In appena due mesi, evidenzia il sociologo della Luiss di Roma, è emerso il classico «clima di panico che accompagna la formazione e il propalarsi di notizie spesso incontrollabili, unitamente all’effetto di desensibilizzazione ai contenuti mediali, a causa dell’esposizione ripetuta alle immagini di violenza, di morte e di devastazione».
Michele Sorice, romano di origine irpina, classe 1961, è ordinario di Sociologia della comunicazione alla Luiss di Roma, dove insegna anche Partecipazione politica e governance, Comunicazione Politica e Political Sociology: direttore del Centre for Conflict and Participation Studies (CCPS), ha insegnato alla Sapienza “Università” di Roma, all’Università della Svizzera italiana di Lugano e alla Pontificia Università Gregoriana di Roma. Tra le sue pubblicazioni più recenti si segnalano Partecipazione democratica. Teorie e problemi (Mondadori Università, 2019), Sociologia dei media. Un’introduzione critica (Carocci, 2020), Partecipazione disconnessa (Carocci, 2021) e, con Leonardo Morlino, L’illusione della scelta. Come si manipola l’opinione pubblica in Italia (Luiss UP, 2021).
Panorama.it ha incontrato Michele Sorice per riflettere su «processi di anestetizzazione creati dalle immagini di guerra e successiva polarizzazione del dibattito mediatico».
Da una parte assistiamo ad una evidente crescita del livello della paura, dell’ansia, del panico morale che accompagna, soprattutto, la prima fase dell’irruzione di notizie a sfondo bellico.
«E’ la stessa dinamica accaduta nel caso di gravi attentati terroristici -il crollo delle Torri Gemelle a New York, l’11 settembre del 2001, su tutti- in cui il primo sentimento è quello della paura e della ricerca di informazioni il più possibile approfondite. E qui c’è già un primo elemento da evidenziare: in questa fase, l’opinione pubblica va alla ricerca di un’informazione il più possibile ampia, completa, organica, plurale».
Uno scenario di guerra non facilita l’obiettività dell’informazione.
«In qualunque scenario bellico è difficile ottenere una corretta informazione, soprattutto perché insistono, nel corso del conflitto, meccanismi di propaganda. La propaganda è essa stessa un’arma e accompagna tutte le guerre».
Nulla di nuovo, diremmo…
«La tematica non è certo una novità: sin dalla Prima guerra mondiale, anzi ancor prima, dalle guerre di secessione negli Stati Uniti, già si faceva uso di una forte propaganda mediatica attraverso i fogli di informazione, i giornali dell’epoca, che letteralmente producevano una narrazione funzionale agli scopi politici delle parti e di fatto distorcevano la realtà»
Oggi, di nuovo, ci confrontiamo con una mediatizzazione della società.
«La mediatizzazione è un fenomeno strutturale delle società moderne che, nel tempo, ha impresso una costante accelerazione del fenomeno propagandistico, legato all’utilizzo prima della televisione e poi della rete e più recentemente dei social media. Proprio i social rappresentano uno straordinario elemento di velocizzazione e di entropia dell’informazione nello scenario bellico».
È come se gli scenari comunicativi fossero modellati su quelli bellici…
«Ci confrontiamo con sistemi comunicativi altamente tecnologici che permettono di conoscere di prima mano, almeno in teoria, ogni sorta di eventi. Come non ricordare le giovani “Tiktokers” ucraine che documentavano i primi bombardamenti sulle loro città. E si tratta, ovviamente, di strumenti che possono contribuire a una conoscenza diretta dei fenomeni ma che possono anche creare ulteriore confusione, ovvero disinformazione».
Professore, l’inizio di una fase bellica reca almeno due effetti.
«Il primo che occorre evidenziare è dato dalla montante paura, dal clima di panico che accompagna la formazione e il propalarsi di notizie di questo tipo, soprattutto a causa della loro assoluta incontrollabilità spesso connessa proprio alla ridondanza informativa. Una situazione di disordine che genera sfiducia, paura, panico. Anche standosene comodamente seduti in poltrona».
Il secondo effetto mediale è quello dell’anestetizzazione…
«Nella sociologia della comunicazione si parla di “innoculation theory”, e fa riferimento al processo di desensibilizzazione ai contenuti mediali a causa dell’esposizione ripetuta agli stessi contenuti. Giunge dopo un pò di tempo dallo scoppio di qualunque evento bellico: siamo a due mesi esatti dall’aggressione dell’Ucraina, ovvero un lasso di tempo sufficiente per provocare, dopo martellanti di immagini di violenza, di morte e di devastazione, un senso di abitudine all’evento».
In pratica?
«Si verifica che gli spettatori mediali del conflitto -i telespettatori, soprattutto- considerino routinarie le immagini di guerra, subendo il classico meccanismo di anestetizzazione. Non una novità, certo, considerati gli studi dell’ultimo cinquantennio».
A proposito di ricerca scientifica…
«Neil Postman (1931-2003) elaborò un’efficace teoria socio-politica sul futuro della nostra società: Postman, che per dieci anni diresse il Dipartimento di cultura e comunicazione della New York University, sottolineò, senza mezzi termini, che “una società fondata sulla televisione è una società barbarica”».
Lei fa riferimento al celebre saggio Amusing ourselves to death, pubblicato nel 1985.
«“Divertirsi da morire” rappresenta, a quasi quarant’anni dalla sua pubblicazione, una vera presa di coscienza collettiva dei profili distopici della società in cui stiamo vivendo da almeno mezzo secolo. Il termine distopia fa riferimento ad una società o ad una comunità sostanzialmente immaginaria e al tempo stesso spaventosa e indesiderabile, caratteri che proprio quella contemporanea pare stia assumendo».
Sembra lo scenario tratteggiato da George Orwell nel suo celebre “1984”.
«Lo scenario di Postman, tecnicamente, non è quello descritto da Orwell, ovvero dell’abolizione della democrazia, della coercizione e della sorveglianza, della repressione del dissenso tramite la violenza: l’ambientazione richiama, piuttosto, quella immaginata da Aldous Huxley nel suo “A brave new world” (Il mondo nuovo) nel 1932, ovvero quella di una società insidiosa, seducente e per ciò stesso insidiosa e più pericolosa».
Dalla guerra in diretta televisiva a quella replicata dai social, il passo è stato breve...
«I siti di social networking, con il loro carico di cultura narcisistica e spesso iper-semplificatoria, costituiscono perfetti esempi di disgregazione sociale, a dispetto del loro nome, e per certi versi sembrano rappresentare la naturale prosecuzione della profezia di Postman. Seguendo le sue argomentazioni, potrebbe non essere lontana una società nella quale, nel nome dell’entertainment, una star del web possa assumere rilevanti responsabilità politiche. Oggi appare una prospettiva curiosa ma neanche troppo se pensiamo al fenomeno televisivo della cosiddetta “celebrity politics” studiato già all’inizio degli anni Novanta».
Professore, torniamo al concetto di “anestetizzazione mediatica”.
«Lo spartiacque è rappresentato dalla crisi del Golfo, nell’agosto del 1990, non a caso caratterizzata da una fortissima copertura mediatica e dallo sviluppo del cosiddetto giornalismo “embedded”, la prima a grande impatto mediatico globale. Da quel momento, le immagini di distruzione e morte, drammaticamente replicate negli ultimi due mesi, hanno letteralmente stravolto le nostre vite».
Un senso di normalità non scalfito dalle immagini di morte…
«Capita che nelle nostre famiglie, giorno dopo giorno, si continui tranquillamente a svolgere normali attività quotidiane mentre sullo schermo televisivo come su quello dei nostri smartphone continuano a scorrere immagini di bombardamenti, di morti riversi per strada, di bambini disperati che si aggirano tra le macerie delle proprie abitazioni e di famiglie in fuga: assistiamo a tutto questo dolore come se quelle immagini costituissero uno sfondo a cui siamo abituati».
Paura e assuefazione, allora.
«E’ il rischio dell’informazione di guerra che ci apre un doppio scenario. Da una parte ci troviamo di fronte alla crescita vertiginosa del sentimento della paura, con tutti i suoi effetti sia sulla nostra tenuta psicofisica sia sulla nostra appartenenza comunitaria e nazionale (Che ne sarà di noi? Potremo ancora vivere? Avremo ancora il gas per cucinare e riscaldarci?); e dall’altra, viviamo letteralmente anestetizzati, come assuefatti a ciò che sta accadendo e che ci arriva sin dentro le nostre abitazioni».
Questa seconda fase si è già prodotta?
«Credo di sì, comunque è in corso, e anche con largo anticipo, grazie alla rapidità con cui tv e social media permettono alle immagini di guerra di penetrare il sempre più sottile involucro che protegge, ancora per poco, la nostra vita privata. Ormai la narrazione sulla guerra, con i discorsi ad essa legati, appare essersi impossessata della nostra vita quotidiana, come cioè se si trattasse di accadimenti consegnati alla memoria individuale e collettiva».
Ritorna la “banalità del male”?
«“Normalizzazione” e “banalizzazione” della guerra. Come se morti, dispersi, rifugiati rappresentassero il prezzo del tutto atteso, senza il quale una guerra non sarebbe tale. La guerra stessa sembra diventare qualcosa a cui dovremmo abituarci».
L’informazione di guerra reca un pericolo subdolo, pare di capire.
«Direi che rappresenta il prodotto naturale di questo genere giornalistico, capace addirittura di trasformare gli spettatori in pezzi di tifoserie posizionate sugli spalti di uno stadio. L’effetto è pericoloso: la forte ridondanza delle notizie, dopo aver raggiunto il punto di saturazione mediatico, provoca l’effetto di esaurire il resto dell’informazione sulla guerra stessa, dagli effetti economici a quelli politici. Insomma, le immagini di guerra hanno letteralmente invaso e sostituito la narrazione della nostra contemporaneità da due mesi esatti».
Professore, lettori e telespettatori divisi in tifoserie: parliamo di polarizzazione dell’informazione?
Anche qui, non scopriamo nulla di nuovo, visto che ci confrontiamo con un dato strutturale – quello della polarizzazione, appunto – dell’opinione pubblica contemporanea. Si tratta di un tema che da quasi vent’anni accompagna sia gli studi sulla comunicazione politica sia le analisi più generali sulle relazioni fra media e società. Si tratta di un fenomeno di ipersemplificazione, che spinge la massa degli utenti di un medium a schierarsi, anche pubblicamente, per l’una e per l’altra delle forze in campo».
Ci dividiamo pure in occasione di una guerra!
«Purtroppo sì, scegliendo l’una o l’altra delle posizioni, esattamente come in occasione di una partita di calcio, con lo stadio diviso a sostenere l’una o l’altra squadra. Un fenomeno che abbiamo visto spesso anche nella comunicazione politica e che, peraltro, favorisce i processi di manipolazione».
Polarizzazione come semplificazione, sembrerebbe.
«In parte, perché la divisione della platea degli spettatori attorno a quel candidato, piuttosto che a quel leader, attorno a quell’ideologia piuttosto che a quel tema portante, alla fine, più che semplificare il dibattito pubblico, corre il rischio di ridurlo, depauperandolo di contenuti. Un’ipersemplificazione banalizzante, direi, molto pericolosa.
Nulla di nuovo…
«Certo, ma oggi amplificato dai social media e caratterizzato da picchi di interesse planetario, come per esempio, quelli toccati nel corso delle accuse di brogli mosse da Donald Trump all’indomani della vittoria di Joe Biden nelle elezioni americane del novembre del 2020».
E sulla guerra in corso?
«Il fenomeno è simile, certamente più preoccupante perché sul campo rimangono migliaia di vite umane e la polarizzazione prende il posto dell’indignazione e della pietà. Questa divisione dell’opinione pubblica in vere e proprie tifoserie rappresenta un elemento di ipersemplificazione del dibattito pubblico».
A proposito di divisione…
«Da una parte c’è il tentativo di giustificare l’aggressione neocoloniale di Putin con il ricorso a presunte ragioni storiche interne all’ex Unione sovietica, dall’altra, la demonizzazione strumentale delle posizioni di chi chiede che si cerchi la via del dialogo per salvare vite umane: non è un caso che, in questo scenario, sia quasi scomparsa dall’agenda dei media una voce autorevole e sicuramente non secondaria come quella di Papa Francesco».
Vede un rischio in questa de-complessificazione della realtà?
«Quello di non comprendere il vero nodo della questione: non si tratta soltanto di capire “chi abbia ragione”, chi sia l’aggressore e chi l’aggredito (cosa peraltro banale ed evidente), ma di cercare di capire il dramma che stanno vivendo quasi cinque milioni di sfollati, di rifugiati, che stanno vagando attraverso l’Europea del XXI secolo: cercare di capire il dramma delle famiglie che hanno visto distrutta la loro quotidianità, la tragedia di migliaia di morti, il dramma di migliaia di bambini rimasti soli al mondo».
Polarizzazione ipersemplificatoria, in sintesi.
«La polarizzazione dell’informazione, con la sua geometrica divisione in bianchi e neri, in buoni e cattivi, sta cancellando il dramma umano di questo conflitto che non potrà mai essere solo una questione di geopolitica. Il vero rischio è che la follia di questa polarizzazione ipersemplificatoria, appunto, ci faccia perdere di vista che è la guerra a essere sempre una follia».
Anestetizzazione, polarizzazione, personalizzazione dell’informazione…
«Tematiche del mondo della comunicazione che credevamo relegate in studi, ricerche e manuali di sociologia della comunicazione, e che stanno, invece, riemergendo in queste settimane, trasformandosi in questioni complesse. E che ci interrogano, innanzitutto, come persone».
Panorama.it Egidio Lorito, 24/04/2022