa duecento chilometri dal confine russo, niente per le sterminate dimensioni di quelle terre, e questo dato geografico va tenuto in debito conto, bilanciato, fortunatamente, dalla reazione occidentale che potrebbe, almeno per ora, sconsigliare alla superpotenza russa un attacco frontale e diretto. Di sicuro, tutta l’area orientale dell’Ucraina, il Donbass per l’esattezza, sembra avere il destino segnato dall’essere inglobato nell’impero di Putin, pronto a farne una specie di Stato vassallo».

La zona è storicamente instabile…

«Semplicemente perché l’Ucraina riveste un’importanza strategica per rafforzare la posizione nei confronti della Crimea, che, a sua volta, molto difficilmente l’Ucraina riuscirà a recuperare. Non dimentichiamo che dal 6 aprile del 2014, si combatte praticamente, senza esclusioni di colpi».

Sinceramente: Putin avrebbe osato tanto se alla guida degli Stati Uniti ci fosse stato ancora Donald Trump?

«Sinceramente non sono in grado di saperlo… Forse avrebbe anche osato con maggiore forza, immaginando che Trump non si sarebbe speso troppo in difesa di un Paese europeo. A posteriori è estremamente difficile rispondere con precisione: un dato certo, un parallelo a parti inverse che potrebbe valere da pietra di paragone, è fornito dall’Afganistan, un segnale per i russi e per i cinesi, di debolezza degli Stati Uniti nel modo in cui uscirono da quel Paese e questo ha certamente rafforzato la volontà delle due potenze orientali».

 In che senso, ci scusi?

«Che prima o poi la crisi su Taiwan farà sentire il suo peso. Putin ha più volte affermato come il crollo dell’Unione sovietica sia stata la più grande catastrofe della storia recente, non riferendosi al comunismo, quanto alla fine dell’Impero russo. I suoi continui rimandi a Pietro il Grande, lo zar che ha come modello, dimostrano che nel suo animo c’è il sogno di ricostruire la Russia come potenza imperiale. Si tratta di un elemento che fa presa su un’ampia parte della popolazione, per la quale memoria storica e identità nazionale sono capaci di rinfocolare l’antico sentimento imperiale».

Nella politica di potenza russa c’è un elemento specifico imprescindibile?

«La classe politica dirigente russa, salvo la breve parentesi di Mikhail Gorbaciov, ha sempre utilizzato come strumento di legittimazione del proprio potere l’idea dell’accerchiamento, della minaccia esterna. Si tratta di un elemento strutturale nelle relazioni internazionali del popolo russo, la ragione per cui la Russia, proprio da Pietro il Grande in avanti, sia sempre stata considerata un elemento di destabilizzazione in Europa».

Un modo per sentirsi al centro dell’attenzione internazionale…

«Infatti se tu ti legittimi, innanzi al tuo popolo, affermando di sentirti continuamente accerchiato, il risultato, alla fine, sarà il verificarsi di reazioni aggressive. Ricordo come Henry Kissinger, nel suo ultimo saggio “World order”, avesse molto enfatizzato questo profilo, indicando nella Russia un elemento di destabilizzazione dell’Ordine mondiale, fondato proprio sulla continua denuncia di sentirsi al centro di minacce esterne, vere o presunte».

Biden -che non è Trump- la Nato e l’Unione europea stanno gonfiando i muscoli per spaventare Putin…

«La Nato certamente, gli Usa forse. Ma che l’Unione europea sia in grado di mostrare i muscoli, questo è da vedere, chiamata com’è a confrontarsi con una problematica vitale quale la fornitura del gas, indispensabile per vivere. Se pensiamo al concetto di “autonomia strategica”, concetto politico dell’Unione europea nell’attuale sistema multilaterale, ci accorgiamo come solo Putin abbia mostrato al mondo come attuarlo e cosa voglia dire, effettivamente». 

Non vogliamo credere che l’Europa non abbia ancora preso coscienza di questo profilo!

«Ciò di cui l’Europa ha finalmente preso coscienza è di non poter rimanere alla mercè delle scelte di un autocrate i cui interessi possono facilmente entrare in plateale conflitto con quelli europei. Forse nel corso dei prossimi anni assisteremo ad una riduzione sostanziale della stessa fornitura di gas, ma oggi quest’orizzonte è ancora lontano dal materializzarsi» 

Ciò spiega gli ondeggiamenti dell’Europa?

«Certo, quelli della Germania soprattutto e le difficoltà dell’Italia. Naturalmente, se Putin decidesse di chiudere i rubinetti del gas, il costo sarebbe pesantissimo anche per la Russia, ma sappiamo come le potenze autoritarie siano sempre pronte a pagare costi altissimi allorquando decidano di entrare in competizione con altri Paesi per affermare la propria politica di potenza».

L’Europa ci fa preoccupare anche per questo profilo.

«Mi ha colpito sentire voci tedesche e italiane che ancora continuano a distinguere il profilo degli affari economici da quello della geopolitica, mentre per Putin le due sfumature sono praticamente sovrapposte. In una società pluralistica e democratica, mondo degli affari e politica tendono a rimanere separati, in un’autocrazia -come la Russia di Putin, per intenderci- interessi economici e geopolitici parlano la stessa lingua».

E la tanto decantata “difesa comune europea”?

«Eh, sorrido… L’Europa è fortemente dipendente dall’esterno, vuoi per la sfumatura economica (il gas russo), vuoi per la sfumatura militare, (Nato e Stati Uniti). Il punto chiave è un altro: Francia a parte, che da sempre rivendica la sua tradizione di grandeur, sino ad atteggiamenti individualistici, spetterebbe alla Germania assumere il ruolo di potenza leader in Europa, profilo allo stato non considerato da Berlino. E francamente, in difetto di questa prospettiva, non immagino come poter sostanziare questa difesa comunitaria, oggi non più di una pia intenzione».

Proviamo un’analisi comparativa: l’Ucraina sta alla Russia come Taiwan sta alla Cina…

«In tutti e due i casi siamo di fronte ad una vera e propria rivendicazione imperiale, qualunque sia l’opinione di chi fisicamente vive in quei territori. Ci troviamo innanzi ad un conflitto di cultura politica ed istituzionale: in Occidente vale l’dea che la decisione sulle scelte politiche interne appartenga al popolo che vive su quel territorio, grazie alla classica visione dell’autogoverno. Questo profilo, ovviamente, che ha sempre evidenziato l’avversione di Putin sull’ingresso dell’Ucraina nella Nato».

Siamo all’abc della dinamica istituzionale.

«Da noi prevale la voce di coloro che abitano un territorio, come classico principio della sovranità: ogni qualvolta ci sia una richiesta dei cittadini e dei loro rappresentanti questa non può non essere accettata. All’opposto ragiona la dottrina imperiale: Taiwan fa parte della Cina, non si discute e se i suoi abitanti dimostrano qualche opposizione, anche velata, le conseguenze negative le pagheranno gli oppositori. Stesso atteggiamento è quello della Russia nei confronti dei Paesi che ritiene debbano ricadere sotto l’ombrello dell’impero».

Professore, questa crisi cosa sta indicando alla comunità internazionale?

«Che in un mondo di interdipendenze occorra rimanere vigili per non ritrovarsi dipendenti da potenze autoritarie: per una lunghissima stagione, abbiamo coltivato una tradizione, nel pensiero occidentale, che dava per scontato che l’accrescimento dell’interdipendenza internazionale di per sé avrebbe, per dirla alla Montesquieu, addolcito i costumi, cioè reso obsoleta la guerra e la competizione di potenza».

Tradotto in termini di real politik?

«La ragione per cui, ad esempio, la Cina sia stata accettata nella Wto, la World trade organization (l’Organizzazione mondiale del commercio): l’idea è che più questa potenza entrasse in un rapporto di interdipendenza con il resto del mondo, tanto più si esorcizzasse l’insorgere di conflitti di potenza con questo colosso economico e militare. Purtroppo oggi, questa linea interpretativa non vale più». 

Se ne potranno trarre i giusti insegnamenti?  

«L’interdipendenza può, in alcune situazioni, conferire un vantaggio alla potenza autoritaria proprio perché mentre nel mondo occidentale, nelle economie di mercato, gli interessi economici e quelli politico-strategici non sono sovrapposti -cioè non c’è un autocrate che tira tutte le fila- invece nelle potenze autoritarie questa figura è preponderante, e quindi l’interdipendenza può diventare un vantaggio per quella potenza e uno svantaggio per gli altri Paesi che si trovano a subire, in certe situazione, un ricatto non previsto».

 

Panorama.it                                                    Egidio Lorito, 07/02/2022            

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