E’ storia dei nostri giorni. Di giorni drammatici come non mai, soltanto a voler dare ascolto ai mezzi di informazione che sul caso-Rosarno si sono buttati come spesso accade da queste parti, sia per le dimensioni di uno scontro che è sembrato di civiltà, che per i tanti interrogativi subito posti. Certo, i tre giorni che hanno chiuso le festività 2009-2010, hanno riportato a galla non solo consolidate tensioni che da tempo covano in un’Italia sempre più multi-etnica, ma hanno -soprattutto- fatto ri-emergere un crogiuolo di problematiche tutte tipicamente calabresi ovvero di una parte ben delimitata ed aggiungo “sfortunata” della splendida penisola di Calabria.
Insomma, tra le aggressioni, la caccia all’uomo, le sparatorie, le vetrine in frantumi, i cassonetti incendiati, la macchine distrutte ed il senso complessivo di una “nostrana” Soweto, è nuovamente saltata agli occhi dell’opinione pubblica nazionale ed internazionale, la drammatica quotidianità di una terra che, da troppo tempo ormai, continua a dare un’immagine di sé così negativa quasi che nulla più contassero storia, cultura, tradizioni, paesaggio, popolazione: insomma è la Calabria “metà inferno e metà paradiso” che non smette mai di stupire, nel male come nel bene. E l’inferno deve proprio essersi materializzato in una cittadina della piana di Gioia Tauro, da alcuni decenni al centro di complessi intrecci di quell’anti-Stato che da queste parti prende l’arcaico ed inquietante nome di ‘ndrangheta.
Non era bastata la misteriosa vicenda delle “navi dei veleni” -realmente chiusa?-, la bomba fatta esplodere innanzi all’ingresso della Procura Generale di Reggio Calabria, la notte del 4 gennaio -quasi a volere dare il segnale che le cosche, forse a seguito di un nuovo agghiacciante patto generale, erano intenzionate a far risentire il proprio opprimente peso- che “improvvisamente” in uno dei centri più importanti della provincia reggina scoppia una sorta di finimondo tra la popolazione residente ed almeno 1500 immigrati, da anni stipati come animali in due zone tristemente adibite a moderno ghetto occidentale. Con il risultato che due Sud del mondo arrivano ad azzuffarsi, pestarsi, sprangarsi, spararsi come solo in televisione eravamo abituati ad assistere: come solo i drammatici filmati di scontri tra forze dell’ordine e “colored” statunitensi ci avevano fino a quel momento fatto vedere.
Occorre fare un passo indietro, giusto di qualche secolo, per far luce su un aspetto di non secondaria importanza per le presenti riflessioni e per capire come -invece- la Calabria abbia sempre mostrato il suo volto di terra ospitale, di seconda “patria” per un numero elevato di popoli e civiltà, pur avendo essa stessa subito invasioni e “visite” che, nel corso della storia, ne hanno profondamente inciso la stessa natura interiore. Difficile da analizzare e comprendere oggi, figuriamoci nella notte dei tempi, “la Calabria è in fondo una regione poco conosciuta: la sua storia si confonde in questo grande spazio antico che è il Mediterraneo (…) un luogo di passaggio fra popoli provenienti da mondi diversi, il luogo di incontro e di fusione tra la storia e il mito. Vi navigavano guerrieri e marinai, filosofi e commercianti che cercavano terre nuove, nuovi approdi, nuovi popoli e nuove razze con le quali conoscersi per comunicare, per commerciare, per fondare nuove città”. 1)
Un crogiolo di popoli, tradizioni e civiltà -dunque- che si sono sedimentate a lungo come strati di rocce di varie epoche: ed ecco le antiche civiltà mediterranee, il periodo greco-romano, quello barbaro-arabo-bizantino, quello normanno-svevo, quello angioino-aragonese, quello del viceregno, quello borbone, quello dell’Unità di Italia, quello contemporaneo; epoche storiche che hanno avuto, però, un unico comun denominatore, ovvero quel Mediterraneo da sempre crocevia di quei popoli, di quelle civiltà, di quelle tradizioni. Ecco perché, proprio nei giorni dello “scontro di Rosarno” mi è parso quanto mai chiaro come il “discorso sul Mediterraneo non può mai essere soltanto un discorso sul mare: molto a ragione Fernand Braudel -la cui opera ha detto probabilmente la parola fondamentale, se non definitiva, sulla storia mediterranea- vi comprende fin dall’inizio l’idea geopolitica della complessità: più che una massa marittima unica, esso è un <>, essenzialmente determinati da una serie di penisole: l’Italia, i Balcani, l’Asia Minore, l’Africa del Nord, la penisola iberica”. 2)
Ed in questo “mare della complessità” viene da sé come non sia assolutamente possibile parlare di “una” Calabria, ma -al contrario- di più “Calabrie”, differenti storicamente e culturalmente, solo a tentare una sommaria visione d’insieme: e proprio il Mediterraneo non poteva che amplificare questa avventura storica, confermandosi, nel corso della storia, come tramite tra questa penisola tutta protesa nel “mare di mezzo” e quella moltitudine di genti caratterizzate dalla più varia provenienza. Anche ragionando da questo particolare angolo di visuale sarà possibile capire come e perché una parte della Calabria di questi primi giorni del 2010 si sia -apparentemente- trasformata in uno scioccante spaccato di intolleranza, violenza e razzismo. Sta tutto qui il nodo che queste poche riflessioni vogliono cercare di sciogliere: una terra che per decenni ha accolto tutto e tutti, che è stata insostituibile crocevia di civiltà eterodosse, è forse divenuta, improvvisamente, intollerante, violenta e razzista? I calabresi sono razzisti? O, meglio: se fino a qualche giorno addietro convivevano più o meno pacificamente con qualche centinaio di extracomunitari, com’è stato possibile passare alle vie di fatto, facendo correre all’intera cittadinanza il rischio di una drammatica esplosione sociale? Gli studi di sociologia dei conflitti etnici ci consegnano interessanti stimoli per cercare di spiegare il senso di questa improvvisa crisi, partendo comunque dalla formazione di minoranze etniche, nate -nel caso che ci riguarda- “nei processi migratori moderni che hanno prodotto in quasi tutti i paesi avanzati una nuova questione etnica, diversa e più intricata di quella tradizionale”, considerato che “non ha a che fare con gruppi di popolazione distribuiti su di un ampio territorio, ma con membri di una data popolazione distribuiti su un ampio territorio. Così, per fare un esempio che riguarda l’Italia (…) abbiamo una nuova questione etnica concernente lo statuto giuridico e sociale (la cittadinanza) dei lavoratori dei paesi del Magreb (Tunisia, Marocco, Algeria), dei lavoratori provenienti da paesi dell’Africa subsahariana, dall’India, dalla Cina; (…)”. E si verifica che la questione “relativa alle nuove minoranze si gioca nell’intero spazio sociale, nel lavoro, nella vita di relazione, nella vita culturale e religiosa (…)”. 3)
Come in qualunque scenario in cui si confrontino residenti ed immigrati, anche dagli episodi di Rosarno sono emersi i tradizionali elementi caratterizzanti un conflitto etnico, ovvero le dimensioni su cui l’azione sociale va ad incidere. Mi riferisco alle “risorse per le quali si conduce il conflitto, alla struttura dell’interazione tra italiani ed immigrati, alla legittimazione e giustificazione dell’azione, agli attori del conflitto” dimensioni, queste, che necessariamente devono essere “incrociate con quelle della società (economia, politica, società civile, cultura) per comprendere i diversi livelli della cooperazione e del conflitto tra popolazione locale e immigrati”. 4) Pur lasciando l’approfondimento delle questioni sociologiche ad altro filone d’indagine, non possiamo non sottolineare come anche l’episodio di Rosarno rientri nel più tradizionale caso che la sociologia definisce di “nuovi conflitti metropolitani”(Cotesta, 1999), in cui attori sociali sempre più differenti, competizione per il lavoro, conflitto per le risorse sociali e riconoscimento delle rispettive identità sociali portano inevitabilmente ad un allargamento delle distanze sociali tra residenti ed immigrati: ne deriva, così, che la presenza “di immigrati allora può essere sentita come minaccia verso la qualità della vita (già del resto piuttosto scarsa) e, soprattutto, verso il conseguimento di status sociale più elevato”, con la conseguenza che “le mobilitazioni degli abitanti contro la presenza degli immigrati nelle periferie costituiscono occasioni di riconoscimento collettivo di attori con il medesimo progetto di identità sociale. La mobilitazione, infatti, porta nelle strade soggetti prima indifferenti gli uni agli altri che, nel contrastare una stessa minaccia al proprio status, scoprono di avere interessi comuni ed una comune identità sociale”. 5)
In qualunque altra parte d’Italia poche riflessioni sarebbero evidentemente bastate per spiegare il fenomeno, per far capire all’esterno i motivi di uno scontro di piazza, anche di dimensioni ampie come quelle di Rosarno. Ma in qualunque altra parte d’Italia -sicuramente- non è possibile registrare la pressante presenza di una forza criminale che, in molte aree della Calabria, da tempo si è messa in netta contrapposizione con lo Stato, tanto che non pochi osservatori la vedono -addirittura- letteralmente sostituire lo Stato stesso, arrivando ad impersonare un vero e proprio “Antistato”, creato non soltanto da forze occulte esterne, quanto anche da quelle stesse chiamate a garantire democraticità e legalità della vita pubblica. Basti pensare che appena tre anni fa, Pietro Grasso -Procuratore Nazionale Antimafia- nel corso di un’audizione innanzi alla Commissione Parlamentare Antimafia, affermava che “in certi paesi della Calabria è lo Stato che vede cercare di infiltrarsi”. 6)
Lo dico, con grande rammarico, da calabrese: Rosarno, la Piana di Gioia Tauro ed almeno ¾ della regione in cui vivo (purtroppo quel misero ¼ sembra assottigliarsi con sempre maggiore velocità) rappresentano il terreno, quasi incontrastato, del dominio di agguerrite cosche la cui potenza di fuoco, di penetrazione nei gangli sociali, istituzionali, politici ed economici sembra non avere confini, non solo in Italia: a farla breve, ci troviamo di fronte alla più potente organizzazione criminale mondiale! “Per quel che riguarda la ferrea organizzazione dei clan, solamente la ‘ndrangheta dispone di un esercito di seimila affiliati, distribuiti nelle 131 cosche attive sul territorio, con la media di un affiliato ogni 345 abitanti. Nell’ultimo rapporto “Sos Impresa” della Confesercenti e relativamente alla Calabria, si legge <