Depositate le motivazioni delle decisioni sui tre referendum rigettati. La professoressa Elisabetta Lamarque spiega perché la Corte costituzionale li ha dichiarati inammissibili.

Per la costituzionalista della Bicocca «le tre sentenze di inammissibilità delle richieste referendarie presentano un’accurata ricostruzione del quadro normativo su cui sarebbe andato a incidere il voto degli elettori se il quesito fosse stato ammesso, e illustrano diffusamente i motivi di inammissibilità».

Elisabetta Lamarque, milanese, insegna Diritto costituzionale e Giustizia costituzionale presso la School of Law dell’Università di Milano-Bicocca. È attualmente componente del General Council dell’Italian Chapter della International Society of Public Law (ICON·S), coordinatrice del Gruppo di Lavoro del Ministero per gli affari regionali e le autonomie, oltre che membro del Tavolo nazionale sui diritti delle persone fragili del Ministero della Giustizia e della Commissione del Ministero per i rapporti con il Parlamento. In passato ha fatto parte del direttivo dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti ed è stata assistente di studio presso la Corte costituzionale dei presidenti Valerio Onida e Marta Cartabia: autrice di circa centocinquanta contributi su argomenti vari di diritto costituzionale, tra le sue pubblicazioni si segnalano i volumi Prima i bambini. Il principio dei best interests of the child nella prospettiva costituzionale, FrancoAngeli, 2016 e Corte costituzionale e giudici nell’Italia repubblicana. Nuova stagione, altri episodi, Editoriale Scientifica, 2021.

Professoressa, partiamo dal vaglio di ammissibilità della Corte costituzionale per i quesiti referendari

«Quando l’Assemblea Costituente decise di istituire la Corte costituzionale, le affidò competenze molto importanti, ma non le diede alcun ruolo nel controllo delle richieste di referendum abrogativo».

Ma occorreva che qualcuno controllasse che i referendum rispettassero il dettato costituzionale…

«Certamente! In effetti, la Costituzione fin dall’inizio vietava, e vieta anche oggi, che gli elettori possano essere chiamati a decidere direttamente, con un sì o con un no, sull’abrogazione o meno delle “leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali” (art. 75 Cost.). Ma all’inizio non si era pensato a chi potesse essere il guardiano di questi limiti.

E questa lacuna fu allora colmata affidando alla Corte costituzionale il controllo sulle richieste dei promotori.

«Sì, venne abbastanza naturale incaricare di questo compito la Corte costituzionale, che era stata concepita proprio per controllare che tutti i soggetti dell’ordinamento – in questo caso si trattava del corpo elettorale – agissero nel rispetto della Costituzione. E lo si fece con una legge costituzionale del 1953».

E la Consulta si ritrovò improvvisamente in mano un grandissimo potere!

«È vero. Le venne affidato lo straordinario potere di scegliere, di volta in volta, se soffocare sul nascere le istanze, provenienti dal popolo, di eliminare leggi fatte dai rappresentanti del popolo ma sgradite a una parte del popolo stesso, oppure – al contrario – di aprire la strada al voto referendario. Si trattava di un potere in più, un regalo per la Corte da parte del legislatore costituzionale, ma era un regalo che portava con sé molte insidie. C’è infatti chi lo ha paragonato al “dono della mela avvelenata”» 

Allora secondo lei la Corte costituzionale corre un pericolo ogni volta in cui è chiamata a decidere dell’ammissibilità di una richiesta di referendum?

«C’è sempre un rischio concreto: quello di perdere l’immagine di giudice autorevole e imparziale che la Corte si è guadagnata sul campo, esercitando le altre sue competenze, in questi quasi settanta anni di attività. Sia che ammetta il quesito, sia che non lo ammetta, infatti, inevitabilmente scontenterà qualcuno: o i promotori del referendum o i difensori della legge. E gli scontenti hanno poi facile gioco nell’accusare la Corte di parteggiare per i loro avversari politici, e dunque di non essere un giudice imparziale. È così che la Corte si trova scaraventata nella polemica politica».

Accuse di politicità, di imprevedibilità, di arbitrarietà delle valutazioni in tema di ammissibilità dei referendum.

«Accuse che, come dicevo, in parte sono inevitabili, derivando dalla stessa attività del decidere, ma che in parte dipendono certamente anche dal fatto che nel corso del tempo la Corte costituzionale ha ampliato le ragioni per dichiarare l’inammissibilità dei quesiti referendari».

Gli studiosi affermano che la Consulta si sia presa un ampio spazio discrezionale per decidere dell’ammissibilità delle richieste, e così facendo abbia integralmente riscritto lo stesso istituto del referendum. È vero, secondo lei?

«Pur concordando in linea di massima su questa valutazione, io però ritengo che la Corte costituzionale non avrebbe potuto fare altrimenti. Se la sua funzione nell’ordinamento italiano è quella di difendere la Costituzione, la Corte non avrebbe potuto ignorare l’esistenza, nelle pieghe della Costituzione, di altre esigenze, ulteriori rispetto ai pochi limiti testualmente contenuti nell’art. 75 Cost., che impongono di fermare l’abrogazione tramite referendum dell’una o dell’altra legge».

Entriamo dunque nel merito dei quesiti non ritenuti ammissibili.

«Le tre sentenze depositate qualche giorno fa presentano un’accurata e complessa ricostruzione del quadro normativo su cui sarebbe andato a incidere il voto degli elettori (se il quesito fosse stato ammesso) e illustrano diffusamente i motivi di inammissibilità. L’unica delle tre che fa riferimento ai limiti contenuti testualmente nella norma costituzionale dedicata al referendum, però, è quella che blocca il quesito che la Cassazione ha intitolato: “Abrogazione di disposizioni penali e di sanzioni amministrative in materia di coltivazione, produzione e traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope”».

Si riferisce al quesito “sulla cannabis”…

«Lo chiamerei piuttosto il quesito sulle droghe tout court, perché non riguarda soltanto la coltivazione casalinga delle droghe leggere. Comunque, per dichiararlo inammissibile la Corte ricorda come l’art. 75 Cost. vieta tutti i referendum il cui risultato possa entrare in contrasto con quanto previsto dai trattati internazionali» 

In che modo, ci perdoni…

«La domanda proposta dai promotori, in caso di vittoria dei sì, avrebbe portato a un risultato in aperto contrasto con numerosi obblighi internazionali, assunti dall’Italia, che chiedono di sanzionare la coltivazione e la produzione di droga. Ne sarebbero risultate infatti depenalizzate non solo la coltivazione domestica e rudimentale di una droga leggera quale la canapa indiana – e cioè la sola attività a cui sembravano volersi riferire i promotori – ma anche la coltivazione agraria e massiva sia della stessa canapa indiana, sia di alcune droghe pesanti come il papavero sonnifero e le foglie di coca. Questa è la ragione principale di inammissibilità del quesito». 

L’inammissibilità ha colpito anche la richiesta di referendum sulla depenalizzazione dell’eutanasia.

«Anche in questo caso devo precisare che non era affatto questo l’oggetto del quesito. Il nome ufficiale, e corretto, che la Cassazione gli ha dato è: “Abrogazione parziale dell’art. 579 del codice penale (omicidio del consenziente)”.

Anche qui, allora, occorre fare chiarezza.

«Come la Corte nota, il risultato del “ritaglio” delle frasi dell’articolo del codice penale sull’omicidio del consenziente che i promotori proponevano sarebbe stato, nel caso di vittoria del sì, il seguente: “Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con le disposizioni relative all’omicidio se il fatto è commesso: 1) contro una persona minore degli anni diciotto; 2) contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti; 3) contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno”».

Per la Corte non si sarebbe protetto a sufficienza il diritto alla vita.

«La ragione di inammissibilità è proprio questa: l’impossibilità che il popolo sia chiamato a eliminare, mediante referendum, una normativa “costituzionalmente necessaria” perché posta a tutela della vita. La vittoria del sì non avrebbe reso penalmente lecita soltanto l’eutanasia, e cioè l’omicidio di una persona affetta da malattie gravi e irreversibili che desideri porre fine alle proprie sofferenze, ma avrebbe reso lecito qualsiasi omicidio, purché la vittima fosse stata d’accordo».

Avremmo avuto casi limite…

«Sarebbero diventati leciti anche, ad esempio, l’omicidio di una persona che avesse prestato il consenso per errore (se l’errore non fosse stato indotto da suggestione), e l’omicidio di chi, pur non gravemente malato, avesse acconsentito a essere ucciso solo perché si trovava, anche solo momentaneamente, in una condizione di disagio di qualsiasi natura (affettiva, familiare, sociale o economica)».

In pratica cosa ha affermato la Corte?

«Che norme come quelle dell’art. 579 del codice penale, che punisce appunto l’omicidio del consenziente, essendo “poste a tutela della vita”, potrebbero eventualmente essere modificate e corrette dal legislatore, ma non possono essere “puramente e semplicemente abrogate”, perché così verrebbe compromessa la protezione della vita umana “a tutto vantaggio della libertà di autodeterminazione individuale”».

Infine ci sono i motivi alla base della inammissibilità della responsabilità civile dei magistrati.

«Al quesito la Cassazione ha dato il nome di “Responsabilità civile diretta dei magistrati: abrogazione di norme processuali in tema di responsabilità civile dei magistrati per i danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie”. Le ragioni di inammissibilità addotte dalla Corte sono più di una, ma quella principale è che in questo caso lo strumento del referendum sarebbe stato usato impropriamente, e cioè non per abrogare, totalmente o parzialmente, una legge, come richiede l’art. 75 Cost., ma, al contrario, per creare una disciplina completamente nuova, ricavata ritagliando il testo della legge in alcune sue parole o in alcune sue frasi in modo tale da manipolarne il significato» 

Proviamo a semplificare…

«Il ragionamento svolto dalla sentenza è complesso, ma ci provo. La Corte spiega che, secondo la legge oggi vigente, l’azione volta a ottenere il risarcimento di un danno causato da un giudice deve essere rivolta allo Stato; se poi lo Stato perde in giudizio, allora potrà agire – si dice agire “in rivalsa” – contro quel giudice che, nell’esercizio delle sue funzioni, abbia causato quel danno con dolo o con negligenza non scusabile. Soltanto allora il giudice sarà coinvolto, e solo allora “pagherà” di tasca sua». 

Cosa ha affermato la Corte?

«Secondo la Corte, il quesito proposto agli elettori, in caso di vittoria del sì, avrebbe fatto saltare – ritagliandole dal testo della legge attualmente vigente – espressioni quali (azione) “contro lo Stato” e “in sede di rivalsa”, allo scopo di introdurre un nuovo tipo di responsabilità diretta del giudice, ma non avrebbe fatto espandere le norme relative alla responsabilità civile degli altri funzionari dello Stato, perché la Costituzione impone che la magistratura goda di una tutela maggiore, capace di assicurare l’indipendenza del giudice e l’autonomia delle sue funzioni».

In altre parole?

«La vittoria del sì avrebbe manipolato creativamente il testo attuale di legge introducendo un sistema completamente nuovo di fare valere la responsabilità dei giudici, e questo sistema non sarebbe stato in linea con la fondamentale esigenza costituzionale di tutela dell’indipendenza e dell’imparzialità dei giudici».

Lei cosa pensa…

«Che la Corte abbia fermato questo referendum soprattutto perché riteneva che a seguito della possibile vittoria dei sì, i giudici si sarebbero trovati personalmente esposti – senza lo scudo dello Stato – a qualsiasi azione giudiziaria, anche pretestuosa o temeraria, proveniente dalla parte scontenta di come il suo processo si era chiuso».

Insomma, sarebbero stati in gioco indipendenza e imparzialità dei magistrati.

«Pensiamoci bene: se un giudice teme che chi perde nel suo processo possa fargli causa anche pretestuosamente, allora potrebbe essere tentato di dare ragione, nelle sue sentenze, sempre al più potente e al più forte economicamente, perché soltanto chi ha le risorse economiche potrebbe provare a intentargli azione di risarcimento, mentre da chi non è ricco e potente il giudice non può temere alcuna ritorsione».

 

Panorama.it                                                    Egidio Lorito, 14/03/2022

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